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Tortura, stregoneria, inquisizione

redegonda fa giustiziare Ennio Mummolo e alcune donne accusandole di stregoneria per aver avvelenato il figlio Teodorico – miniatura dalle “Chroniques de France ou de Saint-Denis”, 1332-1350
Redegonda fa giustiziare Ennio Mummolo e alcune donne accusandole di stregoneria per aver avvelenato il figlio Teodorico – miniatura dalle “Chroniques de France ou de Saint-Denis”, 1332-1350

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In questo periodo sta tornando di gran moda l’argomento dell’inquisizione, della tortura e della stregoneria. Non sempre a proposito. Anzi, volendolo dire con un eufemismo, quello che il più delle volte si trova sull’argomento è frutto di approssimazioni, pregiudizi ereditati, leggende e contaminazioni fantasy. La prima cosa da dire è che ciò che viene percepito come argomento unico, è invece composto da diversi fenomeni variamente combinati tra loro e non sempre coesistenti: tortura, inquisizione, stregoneria, roghi, eresia. Questo post non sarà esaustivo riguardo all’argomento perché non è quello il suo scopo. Il suo scopo è di dimostrare quanto sarebbe semplice fare un minimo di verifiche prima di spacciare per buone conoscenze raffazzonate, lacunose e parziali. Userò quindi gli strumenti della rete, pur avendo a disposizione altri materiali, perché non mi interessa di disquisire su tortura, stregoneria e inquisizione bensì di esemplificare come agirebbe qualcuno che volesse veramente informarsi, pur non avendo una preparazione storica specialistica.

Dunque partiamo.

La prima immagine che viene in mente al riguardo, sono gli immancabili banners dei musei della “tortura medievale” che garriscono in varie città, compresa la mia, richiamando i passanti con le immagini di sedie puntute e pere d’ottone. Si legga in proposito Che tortura quei musei. Il punto è questo: i musei della tortura si basano principalmente sulla reazione di raccapriccio provocata da quegli strumenti. Ma devono porli sufficientemente distanti dall’osservatore in modo che non inneschino controproducenti sensi di colpa o sospetti di pesantezze politiche. Vi siete mai chiesti come suonerebbe un museo della “tortura contemporanea”? Il gioco consiste nel proiettare quelle immagini e quegli oggetti all’indietro nel tempo, in un passato indefinito ma comunque lontano. A quel punto diventa quasi naturale, tenuto conto della pervicacia della “leggenda dei secoli bui”, ricorrere al medioevo come una sorta di “pattumiera della storia” (non è mia, è di Trotski). Volete una riprova? Bene: ieri leggendo una discussione a proposito dell’orsa Daniza, uccisa durante il tentativo di cattura, ho incrociato l’espressione “come nella migliore tradizione araba medievale” usata, nelle intenzioni dello scrivente, come terribile esempio di arretratezza e superstizione. Ho scritto all’autore che si trattava di un errore grossolano, reso più brutto dal fatto che lui aveva stigmatizzato “la gente che parla senza sapere”. Gli arabi del medioevo, infatti, sono stati quelli che hanno tenuto viva la tradizione medica, matematica, scientifica, filosofica e poi la hanno ritrasmessa all’Occidente. Senza gli arabi medievali non avremmo l’algebra e nemmeno lo zero. In buona sostanza il problema è che la parola “medioevo” ha perso il significato originario di periodo storico (valore denotativo) per assumere il significato di periodo lontano e cupo (valore connotativo). In questo caso il “medioevo” cessa di essere una dimensione reale del tempo, compresa tra un inizio e una fine, per diventare una dimensione del linguaggio separata dal suo stesso significato. Si usa “medioevo” come puro e semplice sinonimo di “oscurantista” perché suona meglio ed è più facile. Da questo poi derivano i paradossi delle espressioni come “medioevo contemporaneo”, “medioevo arabo”, “medioevo sanitario”, “medioevo sessuale” e chi più ne ha più ne metta. Per approfondimenti rimando al prontuario degli stereotipi sul medioevo di Antonio Brusa, reperibile in rete.

Magari questi argomenti li avete già sentiti. Naturalmente non parlo ai colleghi, che ne hanno già acquisito coscienza, bensì agli appassionati, ai curiosi, ai dilettanti volenterosi che sono da incoraggiare ma anche da riportare al principio fondamentale della scientificità della narrazione storica. Capisco che per chi non lo fa di mestiere sia una fatica quella di inseguire la bibliografia o anche solo di procurarsene una. Ma questo non legittima il fatto di scrivere cose senza averne contezza. Su internet  prolifera ancora leggenda nera dei secoli bui, rafforzata periodicamente dai contributi di chi ne scrive senza approfondire. D’altro canto, grazie alla digitalizzazione delle risorse e agli strumenti di condivisione come academia.edu, su internet è possibile trovare anche materiale sicuramente più affidabile di quello messo in circolazione da gruppi e utenti che si occupano di medioevo in chiave sensazionalistica.

Capisco che una sbirciata tra i materiali messi a disposizione dai ricercatori possa essere faticosa, ma esistono in ogni caso gli strumenti adatti a tutte le esigenze, compresa quelle di chi non ha voglia di perdersi tra citazioni bibliografiche, frasi latine e rimandi alle fonti. Apro una parentesi: il medioevo studiato scientificamente è proprio questo, ovvero citazioni bibliografiche, frasi latine e rimandi alle fonti. Poi vengono anche le ciliegine ossia gli episodi piccanti e le vicende sensazionali che sì, piacciono anche ai medievisti di professione, ma arrivano dopo parecchia fatica e diversi anni di studio. Chiudo la parentesi. Chi non vuole sobbarcarsi di questi pesi, perché è vero che si tratta di pesi, non è tenuto a farlo: può dignitosamente porsi tra gli appassionati e ha comunque dei canali di informazione.

Come ho già detto, infatti, esistono ormai molti strumenti adatti alle esigenze di chi è appassionato di storia. Tra i miei preferiti c’è sicuramente l’enciclopedia Treccani, un evergreen che da qualche anno è uscito anche in versione digitale. La ricerca per il tema di questo post andrebbe fatta su più voci parallele ma è davvero difficile risolvere tutto in un articolo da blog. Così, dovendo scegliere, ho dato la priorità all’argomento della tortura fornendo come anticipazione l’indicazione del link alla voce Treccani relativa all’inquisizione. Prima di arrivare al nocciolo della questione, voglio dare anche un assaggio dell’aspetto più interessante del lavorare con la storia, ossia il contatto con le fonti. Le fonti sono importanti perché sono esse, e non altro, che danno la versione più prossima a ciò che effettivamente pensavano le persone di un’epoca diversa dalla nostra. In questo caso si tratta di un brano di Reginone, abate di Prum, che nel 906 scrisse il Canon Episcopi, un trattato rivolto ai vescovi circa l’atteggiamento da tenere nei riguardi della stregoneria. Il Canon episcopi è una parte del De Ecclesiasticis Disciplinis et Religione Christiana,  libro II, capitolo 364. Il testo è pubblicato  in Patrologia Latina, volume 132 (colonne 352 – 352). Fornisco qui la traduzione di un passaggio particolarmente interessante:

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Canon_Episcopi_Hs119
Due carte di una copia del Canon episcopi. Biblioteca Cattedrale di Hildesheim (Colonia), ms. 119, ff. 91v-92r, c. 1020. Si veda la trascrizione a fine pagina

«Certe donne depravate, rivolte a Satana, e sviate da illusioni e seduzioni diaboliche, credono e affermano di cavalcare la notte alcune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani (o di Ero diade), e di una innumerevole moltitudine di donne; di attraversare larghi spazi grazie al silenzio della notte profonda e di ubbidire a lei come loro signora e di essere chiamate certe notti al suo servizio. Volesse il Cielo che soltanto loro fossero perite nella loro falsa credenza e non avessero trascinato parecchi altri nella perdizione dell’anima! Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in tal modo si allontanano dalla vera fede e cadono nel l’errore dei pagani, credendo che vi siano altri dei o divinità, oltre all’unico Dio. Perciò, nelle chiese a loro assegnate, i preti devono predicare con grande diligenza al popolo di Dio affinché si sappia che queste cose sono completamente false e che tali fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo spirito divino ma dallo spirito malvagio. Infatti […] durante le ore del sonno inganna la mente che tiene prigioniera, alter nando visioni liete a visioni tristi, persone note a persone ignote, e conducendole attraverso cammini mai praticati; e benché la donna in­fedele esperimenti tutto ciò solo nello spirito, ella crede che avvenga non nella mente ma nel corpo».

 

Vediamo adesso cosa dice la Treccani a proposito della tortura. La voce è complessa, predeve un sommario di cui riporto solo le prime due parti per questioni di brevità ma rimando comunque alla sezione La tortura nel mondo contemporaneo, giusto perché chi legge possa avere un’idea di cosa stiamo parlando. Faccio notare che, al momento in cui scrivo, in Italia il codice penale, secondo quanto riportato da Amnesty International, non prevede ancora il reato di tortura. Il disegno di legge per l’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano è stato approvato il 5 maggio 2014 ed è tuttora al vaglio della commisione d’esame. Non dico questo per scaricare di “responsabilità” il medioevo bensì per sottolineare che un “problema tortura” esiste, è grave e sta accadendo ora, nel nostro tempo. Forse sarebbe opportuno puntare lo sguardo anche lì visto che, a differenza del passato, il futuro si potrebbe ancora cambiare. 

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Storia della tortura giudiziaria di Franco Cardini

1. Tortura e verità
In senso giuridico, la tortura è costituita dall’insieme di coercizioni e di tormenti fisici e psichici con i quali si vuol indurre un imputato a confessare la verità; in Europa è stata considerata legale sino alla seconda metà circa del 18° secolo, nonostante le molte contestazioni a proposito della sua legittimità morale e della sua validità funzionale. Un tipo particolare di tortura, sempre nell’ambito giuridico ma privo d’intenti probatori, è quello inflitto ai condannati a morte prima dell’applicazione della sentenza finale per scopi al tempo stesso punitivi e pedagogici: infatti, nei sistemi di giustizia d’ancien régime non soltanto un condannato a una qualche pena poteva essere sottoposto ad altre sussidiarie (carcere duro, digiuni, percosse ecc.), ma al condannato alla pena capitale si potevano infliggere (secondo il tipo e la qualità del suo crimine, e con riferimento al suo rango e stato sociale e giuridico) pene preliminari, che avevano l’obiettivo non solo e non tanto di aggravare la sua pena quanto piuttosto di servire da esempio deterrente.
La tortura esercitata nei confronti di prigionieri di guerra o di soggetti sottoposti a costrizione per motivi politici, religiosi o anche in seguito a crimine di cui essi siano dirette vittime (per es., i rapiti o sequestrati a scopo di estorsione mediante riscatto), appartiene a una sorta d’histoire immobile dell’umanità e conosce una dinamica di certo legata al modificarsi del senso morale diffuso e delle ‘soglie del dolore’ nelle differenti civiltà, ma connessa soprattutto con il mutare dei mezzi tecnologici. In genere vietata o comunque soggetta a durissime censure etiche, essa è stata ed è nondimeno praticata sia all’interno di corpi ‘speciali’ o ‘paralleli’ degli Stati moderni sia nel contesto di frequenti situazioni private. Questo tipo di tortura, comunque suscettibile di una riflessione storica legata soprattutto alle dinamiche fenomenologiche, ha tuttavia un rapporto molto forte con la cultura della violenza e della crudeltà, cultura che si è andata imponendo negli ultimi due secoli e che ha anche avuto interpreti illustri.
Oggetto precipuo di storia è tuttavia non già questo tipo di tortura, non soggetto al consenso civile e sottratto quindi alla regolamentazione che accompagna la legittimazione, bensì quello della tortura giudiziaria, intesa come complesso dei mezzi di coercizione personale, sia fisica sia morale, impiegati durante il processo – anche se essi possono essere accompagnati e complicati dalla parallela attività di polizia (ufficialmente lecita, semilecita oppure illecita, a seconda dei tempi e dei luoghi) che lo precede o l’accompagna – e tesi all’accertamento della colpevolezza degli imputati o a provocarne comunque la confessione, oppure a convalidare l’attendibilità delle deposizioni dei testimoni.
È difficile e forse impossibile rintracciare l’origine storica della tortura giudiziaria, la radice ultima della quale può considerarsi etico-pedagogica ancor prima che giuridica: il tormentare per conoscere la verità implica un sottinteso ma forte rapporto tra la verità intesa come bene e la falsità e la menzogna ritenute di per sé un male. Tale tensione etica rendeva plausibile, nel diritto greco e romano che l’hanno codificata, l’interpretazione della tortura come atto praticato anche pro reo: si partiva cioè dal principio che, in mancanza di chiare prove, la forza d’animo dimostrata dall’imputato nel sostenere la sofferenza pur di far trionfare la verità fosse, essa stessa, una prova. Dato il suo carattere non solo doloroso ma anche umiliante, la tortura in certi periodi non poteva essere applicata se non nei casi dei soggetti non liberi: la legislazione imperiale romana tuttavia conosce, al riguardo, fasi differenti. La sua pratica non era mai stata libera però da forti ipoteche, da pesanti e dolenti perplessità. Dice il giurista Ulpiano: “La tortura è uno strumento fragile e rischioso, incapace spesso di condurre alla verità: molti difatti riescono a sopportare i tormenti grazie alla loro forza d’animo o alla loro robustezza fisiologica, in tal modo che non c’è verso d’estorcere loro la verità; altri, al contrario, temono la sofferenza al punto tale da esser pronti anche a mentire pur d’evitarla”.
Durante l’Alto Medioevo, la tortura fu in genere sostituita dall’ordalia, che con essa aveva in comune la concezione del rapporto tra coscienza soggettiva d’innocenza (o di colpevolezza) e capacità di sopportare prove e sofferenze. Essa rinacque a partire dalla fine del 12° secolo o dai primi del 13°, vale a dire da quando l’Europa occidentale, attraverso la diffusione universitaria del corpus iuris giustinianeo, torna al diritto romano. Ammesso fin dai primi del Duecento in numerosi esempi di procedura giuridica laica, l’interrogatorio sotto tortura, detto quaestio, è menzionato con certezza e chiarezza per la prima volta nel veronese Liber iuris civilis (1228). Esso fu legittimato per quel che concerneva i processi inquisitoriali nella bolla Ad exstirpanda (15 maggio 1252) del famoso canonista Sinibaldo de’ Fieschi, papa con il nome d’Innocenzo IV. Sette anni dopo, Alessandro IV ratificò la decisione del suo predecessore, poi rafforzata altresì da Clemente IV. Papa Alessandro autorizzò anche i religiosi a concedersi reciprocamente l’assoluzione nei casi in cui il contatto con la tortura comportasse un’infrazione dei divieti canonici relativi al principio secondo il quale Ecclesia abhorret a sanguine.
Nel corso del Trecento la tortura fu estesa poi ad altre, differenti procedure: i giuristi, quali Accursio, Baldo, Bartolo, fornirono tutti, sia pure con accenti diversi, il loro apporto favorevole al radicamento e alla generalizzazione della pratica, che nondimeno fu rigorosamente regolamentata. In particolare, si dovevano evitare sia la mutilazione permanente sia la morte. In età tardomedievale e rinascimentale abbondano i trattati sulla tortura, come l’anonimo (forse bolognese) De tormentis e il De indiciis et tortura di F. Dal Bruno, che si preoccupano di legittimare e al tempo stesso di disciplinare la pratica. Già nei giuristi medievali si avvertono molto vivi la preoccupazione per gli abusi e il dubbio sull’efficacia della tortura in rapporto alla fragilità umana e alla paura del dolore. Tuttavia, forte era l’argomentazione dell’inquisitore Bernard Gui, secondo il quale vexatio dat intellectum, “la sofferenza induce a riflettere”. La Constitutio criminalis Carolina, emanata dall’imperatore Carlo V nel 1532, costituì un punto fermo nella storia dell’adozione della tortura nell’Europa moderna: nel momento stesso in cui ne confermava legittimità e validità, il legislatore imperiale sottolineava la necessità dell’osservanza scrupolosa di precise regole procedurali, pena l’ottenimento di un risultato opposto rispetto a quello voluto.

2. Regolamentazione dei tormenti
La tortura era esercitata in materia civile a fini probatori, ma soprattutto mirava a rendere più certe le sentenze nei processi criminali, durante i quali a essa potevano essere sottoposti sia gli imputati sia i testimoni poco attendibili o reticenti: il suo uso era tuttavia subordinato alla certezza che altri mezzi probatori fossero inapplicabili o inefficaci o insufficienti. Sia nei processi civili sia in quelli inquisitoriali, la tortura era raccomandata nei casi in cui l’imputato si ostinasse a negare la sua colpa ma non fosse in grado di dimostrare con prove o argomentazioni la sua innocenza; o quando, pur avendo egli ammesso la colpa, vi fossero fondati motivi per ritenere non completa la sua confessione. Naturalmente erano previste categorie di persone verso le quali la tortura era inapplicabile: o per la qualità del loro stato, che rendeva inutile la tortura dato che la loro parola doveva essere considerata un pegno di publica fides (i nobili, i militari, gli insigniti di dignità cavalleresche), o per la loro qualità di soggetti a un foro speciale (i chierici), o per la debolezza della loro condizione fisiologica e psicologica (i bambini, i vecchi, le gravide ecc.); ma la procedura inquisitoriale poteva introdurre al riguardo qualche deroga. Chi allegasse malattie o difetti che gli impedivano di sopportare la tortura aveva il diritto di essere visitato da un medico.
La tortura poteva essere applicata solo sulla base di una preliminare sentenza, rispetto alla quale l’imputato poteva appellarsi: se e quando possibile, si tendeva a far sì che la sola paura della sofferenza bastasse a far confessare la verità. All’applicazione della tortura, che doveva essere eseguita secondo i limiti, nei modi e nei tempi sanciti nella sentenza, dovevano assistere – secondo la decretale Multorum querela del tempo di papa Clemente V – i giudici inquisitoriali (quindi il vescovo ordinario del luogo nel quale l’imputato era stato arrestato e l’inquisitore) o i loro vicari ufficiali. La tortura si poteva iterare, ma solo dopo attento esame dei singoli casi e matura riflessione.
Mezzi e sistemi di tortura variavano in relazione alle consuetudini locali: nel corso del 17° e 18° secolo si tese a disciplinare anche quelli secondo le varie normative statali. I più comuni erano i ‘tratti di corda’ (l’inquisito, con le mani legate dietro la schiena, veniva sollevato più volte in aria per mezzo d’un sistema di carrucole e poi lasciato cadere); il ‘cavalletto’ (un ordigno sul quale si stiravano le membra del torturato); il ‘fuoco’ (si ungevano i piedi del torturato per avvicinarli poi a una fonte di calore); la ‘stanghetta’ (un sistema di contenzione che comprimeva polsi e caviglie); le ‘cannette’ (si stringevano con appositi strumenti le dita giunte del tormentato); la ‘veglia’ (s’impediva al torturato, legato a un sedile, di addormentarsi per un periodo che poteva arrivare a quasi due giorni); la ‘bacchetta’, uno staffile che si poteva usare anche nei confronti dei minorenni, non però prima del nono anno d’età. Il testimone che avesse resistito al dolore senza ritrattare era considerato veridico; l’imputato che vi avesse resistito senza confessare era dichiarato innocente. I notai erano chiamati a registrare con precisione carattere e durata dei singoli tipi di tortura; dopo di essa, si chiedeva all’imputato confesso di confermare la sua confessione, nel qual caso si parlava di confessione spontanea.
È indebito il carico che talora si fa ai tribunali inquisitoriali di aver usato sistematicamente la tortura: in ciò, essi non facevano che seguire la pratica giuridica dell’epoca e avvalersi di infrastrutture poste a loro disposizione dai tribunali laici; e vi sono testimonianze numerose d’una forte resistenza degli inquisitori a servirsi dell’extrema ratio, la tortura, cui si ricorreva di solito soltanto dopo aver provato altre vie, quali, anzitutto, la prigione ‘stretta’ che prevedeva digiuno e privazione del sonno. Molti trattati inquisitoriali citavano, facendolo proprio, il duro giudizio di Ulpiano sui limiti della tortura. Il domenicano frate Eliseo Marini, nel suo Sacro arsenale (1631), sosteneva che la ‘rigorosa disamina’ – la tortura – dovesse essere applicata solo se le altre prove fossero del tutto insufficienti, e massima l’incertezza; e ammoniva che si procedesse con prudenza, si mostrassero all’imputato gli strumenti di tortura prima di usarli, gli si proponesse ripetutamente di pensare a quel che faceva, s’interrompesse più volte il procedimento per dargli modo di riflettere. La costrizione della volontà risulta insomma chiara, ma l’arbitrio dei giudici e la durezza del tormento si riducevano e si disciplinavano per quanto era possibile.

L'ammiraglio Niketas Oryphas punisce i saraceni Cretesi - Giovanni Scilitze - Synopsis historiarum - Biblioteca Nacional Madrid - Codex Matritensis gr Vitr 26-2 - XII sec
L’ammiraglio Niketas Oryphas punisce i saraceni Cretesi – Giovanni Scilitze, Synopsis historiarum, Biblioteca Nacional de Madrid, Codex Matritensis gr. Vitr. 26-2, XII sec.

Trascrizione delle carte del Canon episcopi (qui sopra) secondo Patrologia Latina 140

Il Canon episcopi compare come inizio del libro 10 del Decretum Burchardi (ca. 1012), nel manoscritto 119 della Biblioteca Cattedrale di Hildesheim (Colonia).
Ut episcopi eorumque ministri omnibus viribus elaborare studeant, ut perniciosam et a diabolo inventam sortilegam et maleficam artem penitus ex parochiis suis eradicent: et si aliquem virum aut feminam hujuscemodi sceleris sectatorem invenerint, turpiter dehonestatum de parochiis suis ejiciant. Ait enim Apostolus: Haereticum post unam et secundam admonitionem devita, sciens quia subversus est, qui ejusmodi est. Subversi sunt, et a diabolo capti tenentur, qui, derelicto creatore suo, a diabolo suffragia quaerunt, et ideo a tali peste mundari debet sancta Ecclesia. Illud etiam non omittendum, quod quaedam sceleratae mulieres retro post Satanam conversae, daemonum illusionibus, et phantasmatibus seductae, credunt se et profitentur nocturnis horis, cum Diana paganorum dea, vel cum Herodiade et innumera multitudine mulierum equitare super quasdam bestias, et multa terrarum spatia intempestae noctis silentio pertransire ejusque jussionibus velut dominae obedire et certis noctibus ad ejus servitium evocari. Sed utinam hae solae in perfidia sua perissent, et non multos secum in infidelitatis interitum pertraxissent. Nam innumera multitudo hac falsa opinione decepta haec vera esse credit, et credendo a recta fide deviat, et in errore paganorum revolvitur, cum aliquid divinitatis, aut numinis extra unum Deum esse arbitratur. Quapropter sacerdotes per Ecclesias sibi commissas populo omni instantia praedicare debent, ut noverint haec omnimodis falsa esse, et non a divino, sed a maligno spiritu talia phantasmata mentibus infidelium irrogari. Siquidem ipse Satanas, qui transfigurat se in angelum lucis, cum mentem cujuscunque mulierculae ceperit, et hanc sibi per infidelitatem et incredulitatem subjugaverit, illico transformat se in diversarum personarum species atque similitudines, et mentem quam captivam tenet in somnis deludens, modo laeta, modo tristia, modo cognitas, modo incognitas personas, ostendens, per devia quaeque deducit. Et cum solus spiritus hoc patitur, infidelis mens haec non in animo, sed in corpore evenire opinatur. Quis enim non in somnis et nocturnis visionibus extra seipsum educitur, et multa videt dormiendo, quae nunquam viderat vigilando? Quis vero tam stultus et hebes sit, qui haec omnia quae in solo spiritu fiunt, etiam in corpore accidere arbitretur? Cum Ezechiel propheta visiones Domini in spiritu non in corpore vidit. Et Joannes apostolus Apocalypsis sacramenta in spiritu non in corpore vidit, et audivit sicut ipse dicit: Statim, inquit, fui in spiritu. Et Paulus non audet se dicere raptum in corpore. Omnibus itaque publice annuntiandum est, quod qui talia et his similia credit, fidem perdit, et qui fidem rectam in Deo non habet, hic non est ejus, sed illius in quem credit, id est diaboli. Nam de Domino nostro scriptum est: Omnia per ipsum facta sunt. Quisquis ergo aliquid credit posse fieri, aut aliquam creaturam in melius aut in deterius immutari, aut transformari in aliam speciem, vel similitudinem, nisi ab ipso Creatore qui omnia fecit et per quem omnia facta sunt, procul dubio infidelis est et pagano deterior.

 

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