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Les Annales

Les Annales

«Annales d’Histoire économiques et sociales»

Rivista fondata nel 1929 da M. Bloch e L. Febvre con il titolo Annales d’histoire économique et sociale e apparsa poi con altri titoli: Annales d’histoire sociale (1939-41), Mélanges d’histoire sociale (1942-45), Annales. Économies.SociétésCivilisations (1946-93), Annales. Histoire, sciences sociales (dal 1994). La rivista (diretta prima dai due fondatori, poi, caduto Bloch nella resistenza, dal solo Febvre, quindi, dopo la morte di quest’ultimo da F. Braudel, infine, dopo il 1969, da un comitato direttivo di cui hanno fatto parte tra gli altri M. FerroJ. Le GoffE. Le Roy Ladurie, J. Revel e L. Valensi) fu alla base della fondazione da parte di Febvre, nel 1947, di un istituto di ricerca nel campo delle scienze umane e sociali, divenuto nel 1975 l’École des hautes études en sciences sociales. Tra gli obiettivi della rivista e della scuola storiografica che ha ispirato sono la ricerca di una stretta collaborazione con le scienze sociali e il tentativo di pervenire a una storia il più possibile ‘globale’, comtrapponendo alla storia come racconto di avvenimenti (événementielle) una storia concepita essenzialmente come proposta di problemi. (Treccani)

Gallica ha reso disponibile la riproduzione delle rivista digitalizzata a questo indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/cb34414997g/date

Les Annales sul sito di EHESS http://annales.ehess.fr/

Lucien Febvre, Face au vent: manifeste des Annales nouvelles [A nos lecteurs, à nos amis], in Annales. Économies, Sociétés, Civilisations. 1e année, N. 1, 1946. pp. 1-8. url :/web/revues/home/prescript/article/ahess_0395-2649_1946_num_1_1_3175
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Movimento des Annales

Corrente di pensiero e di attività storica (secondo alcuni una vera e propria “scuola”) nata dalla rivista fondata nel 1929 da M. Bloch e L. Febvre, Annales d’histoire économique et sociale, divenuta nel 1946 dopo vari mutamenti di titolo “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation” e dal 1994 “Annales. Histoire et sciences sociales”. Il movimento consiste prima di tutto nei contributi dei direttori e dei collaboratori, ma vi rientrano le opere che la rivista ha suscitato con il suo progetto storiografico, e anche l’attività (dopo la fondazione nel 1947 della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études), di una potente istituzione francese di ricerca. La storia delle “Annales” si può dividere in tre periodi (1929-1944; 1945-1968; dal 1968 in poi). Nel 1929 esse si presentano come la rivista di una storiografia economica concepita in modo nuovo. Il fatto però che né Bloch né Febvre fossero a quella data degli storici dell’economia in senso stretto ci fa pensare che scegliessero strategicamente quel terreno come il più adatto per far valere un concetto nuovo della storiografia in generale: per la possibilità d’una cooperazione internazionale, per le maggiori opportunità editoriali (la rivista avrebbe potuto occuparsi del tempo presente e raggiungere un pubblico formato non solo da storici, ma anche da professionisti e imprenditori), ma soprattutto per la necessità d’un lavoro comune con le scienze sociali, dalla geografia alla statistica, dall’economia politica alla psicologia e alla sociologia. La struttura della rivista, con la prevalenza delle recensioni critiche, richiama quella dell'”Année sociologique” di E. Durkheim, e si è ipotizzato che Bloch e Febvre volessero riprendere, a favore della storiografia, il disegno durkheimiano di un’egemonia della sociologia tra le scienze sociali, elaborato all’inizio del secolo proprio contro la storiografia. Nelle recensioni i direttori fanno valere l’esigenza d’una storiografia concreta, priva di condizionamenti schematici, una storia critica che pone problemi. Non veniva tracciata una linea precisa tra storia e non storia. Venivano discussi i fenomeni più distanti nello spazio e nel tempo: il primo fascicolo abbracciava quasi duemila anni di storia, con articoli sul prezzo del papiro nell’antico Egitto, sull’istruzione dei mercanti nel Medioevo, sull’economia tedesca del primo dopoguerra e sulla popolazione nell’Urss. Si trattavano anche avvenimenti contemporanei, e si svolgevano inchieste sulla crisi delle banche (1932-1934), sulla riforma agraria in Spagna (1933), sul nazismo (1937). Nello stesso tempo si promuovevano gli studi di storia regionale e locale (l’eredità di P. Vidal de la Blache), ma è indubbio che l’ampliamento della nozione di storia si verificò con il porre problemi insoliti per la tradizione storiografica: questioni di storia rurale e stradale, di storia monetaria e dei prezzi, di popolazione e colonizzazione, di storia delle industrie, di archeologia agraria, di storia dei mestieri, della vita materiale, del libro e della tipografia; problemi di iconografia economica, di storia delle tecniche, del lavoro, dei trasporti, dei nomi di persona, delle poste, di archeologia botanica, di storia dell’alimentazione e delle famiglie, di geografia e storia delle fonti documentarie: il tutto affrontato con taglio sociale e su scala geografica mondiale. La linea tra storia e non storia è tracciata dalla capacità di porre nuove domande alle fonti e di rispondere in modo scientifico. La scienza a cui pensano Bloch e Febvre è nello stesso tempo la sociologia dei durkheimiani, la ricerca geografica sul campo di Vidal, la psicologia storica di H. Berr, la comparazione linguistica di A. Meillet. Lo storico assume un compito creativo: «I documenti», scriveva Bloch nel 1929, «restano monotoni ed esangui fino al momento in cui il colpo di bacchetta dell’intuizione storica rende loro l’anima». Febvre avvertiva ancora più forte questo ruolo quasi magico dello storico, perché era sensibile, a differenza di Bloch, alla tradizione della «résurrection du passé» di Michelet. La distanza di temperamento e di formazione tra i due direttori aumentò progressivamente a partire dal 1936. Dopo la morte di Bloch (1944) si ebbe una prima svolta nella storia del movimento: Febvre e F. Braudel, abili politici accademici, portarono al successo il nuovo modello di storiografia, assicurandogli nel 1947 il sostegno di un’istituzione: la VI sezione dell’École Pratique. All’attenzione per lo spazio geografico, il milieu, che aveva ispirato l’inchiesta sui plans parcellaires, i lavori di storia rurale di Bloch, ma anche la tesi di Braudel sul Mediterraneo (1949), si sostituirono, soprattutto per opera di quest’ultimo, l’economia di lunga durata, l’analisi quantitativa delle fonti, il dialogo con la sociologia di G. Gurvitch, il marxismo di C.E. Labrousse, l’antropologia di Lévi-Strauss. Nelle prime “Annales” soggetto della storia erano gli uomini; con le “Annales” di Braudel prevalsero strutture e condizionamenti. Dopo il 1968 il movimento assunse una fisionomia policentrica difficile da disegnare. In generale si reagì al “determinismo” di Braudel con ricerche di storia della mentalità (P. Ariès, A. Dupront), di antropologia storica (J. Le Goff, G. Duby), di microstoria narrativa (E. Le Roy Ladurie), con studi di storia sociale della cultura (M. Chartier) e ricerche sulla trasmissione delle immagini collettive del potere e del passato nazionale (M. Agulhon, P. Nora). Nell’attuale movimento delle Annales la serie dei problemi nuovi si è arricchita rispetto alle proposte di Bloch e Febvre, ma l’impronta del loro esprit si scorge ancora. L’analisi scientifica del movimento, benché esistano studi particolari, è ancora da fare. L’elemento comune a tutto il percorso è la pratica di una storiografia scientifica che adoperi i metodi delle scienze sociali. Rispetto alla Histoire de France di E. Lavisse è questa la novità, e rispetto alle forme contemporanee di storiografia scientifica (per esempio tedesche) è questa l’originalità specifica. Nel movimento si riflettono però anche temi largamente europei, come quello del “genio” dello storico che dà vita ai documenti (si pensi al neokantismo o a Croce), e si ritrovano motivi della tradizione romantica francese, col suo gusto per la narrazione, che contrasta con l’analisi della storia-scienza, e s’avvicina all’antico concetto dell’arte storica e al senso storicistico dell’individualità. Il risultato concreto del movimento delle Annales è tuttavia l’invenzione di problemi storici nuovi, per mezzo d’una combinazione, unica del nostro secolo, di personalità creative, monografie classiche, lavoro collettivo e istituzioni di ricerca. Del contenuto delle “Annales” esistono tre indici bibliografici completi.

• A. Burguière, voce Annales in Dizionario di scienze storiche, Edizioni Paoline, Milano 1992; M. Mastrogregori, Il genio dello storico, Esi,Napoli 1987; T. Stoianovich, La scuola storica francese. Il paradigma delle “Annales”, Isedi, Milano 1978; P. Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle Annales 1929-89, Laterza, Roma-Bari 1992; Aa.Vv., La storia delle “Annales”, n. speciale della “Rivista di storia della storiografia moderna”, 1-2, 1993, Gei, Roma 1994.

M. Mastrogregori (direttore di Storiografia)

per Dizionario di storiografia PBM (Paravia – Bruno Mondadori)

Europa – Febvre

L’Europa non è un continente, non è una dimensione geografica; l’Europa è, semplicemente, una unità storica comparsa col Medio Evo, unità storica fatta, come tutte le altre, di diversità, di pezzi strappati da unità storiche anteriori, a loro volta fatte di pezzi, di cocci e frammenti di unità precedenti.

Quest’idea dell’Europa non si definisce in base a stretti confini geografici, cioè dall’esterno, con l’aiuto di mari, monti, fiumi e laghi. Si definisce dall’interno, con il suo stesso manifestarsi, con le grandi correnti che non cessano di attraversarla. Correnti politiche, economiche, intellettuali, scientifiche, artistiche; correnti spirituali e religiose. Naturalmente unità europea non è uniformità. Nella storia dell’Europa, il capitolo delle diversità resta importante quanto quello delle somiglianze.

L’Europa nasce dopo la fine della civiltà mediterranea di forma imperiale e romana. Nasce dalla unione e dalla lenta fusione di elementi nordici e di elementi mediterranei (questo concetto, in particolare, è fondamentale in tutta l’opera).

Durante tutto il Medio Evo l’azione potente e politica del cristianesimo ha ostacolato la formazione di solide patrie nazionali. D’altro canto, sempre nel Medio Evo, la stessa azione del cristianesimo, facendo continuamente pesare sulle frontiere di regni diversi grandi correnti di civiltà cristiana, ha contribuito a dare agli europei una coscienza comune, che sovrasta le frontiere e che, laicizzatasi a poco a poco, è diventata una coscienza europea. Diciamo, riassumendo, che quella stessa azione potente e che ritardava lo schiudersi delle patrie nazionali, aiutava a contrario, in modo potente la genesi di un’Europa cristiana destinata a laicizzarsi sempre più, a svilupparsi in modo autonomo, destinata alla fine ad acquisire tutto ciò che la cristianità, in quanto raggruppamento storico, avrebbe via via perduto.

La nozione di Europa è nata anzitutto da un ragionamento astratto, non dall’osservazione ma da considerazioni teoriche, senza rapporto con l’esistenza. Abbiamo avuto una Europa teorica prima di una Europa geografica, e a maggior ragione prima di una Europa politica. Si ebbe un’Europa concepita per la soddisfazione di un bisogno dello spirito, prima che gli uomini si preoccupassero di dare un contenuto reale alla parola Europa. Lo spirito era quello greco. I greci avevano creato la nozione di continente applicandola a tre parti diverse; l’Europa, l’Asia, la Libia.

La Grecia ha inventato l’Europa. Ma il mondo greco non era un mondo europeo. La prodigiosa espansione dell’ellenismo non coincide, geograficamente, con l’Europa. Neppure soltanto con l’Asia, se si vuole la coincidenza maggiore è con il Mediterraneo. Lo stesso concetto vale per la nozione di Romanità che trova la sua espressione più alta nell’Impero. Quella romana fu un’Europa circum-mediterranea.

Fino a quando questa romanità esercitò il suo influsso, non ci fu alcun avvenire per la nozione di Europa, non ci fu la possibilità che questo nome, scaturito da bisogni puramente teorici, divenisse il nome di una unità sostanziale, di una unità di civiltà: in altre parole, fino a quando sopravvisse l’Impero romano, l’Europa non fu in Europa. L’Europa fu nel Mediterraneo. La civiltà europea fu la civiltà mediterranea.

Il termine civiltà ha due sensi. Il primo, assai vago, si riferisce ai progressi, alle sconfitte, alle conquiste de “la” civiltà, e riguarda un giudizio di valore. Investe tutti, la collettività, giacché la civiltà, intesa in questo senso, è un patrimonio collettivo. L’altro senso della parola civiltà è molto più preciso e positivo. Ha un senso etnografico. Ogni gruppo umano costituito possiede una civiltà, la sua civiltà; è l’insieme delle caratteristiche che esso presenta agli occhi di un osservatore oggettivo. È la vita collettiva di un gruppo (vita materiale, politica e sociale, intellettuale, morale, religiosa). È un concetto che non implica alcun giudizio di valore. Non si riferisce agli individui, essa è unicamente di ordine collettivo. Caratterizza una data società.

Riassumendo: un’Europa umana, fatta di gruppi di umani capaci di creare, condividere, propagare una civiltà europea, nell’antichità non è possibile trovarla. Nell’antichità è possibile trovare una parola, che è la parola Europa. Ma questa parola esprime un’idea del tutto formale di Europa, che non ha nulla a che vedere con la nozione umana che stiamo cercando: la nozione umana di un’Europa fondata su una unità di civiltà.

Quando, nell’antichità classica, gli uomini che portavano ad altri uomini la fiamma di una civiltà più elevata, hanno concepito per tramite delle città, delle tribù e dei regni, una unità più vasta a fondamento culturale, a questa unità hanno dato per base l’ellenismo. Ma questa nozione non ha nulla a che vedere con la nozione di Europa, di mondo europeo, di cultura europea. Questa nozione non è europea, è mediterranea.

Che cos’è il Mediterraneo? Un mare? Sì, ma non soltanto. Uno spazio? E quale? No! Il Mediterraneo è prima di tutto un mondo o, se si preferisce, una famiglia di esseri storici diversi, opposti, ma legati, armonizzati dalle esigenze vincolanti di un insieme. E ancora, il Mediterraneo è un complesso di mari e di terre solidarmente uniti.

Tutto questo ci mostra e ci fa capire perché la parola Europa è restata una parola vuota nel corso di tanti secoli. Il fatto è che la parola Impero romano bastava a designare tutto l’insieme culturale che potevano concepire, al di là della loro cerchia di vita quotidiana, gli uomini colti del tempo.

La civiltà non è una fatalità di contesto, non è una fatalità di etnia. La civiltà è un volere umano.

Quando è nata la nostra Europa? Quando si sono trovati e riuniti, raccolti ed evidenti, gli elementi costitutivi della nostra Europa? La risposta migliore è stata offerta da Marc Bloch che ha scritto “l’Europa è sorta esattamente quando l’Impero romano è crollato”. L’Europa, vale a dire un certo tipo di civiltà, una comunità di civiltà che ha bisogno per accrescere di un minimo di protezione che solo un’organizzazione politica può darle. Ecco l’Europa di cui cerchiamo l’origine dopo la fine dell’Impero di Roma: una organizzazione, una civiltà.

La secessione dell’Oriente: ecco la prima condizione perché possa nascere l’Europa. Dopo la secessione dell’oriente, ci sarà la non meno grave secessione del Maghreb. L’Africa del nord, così profondamente cristianizzata e romanizzata, bruscamente volge le spalle al mondo romano, e per secoli passa nel cerchio dell’anti Europa.

Secessione dell’Oriente, secessione dell’Africa minore, ma anche secessione dell’Occidente che a modo suo tradisce. Tradisce perché, a partire dalla fine del V secolo, è interamente nelle mani dei germani, che cominciano a stabilirsi e a conquistare il territorio.

Questa tendenza sulla soglia del IX secolo, nell’800, finisce col trovare la sua espressione politica, la sua prima espressione; diventa l’Impero carolingio. Non si tratta solo di un cambio di dinastie. Ben di più, è la consacrazione politica di un profondo cambiamento di strutture del mondo occidentale, l’integrazione ufficiale, pubblica, dell’elemento nordico nella storia d’Occidente, non più come un elemento secondario e accessorio, ma come un elemento fondamentale è determinante.

È possibile misurare questo cambiamento. Tra il quarto e il sesto secolo, in vastissime parti dell’Impero ci si mette a parlare germanico. E quelli che non parlano germanico, non parlano più latino, parlano romanzo. Ma non è solo il latino in gioco. E’ tutta una civiltà che, con il latino, si confronta con un’altra civiltà; con una civiltà barbara che porta con sé elementi tratti da tante fonti diverse, raccolti lungo tutte le strade dell’Europa orientale e nordica; una civiltà barbara che ha le sue forme d’arte, l’oreficeria, i gioielli, gli oggetti smaltati, tutto uno stile di una freschezza primitiva che si espande a poco a poco verso l’Occidente; una civiltà barbara che ha i suoi costumi, i suoi modi di vestire, le sue chiese e le sue case di legno, la sua letteratura epica e guerresca, il suo diritto, la sua concezione della famiglia e del matrimonio.

Perché una nuova civiltà possa dispiegarsi pienamente è necessario che la vecchia civiltà si decomponga sino in fondo. Il primo sviluppo dei germi di una civiltà nuova, o rinnovata, coincide in modo evidente con la rovina più totale della civiltà romana. Questa civiltà nuova è frutto di un meticciato, di un mescolamento di razze. Ancora una volta la storia lo conferma: non è la purezza, è l’impurità razziale ad essere feconda: non è la separazione dei sangui, ma la frammistione. Così come, lo sanno bene gli uomini di scienze e di studio, non è all’interno di ogni scienza, ma alla frontiera tra le diverse scienze che si fanno le grandi scoperte, allo stesso modo è dall’urto di gruppi umani che nascono i grandi rinnovamenti di civiltà.

Riassumendo, perché l’Impero crollasse, perché l’Europa sorgesse sulle sue rovine è stato necessario che l’Oriente si separasse dall’Occidente, e soprattutto che il Maghreb si staccasse dalla romanità; e d’altra parte è stato necessario che una parte dell’Impero si aprisse, si consegnasse ai germani. Sono stati necessari questi tre “tradimenti” per preparare le condizioni favorevoli alla nascita di una Europa storica e umana.

Che cos’è la morte della civiltà romana? È soltanto “l’arrivo dei barbari”? In verità le invasioni cominciano nel III secolo e finiscono due secoli più tardi, con l’insediamento dei vandali in Africa e degli ostrogoti in Italia. Ma la morte della civiltà romana coincide anche con l’avvio della conquista araba che riversa, nel corso del VII secolo, masse affamate sulla Siria, sull’Egitto, sulla Spagna, con l’instaurazione nel Mediterraneo di una religione ostile a quella dei vecchi cittadini dell’Impero. È la conquista araba a sostituire nel Mediterraneo il Profeta a Gesù, il diritto musulmano a quello romano, la lingua araba alla lingua greca e latina? Di fatto è il primo avvenimento, l’arrivo dei barbari, che ha aperto la strada alla seconda, la conquista araba. È lo spezzettamento dell’Impero, trasformatosi in regni barbarici, che spiega in parte il successo fondamentale dell’Islam.

Resta vero che a partire dall’inizio del VII secolo fino al XIX, al XX secolo, la storia può ritmare la vita dell’Europa al ritmo delle continue avanzate e ritirate dell’Islam e del cristianesimo.

Come spiegare dunque la nascita di questo nuovo Impero nordico? Pirenne ha detto: guardate verso il Mediterraneo, guardate verso l’Islam e subito vedrete. Carlo Magno è impensabile senza Maometto, i cui discepoli e fedeli, occupando il Mediterraneo, hanno fissato per secoli il destino dell’Europa.

L’impero carolingio è una forma di difesa dell’Europa, lo scopo ultimo è continuare a dominare il pianeta come per il passato. In questo senso quella di Europa è una nozione di crisi. Nozione di crisi o di paura, di invocazione dell’Europa, di una Europa protettrice; quando gli europei hanno paura e si sentono minacciati riscoprono il valore dell’Europa. Lo fanno quando hanno paura di vedere l’Europa invasa da forme sociali diverse dalle forme sociali tradizionali, quando hanno paura delle proprie discordie: tutto questo c’è in fondo al mito europeo. I tedeschi sono stati davvero gli artigiani, gli operai di una Europa di mezzo. L’hanno costruita passo dopo passo, centimetro per centimetro e poi l’hanno difesa fino al giorno in cui è accaduto ciò che essi non vogliono vedere, ciò che negano.

Dunque, è l’Impero carolingio, l’Impero di Carlo Magno che ha dato forma per la prima volta a ciò che noi chiamiamo Europa, giacché l’impero romano non aveva fatto altro che dare forma politica al mondo mediterraneo, un mondo che si estendeva su tutte le rive del Mediterraneo senza chiedersi se fossero europee, asiatiche, africane.

Carlo Magno non ha semplicemente ereditato l’Impero romano, come sempre si dice. L’impero carolingio non è la ripresa pura e semplice di Roma. È la prima forma politica di un mondo nuovo, di un mondo che non finisce più al Reno e al Danubio. Un mondo che immediatamente integra nella sua unità politica e culturale lo spazio via via crescente, giacché in effetti questo spazio si accresce ogni giorno, a spese degli slavi, di quella che ben presto cessa di essere la Germania per diventare l’Alemagna.

L’impero carolingio è terrestre, continentale e non più marittimo con tutte le conseguenze che comporta il fatto di non essere più centrato su un grande mare frequentato, attivo. L’impero carolingio è rurale, di contadini. Niente in comune con quel Mediterraneo animato da società diverse.

Non è un caso se il regime della signoria, destinato a dominare l’Europa per secoli, si impianta fortemente e si generalizza esattamente nel momento in cui il Mediterraneo si chiude agli europei. Quando cessa quasi completamente la circolazione commerciale e porti importanti, come Marsiglia, si vedono paralizzati, lavorare per l’esportazione è un’espressione che non ha più senso. Ed è allora, è in questo modo che si stabilisce per tutta l’Europa un regime di economia chiusa, un regime di economia senza sbocchi che è precisamente il regime della signoria, quel regime che ci ostiniamo a chiamare regime feudale.

Una delle cose più difficili è fissare i confini dell’Europa verso l’est? Gli Urali sono un falso confine. Tutt’al più sono un pilastro di una porta, ma una porta aperta non è un confine. Ad est un vero limite geografico dell’Europa non c’è: possiamo forse definire un confine etnico? Gli slavi di fronte ai germani? Ma chi oserebbe escludere dall’Europa il mondo slavo, per altro così diverso, così multiforme? Quel mondo slavo che comincia con la Polonia, la Serbia, e che continua con l’Ucraina e la Russia? Possiamo definirlo un confine culturale? Sì, se si vuole. I confini dell’Europa sono i confini della civiltà europea.

L’Europa è essenzialmente questo: la collaborazione a una medesima opera di civiltà, la partecipazione a un medesimo ideale di cultura, a un medesimo ideale di vita, la collaborazione, la partecipazione di popolazioni assai diverse; le une mediterranee, le altre oceaniche, o nordiche, o orientali, ma tutte hanno conosciuto destini diversi, e anche molto diversi; tutte sono state segnate fortemente, e diversamente, da avvenimenti storici che hanno pesato su tutte ma che alla civiltà comune di cui godono tutte hanno contribuito, hanno collaborato con apporti di cui è difficile dire in modo esatto quali siano stati i più considerevoli, ma che hanno avuto tutti importanza. Sia che simili contributi i popoli europei li abbiano tratti da se stessi e dal loro spirito di inventiva; sia che questi contributi non rappresentino altro che elementi presi in prestito, di cui tali popolazioni sono state solo veicolo, e elementi presi in prestito dalle popolazioni e dalle civiltà che circondano l’Europa e il mondo europeo.

Anche oggi l’Europa non è una nozione geografica che sta in piedi. L’Europa è un ideale, un sogno. L’Europa è una nozione culturale. Una estensione di territori estensibili, continuamente e estensibili, che si allarga di fatto non solo verso est, ma anche verso ovest, a dispetto dei confini dell’oceano.

Lucien Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, Roma, Donzelli, 1999

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