Non ne ho mai sentito il suono, se non in occasioni didattiche, ma mia madre mi ha sempre raccontato di questa strana cosa che era l’inibizione delle campane nella Settimana Santa. Durante il periodo che precede la Pasqua, in particolare dopo i riti della coena domini (parzialmente riformati da Papa Francesco I), il suono delle campane era ed è inibito in quanto facente parte di un sistema liturgico ben preciso. La campana tutt’oggi è soggetta ai riti della devozione pasquale e in alcune zone, ad esempio, la Domenica delle Palme si cambia il vecchio ramo di ulivo benedetto applicato ai ceppi con il nuovo. In particolare le corde vengono legate ai battagli e le campane da quel momento tacciono. In assenza di campane diventa così necessario un sostituto che consiste in una scatola sonora o più in generale in un oggetto sonoro povero.
In molte parti d’Italia esso non si usa più ma essi erano una vera e propria alternativa, prendevano nomi diversi ed erano utilizzati per segnalare le funzioni liturgiche. Questi crepitacoli prendevano le forme e i nomi di tràccola, raganella, battola in toscana, in sicilia tràccula.Troccole o traccola secondo il DEI deriva dal latino trochus ossia ruota di ferro usata dai ragazzi per divertirsi. In napoletano sono attestate le forme tròcula, battola, raganella. In calabrese toccara. In friulano scraçulon. Taulittas omatraccain sardo.Nel trevigiano esiste il rebegon. Nel ticinesela tarlaca. Per altre forme consultare questo link. Le traccole sono composte di una tavola di legno su cui sono installate delle maniglie di metallo. Agitando la traccola le maniglie metalliche percuotono la parte in legno producendo il suono. In altro tipo di traccola è invece quella con impugnatura a bastone, in cui il suono è ottenuto facendo ruotare la parte superiore dello strumento. Grazie al movimento un lembo di legno batte su di ruota dentata producendo il suono.
Nella gallery e nei video si possono vedere alcuni esempi di crepitacoli.
Se qualcuno ne vuole segnalare altri, lasci il link nei commenti.
Necessita un’integrazione a questo post perché stanno arrivando altri contributi.
Graziano Sbrana segnala che nel pisano si chiama tabella ed era una grossa tavola che aveva sulle due facce dei battenti in metallo che suonavano per scotimento. Dal rumore sgraziato e continuo, deriva, rivolto a chi parla troppo e in modo fastidioso, il seguente modo di dire: ” ma ti ‘heti un po’, se’ peggio della tabella der giovedì santo!”. Questo mi ha fatto ricordare che la mia mamma, cresciuta nella campagna lucchese, usava dire di qualcuno che parlava troppo e in modo fastidioso: “lellì o lullì è una traccola”.
Monica Chiantini segnala che nel Chianti fiorentino si chiamano raganelle, perché il suono prodotto è assimilabile a quello del gracidare della rana. Ma da anche indicazioni sull’etimo. Gabriella Piccinni segnala che a Siena lo strumento si chiama raganella.
Angela Amadei mi segnala che a Crasciana (Bagni di Lucca, Lucca) e si chiama mulinettoBruno Micheletti mi ha mandato le foto dello squatrascione e della giracola di Casabasciana (Bagni di Lucca, Lucca). Sotto potete sentire la registrazione del suono dello squatrascione.
Squatrascione di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Squatrascione di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Squatrascione di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Suono dello squatrascione di Casabasciana
Giracola di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Giracola di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Vincenzo Valenti segnala la trucculiata di Misilmeri, Palermo.
Lucia Costa segnala che nelle valli imperiesi, in mancanza di campane si usa il suono cupo delle conchiglie da segnalazione marina. Nell’imperiese in alcuni paesi, soparattutto a Ceriana, al posto delle conchiglie si usano corni fatti con corteccia di castagno fresca. Durante la Messa cantata della domenica di Pasqua, il suono dei corni è alternato a quello delle tabulae tavolette di legno, su cui battendo un bastone di ferro si produce un particolare suono cupo.
Anche facendo a meno di risalire fino alla matrice romantica del revival del medioevo, è evidente a tutti che il tema della parastoria medievale è nell’aria da tempo. In questi ultimi anni si sono moltiplicate a dismisura le manifestazioni a tema medievale e le loro modalità hanno dato qualche motivo di perplessità agli studiosi. Per me che mi occupo di mobilità delle persone, di letteratura di viaggio medievale e del fenomeno del pellegrinaggio, il campanello d’allarme è suonato con il giubileo del 2000. La ricorrenza ha portato in auge una grande passione per la via Francigena e le cifre di coloro che ne intraprendono il percorso sono in costante crescita. La passione dei nuovi romei è senza dubbio genuina ma talvolta anche ingenua e soprattutto ha prodotto una quantità di risultati che non sempre sono stati all’altezza di una dignitosa divulgazione. Spesso è successo anzi il contrario e la spinta entusiastica alla valorizzazione ha seguito più la logica del trekking che della storia, ignorando le basi di una ricerca scientifica fatta di bibliografia, di documenti d’archivio, di fonti letterarie, di testimonianze archeologiche e di critica delle fonti. In parole povere non basta un cartello per stabilire un’evidenza storica e questo vale come regola generale per qualsiasi fenomeno che rientri nel campo della storia.
Mi è capitato di assistere a una discussione su un social network riguardo l’attendibilità di un certo abito “medievale”. Uso questo esempio non per stigmatizzare un fenomeno ma solo per focalizzare alcune delle idee che sto rimuginando da tempo. Chiunque sia intellettualmente onesto dovrà riconoscere i limiti del suo sapere dunque, per prima cosa, ho dovuto ammettere a me stessa che riguardo all’abbigliamento medievale ne so poco. O almeno ne so poco rispetto agli standard che dovrebbe avere una buona conoscenza del fenomeno. Come molti storici, ho osservato una quantità di miniature e di affreschi ma so che questo non basta a fare di me un’esperta dell’abbigliamento medievale. La maggior parte degli storici medievali diranno la stessa cosa nella consapevolezza di quanto sia delicato il percorso per arrivare a formulare un’ipotesi attendibile. Ora, se gli stessi storici si muovono così cautamente su terreni che comunque praticano tutti i giorni, perché un appassionato, una guida turistica, un rievocatore, un creatore di costumi dovrebbero essere esentati dalla prudenza?
In occasione di quello scambio mi sono sentita di fare un invito ai rievocatori e agli appassionati. Siccome esistono gli studiosi del costume ed esistono pure gli strumenti adeguati alla ricerca, sarebbe importate che anche gli appassionati definissero un metodo di lavoro, una bibliografia, una riflessione sui riferimenti iconografici e una collaborazione con specialisti dei vari settori. Tutto questo per garantire ciò che si definisce un approccio filologico.
Con mia sorpresa ne è nata una piccola ma interessante discussione sui dipinti come fonte per la storia del costume fino ad arrivare a discutere, per esempio, dell’affidabilità di opere realizzate molto tempo dopo l’evento rappresentato. Al di là del caso specifico, questo mi ha fatto pensare che ci siano dei margini di confronto e che alla fine anche gli appassionati di storia medievale si stiano orientando verso un approccio più attento.
Per mia diretta esperienza posso dire che in molte feste medievali si vedono cose assai imbarazzanti, ben al di là del caso di alcune improbabili pietanze. Certe sbavature sono anche più dannose del servire piatti con mais e patata perché sono più difficili da individuare e non vengono immediatamente percepite come errori. È evidente che sarebbe bene fare chiarezza nel settore ma sarebbe importante anche relazionarsi con gli studiosi che si occupano di uno specifico argomento, sia esso il costume, il castello, la via pellegrinaggio, la stregoneria o quant’altro.
Spesso chi ricostruisce abiti o contesti medievali si attiene ad affreschi e miniature. Quello che però viene ignorato è che leggere una miniatura o un affresco – così come una fonte letteraria, un documento, un edificio – non è un’operazione così immediata come potrebbe sembrare. Senza una lettura critica delle fonti non è così automatico capire cosa si sta leggendo. Negli affreschi e nelle miniature sono, sì, rappresentati gli stili di vita ma anche gli ibridi tra umani e animali. E di quelli pare non vi sia proprio certezza.
Un’avvertenza: il dossier che troverete a seguire è uno work in progress. Se volete segnalare ulteriori letture lasciate le indicazioni nei commenti e saranno integrate nel testo. Buona lettura.
Franco Cardini, “I cento volti del Medioevo“– Festival del Medioevo 2015
Umberto Eco, Dieci modi di sognare il medioevo ne Il sogno del Medioevo. Il revival del Medioevo nelle culture contemporanee, «Quaderni medievali», 1986, n. 21.
2002. L’editore barese Adda pubblica il volume “Castel del Monte. Un castello medievale”, da me curato.
Reazioni le più diverse: positive da parte degli storici e degli studiosi che hanno un approccio storico alla castellologia; negative da parte degli esoterici più fantasiosi e degli “storici della domenica”.
Tra gli interventi positivi anche la recensione del noto critico Pietro Marino, su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8 novembre 2002.
Tra le reazioni negative, la risposta a Marino e alle tesi del volume contenuta in un intervento su quel giornale il 23 novembre, a firma di Nedim Vlora, docente di geografia presso l’ateneo barese, ed esperto di astroarcheologia, menhir, piramide di Cheope, geroglifici, e naturalmente Federico II e Castel del Monte.
All’articolo di Vlora decise di rispondere, anche perché direttamente chiamato in causa, il grande medievista Giosuè Musca: una risposta, pubblicata il 28 novembre, nello stile sapientemente caustico di Musca, che ironizzò anche, documenti alla mano, su alcune delle tante teorie fantasiose che i cultori di Castel del Monte non-è-un-castello-e-chissà-che-diavolo-è avevano seminato (e continuano a seminare) nella vasta prateria in cui, ai piedi del castello, pascolano a centinaia bufale e stereotipi.
Ai tanti amici che da tempo mi chiedono di leggere quell’articolo di Musca, oggi posso rispondere positivamente: ne voglio ringraziare anche a nome loro l’amico Giuseppe Conte (che, tra l’altro, al medioevo alchemico ha dedicato un godibile romanzo, “L’alchimista e l’albero della vita”), per averlo cercato e quindi per avermene inviato una copia leggibile.
Raffaele Licinio: Mai confondere la divulgazione storica con la promozione turistica
Non smette di far discutere Splendori di Puglia, ovvero le due puntate di Ulisse, trasmissione televisiva di Alberto Angela, dedicate alla Puglia.
La prima, andata in onda sabato scorso, era dedicata in particolare alla Puglia Settentrionale e Centrale. Il post di Lettere Meridiane in cui lamentavo la scarsa attenzione prestata da Alberto Angela a Foggia e alla Capitanata ha suscitato un nugolo di commenti, e cercherò per quanto possibile di darne conto, perché hanno il pregio di rappresentare una riflessione collettiva su un tema – l’immagine e la promozione del territorio foggiano – che rappresenta una sorta di buco nero nell’opinione pubblica provinciale.
Tra i commenti che mi hanno più colpito, c’è quello di Raffaele Licinio, grande medievista e docente di storia medievale, che riflette sulla linea di demarcazione tra la divulgazione scientifica e la promozione territoriale. La riflessione di Licinio trae origine proprio dal post di Lettere Meridiane. Ecco cosa scrive il professore:
Mai confondere la divulgazione storica (per esempio, tanti programmi di RaiStoria) con la promozione turistica: sono due attività pienamente legittime, ma da tenere distinte.
A proposito della puntata sulla Puglia di “Ulisse”, leggo nel blog “Lettere Meridiane” dell’amico Geppe Inserraalcune osservazioni che mi sembrano equilibrate. E ci trovo questo riferimento:
«In un comunicato stampa diffuso dal GAL “Colline Ioniche” si apprende che la visita di Ulisse al Quartiere delle Ceramiche “è stata promossa da Pugliapromozione (l’agenzia di marketing territoriale della Regione Puglia, n.d.r.) con il contributo del GAL Colline Joniche e del Consorzio dei Ceramisti che hanno coordinato l’accoglienza e la visita della troupe televisiva. L’attività rientra in un progetto per la documentazione e la valorizzazione del secolare patrimonio della produzione delle cosiddette “ceramiche d’uso”».
Sana e corretta divulgazione storica rispetto alle culture territoriali, allora, o promozione turistica determinata da altri interessi di valorizzazione? Io non ho dubbi: la storia non si divulga in funzione del marketing.
In precedenza, sollecitato da alcuni amici che gli chiedevano un parere sulla trasmissione, Licinio aveva dedicato uno specifico post a Splendori di Puglia:
Qualche amico/a mi chiede un giudizio sulla trasmissione di Angela “Ulisse – Il piacere della scoperta – Splendori di Puglia”, trasmessa ieri 10 ottobre su Rai3.
Non l’ho vista mentre veniva trasmessa, ma ho potuto vederla con calma stamattina grazie al link che mi hanno fornito.
In breve, un programma un po’ superficiale, mediocre, con qualche aspetto positivo, specialmente sul piano visivo, con diversi stereotipi, e con qualche svarione grave: non li enumero perché non voglio apparire il supercritico scontento che aggrotta sempre il sopracciglio, ma francamente, a proposito della nascita del Petruzzelli, sentire che nel 1894 Bari aveva 800.000 (ottocentomila) abitanti, è una di quelle cose che ti fanno rimpiangere Kazzinger, che almeno fa ridere di suo.
Questo è quello che penso. Liberi gli altri di pensarla in maniera diversa. Ma al primo che mi scrive tra i commenti che l’importante nella buona divulgazione di massa non è quello che si dice, ma il fatto che si dica qualcosa, gli strappo i neuroni residui e me li mangio crudi (alla barese, anzi, alla pugliese maniera).
di Raffaele Licinio in «Quaderni medievali», 43 (1997).
L’Italia è paese dai molti castelli, oltre 20.000, secondo l’Istituto italiano dei castelli. Fortezza, maniero, forte, rocca, casaforte, palazzo fortificato; castello-fortezza, castello-residenza, castello-palazzo, rocca-castello, palazzo-reggia, castello-mastio; in altura, in pianura, costiero, esterno o interno all’insediamento; strategico-militare, residenziale, difensivo, rappresentativo: innumerevoli le classificazioni tipologiche possibili, per forma, struttura, utilizzo, funzioni militari, funzioni politiche, stato di conservazione… Castelli pubblici e castelli privati; castelli feudali, castelli comunali e castelli regi; castelli in rovina e castelli visitabili; castelli saldamente impiantati nel tempo storico, e castelli senza cronologia, rivisitati dall’immaginazione, rifondati come simboli di un Medioevo metaforico. Castelli reali, castelli immaginari, e da qualche anno anche castelli virtuali; fortificazioni in pietra del sistema castellare, e tecnologiche fortificazioni del sistema binario; castelli immobili e saldi, che cedono solo a lunghi e faticosi assedi, e castelli che si spostano e si aprono con la pressione di un dito su un mouse; castelli insomma che mutano di segno, attraversando e superando antiche tipologie. Esploriamone gli esempi più recenti, quelli più vistosi perché toccati dall’autostrada della divulgazione ed esplicitamente indirizzati ai non specialisti, per costruire un percorso di lettura che in qualche punto possa anche incrociare il sentiero della didattica.
Cominciamo dai Castelli d’Italia e i più grandi d’Europa. Storia. Miti. Leggende, Hobby & Work Italiana Editrice: 75 castelli italiani e 25 europei, presentati in 100 fascicoli (più o meno a scadenza settimanale), ognuno di 20 pagine più 4 di copertina, da raccogliere in 9 volumi. Ogni fascicolo comprende 3 sezioni: la monografia del singolo castello, cui sono dedicate 12 pagine; il Repertorio generale di tutti i castelli e le fortificazioni esistenti in Italia, nell’inserto di 8 pagine centrali; la Storia dell’architettura difensiva in Italia, dalle prime fortificazioni di età preistorica fino a quelle costruite durante la seconda guerra mondiale, nella terza e quarta pagina di copertina. Ad alcuni castelli viene poi allegata una videocassetta, 13 in totale. Un’opera di eccezionale impegno per la Hobby & Work, recita la locandina pubblicitaria; ma anche, non si può negarlo, per l’acquirente e per il rilegatore: 4 volumi, con le monografie castellari, 300 pagine ciascuno, saranno formati dalle 12 pagine esterne di ogni fascicolo; altri 4 di Repertorio, 200 pagine ciascuno, formati dalle 8 pagine centrali; il nono infine, la Storia dell’architettura difensiva, 198 pagine, formato dalle ultime due pagine di copertina. Totale: 2.198 pagine complessive.
I conti tornano, sulla carta. Nella realtà si complicano, e saranno problemi per il nostro rilegatore, dal momento che qualche fascicolo risulta stampato con un’impaginazione sbagliata, che non consente di staccare come blocco autonomo le pagine dell’inserto centrale, oppure con numeri di pagina errati (in un’opera di queste proporzioni errori del genere possono accadere; devono necessariamente accadere?), compromettendo in entrambi i casi la sequenzialità delle sezioni e la stessa rilegatura. L’editore, cosparso il capo di cenere, in un caso ha provveduto a ristampare il fascicolo (il numero 3), distribuendolo gratuitamente con un altro fascicolo (il numero 16: l’acquirente occasionale si è così ritrovato con due fascicoli al prezzo di uno; ringraziamenti vivissimi); in un altro caso (fascicolo numero 5) ha solo ristampato su adesivi i numeri corretti di pagina, inserendoli in un successivo fascicolo (ancora il numero 16), informando il lettore dei due inconvenienti e dei relativi provvedimenti correttivi solo nei fascicoli 6 e 13 (e ovviamente nel 16, con le istruzioni del caso: Hobby, Work & do-it-yourself). Aggiungiamoci la ristampa di qualche pagina (la 311, fascicolo 34) in cui il discorso si conclude senza completare la frase, privando tutto il periodo di un senso compiuto (del quartino in ristampa si dà però notizia solo nel fascicolo n. 46, avvertendo che lo si allegherà al n. 48). Per il futuro, chi vivrà vedrà. Si arriverà all’ultimo fascicolo stremati, ma con la non magra consolazione di disporre di un’opera «completa e unica» nel suo genere. Completa? Diciamo unica.
Ogni monografia dovrebbe contenere in genere una sintetica storia delle vicende che hanno interessato il castello, dalla fondazione allo stato e alla destinazione attuali, con particolare rilievo a personaggi, episodi e leggende; un’analisi della tipologia architettonica e delle funzioni del castello; una descrizione del territorio in cui esso sorge; riferimenti alle testimonianze storico-artistiche; una documentazione cartografica e soprattutto fotografica; la storia, a grandi linee, della dinastia o delle famiglie che ne sono state proprietarie; un quadro della vita quotidiana, degli usi e dei costumi, con la dodicesima pagina (Oltre il castello) sempre dedicata ad altre strutture visitabili, torri, chiese, monumenti, della località e del suo territorio. […]
Il risultato dell’aggregazione per aree e regioni parla da sé: nessuna monografia è stata sin qui pubblicata, o annunciata nel piano complessivo dell’opera, per i castelli del Molise e della Sardegna, e per alcune regioni, prime fra tutte la Basilicata, la Calabria, la Valle d’Aosta, il Piemonte, scompaiono strutture monumentali e di rilevanza storica indiscutibile. E si ignorano criteri e motivazioni delle scelte compiute. Più che una scelta, sembra funzionare una sorta di feroce decastellamento; decastellamento totale in alcune regioni, selvaggio in altre, parziale in quasi tutte. Paese dai molti castelli, l’Italia diventa così paese dai troppi castelli. […]
Prima e più di ogni altro elemento, sono i sottotitoli di ogni monografia ad anticipare e indicare, nella loro necessaria sinteticità, il carattere bozzettistico, enfatico e spesso oleografico dei testi. Per alcune strutture il sottotitolo richiama dati storici, come per la Rocca Malatestiana di Cesena («Contesa da Guelfi e Ghibellini») e per i castelli di Lucera («Sulle tracce di Federico II»), Otranto («Testimone dell’assedio musulmano»), Caserta Vecchia («Metà longobardo metà svevo»), o architettonici, come per la fortezza di Sansepolcro («Quattro puntoni a forma di cuore»), la rocca di Sassocorvaro («Una testuggine fra le colline del Montefeltro»), la Rocca Roveresca di Senigallia («Siglata dal Pontelli e dal Laurana»). Per altre sottolinea funzioni strategico-militari, come per la fortezza di Palmanova («Piazzaforte ideale della Serenissima»), il castello di Andora («Palazzo-recinto dei Clavesana»), il forte di San Leo («Inespugnabile guardiano del Montefeltro»), la rocca di Spoleto («Chiave militare per lo Stato Pontificio»); o evidenzia la funzione residenziale, come per la Rocca Sanvitale di Fontanellato («Residenza dei signori di Fontanellato»), la reggia di Caserta («La grande residenza dei Borbone»), il castello di Serralunga d’Alba («Nelle terre del Barolo la dimora dei Falletti»); o semplicemente segnala l’ubicazione, come per il castello di Cherasco («Affacciato su uno sperone di tufo»), la rocca di Angera («Specchiata sul Lago Maggiore»), la rocca di Dozza («Nel cuore della Romagna imolese»), il Castello di Lombardia di Enna («Nel cuore della Sicilia»).
Abbondano in compenso gli stereotipi di ogni genere, gli slogan da dépliant turistico, le frasi ad effetto: così per il castello di Fénis («Fra santi e filosofi in Valle d’Aosta»), la rocca di Castell’Arquato («Un tuffo nel Medioevo»), il Castello Malaspina di Fosdinovo («Leggende e misteri rivivono a Fosdinovo»), Castel Coira («Raro esempio di cultura cavalleresca»), il castello di Portovenere («Affacciato sul golfo dei poeti»), il Castello Caetani di Sermoneta («Il fascino del Medioevo a Sermoneta»), il Palazzo dei Normanni di Palermo («Suggestioni d’Oriente a Palermo»), il Castello Maniace di Siracusa («Documento di pietra della storia di Siracusa»), e via dicendo.
La ricerca del facile effetto (inimitabile il sottotitolo relativo al castello di Pacentro, «Piccola Manhattan d’Abruzzo»: la spiegazione, non chiarita nel testo, è reperibile solo in una didascalia), la cifra stilistica tendente alla retorica, la magniloquenza, l’uso costante di aggettivi ridondanti, fanno velo nel testo di molte monografie all’informazione storica, a volte piegandola ad esigenze bozzettistiche, altre volte deformandola. Prevale ovunque la grandiosità, la bellezza, l’eccezionalità, la magnificenza, la monumentalità: tra esaltazioni e suggestioni, la monografia si trasforma in oleografia, confinando il castello nello spazio di una romantica cartolina illustrata. Ecco la rocca di Sassocorvaro, «emblematica, organica, macchinosa, suggestiva, magica, simbolica,… senza dubbio fra i casi più affascinanti e particolari» (n. 46, p. 409). Il castello di Sanssouci («Il trionfo della fantasia», magnifica il sottotitolo) «è una fabbrica di inimmaginabile tripudio», dove «c’era un momento in cui la musica prendeva il sopravvento sul fruscio degli alberi e il cinguettio degli uccelli. Era quando nel tardo meriggio partiva il “la” di soavi armonie che si spandevano nell’aria» (n. 47, pp. 133 e 141). Nelle Langhe, «un luogo mitico» in cui «converge un immaginario quantomai sfaccettato cresciuto sui tasselli dei ricordi di un’Italia in gran parte scomparsa», in un paesaggio dall’«armonia che non è stata violentata in alcun modo», dove dei colori «in cartellone c’è l’intero arcobaleno», e in autunno «anche i profumi concorrono all’irruzione dei ricordi su per la provinciale», il castello di Serralunga d’Alba è un «singolare gigante che sembra voglia sfidare il cielo e insieme le leggi della fisica» (n. 58, pp. 517-519). Intanto, presso la rocca di Dozza, «l’ala della storia volava bassa sull’Italia dei Comuni quando Federico Barbarossa concepì il sogno feudale di un grande impero» (n. 50, p. 446). Mentre nella Napoli angioina «le caratteristiche che spinsero il re Carlo I a scegliere di costruire in questo luogo il suo castello, sono i motivi per cui Castel Nuovo, o Maschio Angioino che dir si voglia, è stato ed è il “centro storico” di Napoli. Detto questo, però, non è detto nulla. La posizione di Castel Nuovo è, in una parola, bellissima» (n. 10, p. 87).
Sul piano dell’informazione storica i testi delle monografie risultano disomogenei e diseguali: alcuni sono attenti alla storiografia più recente, altri raccolgono a piene mani dati trasmessi dalla tradizione ma smentiti dalle ricerche degli specialisti; alcuni collocano la struttura castellare in un contesto storico più generale, altri puntano alla valorizzazione dei personaggi e degli elementi leggendari o di costume. L’attenzione del lettore, quando catturata, non sempre è soddisfatta; in nessun caso viene fornita una pur minima informazione bibliografica, nella presunzione che la divulgazione di massa non ne abbia bisogno o non ne faccia richiesta. Si rafforza in questo modo una catena di trasmissione culturale che non propone la verifica, trasmette certezze. Senza verifiche, si finisce per credere che Corradino di Svevia non sia mai stato processato, condannato a morte e giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1269, ma sia morto nel Lazio, come dichiara la monografia su Castel Coira trattando di Mainardo II, tra 1258 e 1295 signore del Tirolo, che dopo sette anni di cattività, «una volta libero, sposa Elisabetta di Wittelsbach, la vedova dell’imperatore Corrado IV di Hohenstaufen (madre di Corradino, morto a Torre Astura, presso Anzio)» (n. 54, p. 483). Si accredita la tesi che vuole Federico II di Svevia anche architetto e progettista castellare, come suggerito nel fascicolo sul castello di Prato, «esempio di quel “classicismo eclettico” che segna le architetture volute (e spesso disegnate) dall’imperatore» (n. 42, p. 379): quale prova fondata abbiamo, diretta o indiretta, di un solo disegno o schizzo castellare federiciano? Si ritiene «tra le più attendibili», scrivendo di Castel del Monte, una datata tesi che ne faceva «risalire l’origine a una primitiva costruzione romana» (n. 3, p. 32). E il castello di Bari, che sappiamo innalzato ex novo dal re normanno Ruggero II dopo il giugno 1132, finisce per essere retrodatato di secoli, giacché «i primi a mettervi mano furono addirittura i Romani» (n. 8, p. 62), oppure, a scelta, solo di qualche decennio, perché fu «Roberto il Guiscardo… a dare l’avvio all’attuale struttura» (p. 63). Su Ruggero II nemmeno un cenno: e un castello reale, quello ruggeriano, clona due castelli immaginari, quello romano e quello guiscardiano.
Chiediamo lumi alla videocassetta allegata al fascicolo, Bari. Il Castello Svevo. Il pretesto per mettere in scena e spettacolarizzare le vicende del castello è dato dall’incontro di una guida con una coppia di giovani turisti. La guida inizia a parlare della struttura, precisando che non sono molti i documenti disponibili. «Ma possibile che pagine di storia come quelle dei castelli non abbiano riscontri attendibili?», domanda la ragazza. E la guida: «No, esageri, forse gli impianti storici [?] sono gli unici accertati. È comunque sicuro che il castello di Bari è stato edificato nel 1131 per volere di Ruggero il Normanno, anche se altri studiosi sostengono che sia sorto da precedenti fortificazioni». Mistero su come abbia fatto questo Ruggero a costruirsi il castello in una città che nel 1131 è ancora in mano alle forze autonomistiche locali, guidate dal principe Grimoaldo. Interviene un altro personaggio per aggiungere, saccente, che il castello subì i primi danni nel 1137, «ad opera dell’imperatore Lottario». È vero, consente la guida, «ma in seguito fu distrutto quando i Baresi si sollevarono a favore dell’imperatore Manuele». Quanti imperatori, e di quali imperi? Il saccente riprende: «E fu quella la causa che provocò la reazione di Guglielmo I». Ragazza: «Una battaglia?». Guida: «Una battaglia combattuta dai Baresi, che fece incavolare Guglielmo I». E con una meditata riflessione del turista, «Eh, anche i nobili talvolta s’incavolano!», si passa al primo episodio storico, la sollevazione dei Baresi: una scena in cui 5 (cinque) popolani, tre uomini e due donne, stazionano presso l’ingresso (attuale) del castello, le donne divertite, gli uomini che spingono senza troppo impegno una trave, a mo’ di ariete, sul portone chiuso. Sugli spalti, tranquilla, passeggia una sentinella in abiti senza tempo. Più in là, un ferocissimo quasi-duello tra due personaggi, il re normanno Guglielmo I (sarà poi detto il Malo), e un barese che la retrocopertina della videocassetta assicura chiamarsi Licinio (Licinio?). «È finita per te, Malo [Malo?], lascia il castello e cedi le armi all’imperatore», minaccia il Barese. E il sovrano: «Brutto servo traditore, la città, il castello sono miei». No, rivendica l’altro, «la città e il castello sono dei Baresi», dimenticando che i Baresi non accettavano la presenza del castello proprio perché simbolo del potere regio. E mentre fuori la folla (?) grida «A morte il Malo!», «Via, lascia il castello!», Guglielmo filosofeggia: «Ma quale città? Non esiste una città. Io la distruggerò. E se non ci sarà più Bari, non ci saranno più Baresi». Lasciamo perdere il resto, compreso quel personaggio, il buffone-omosessuale, che dopo aver infastidito a lungo i duellanti, e mentre re Guglielmo sta intimando agli abitanti di abbandonare la città, urla alla folla un penoso «Via, via… Vogliamo restare soli…». La spettacolarizzazione ha le sue esigenze, e allora passi per Guglielmo chiamato familiarmente Malo (non lo avranno confuso con Melo da Bari?) e per tutto il resto: ma il castello non è più in piedi, è stato già ridotto in rovina dai Baresi quando il re ordina di distruggere la città; la sua decisione è appunto una reazione al comportamento dei rivoltosi. Nella storia che ci racconta il filmato, un castello immaginario è invece diventato reale.
E passiamo al secondo episodio, in cui è di scena Federico II, che nel 1233 provvede a restaurare e ristrutturare l’impianto castellare normanno. Quando la guida pronuncia il nome dello Svevo, la turista ha un sussulto: «Ma chi, il grande imperatore? L’uomo delle crociate?». Sì, conferma la guida, un personaggio su cui «hanno fatto e fanno convegni, dibattiti, hanno fatto dei film. La storia ne parla. E ne parlano le raccolte enciclopediche della Hobby & Work», e intanto la telecamera indugia sul cortile rinascimentale. Raccolte enciclopediche, convegni, dibattiti, saggi, ricerche storiche: vediamo come ne utilizzano i risultati gli strumenti di divulgazione. La coppia di turisti e la guida, cui si è unito un frate francescano, giungono presso la lapide che ricorda la presunta visita di Francesco d’Assisi nel castello barese, dove avrebbe incontrato Federico II, il quale per verificarne la santità lo avrebbe fatto tentare da una donna. Un episodio leggendario? Forse, ipotizza con sguardo complice la guida, anche se «io personalmente lo credo possibile», poiché i due personaggi «avevano in comune l’amore per la natura e per gli animali». E potrebbe bastare, se la guida non avesse voglia di far notare la sua preparazione. Sì, pontifica, la visita deve esserci stata senz’altro: a quel tempo «Federico era molto giovane, era il 1120 [in pratica, uno spermatozoo imperiale], altri testi dicono il 1122. Pare che l’imperatore, avendo letto alcuni scritti del fraticello d’Assisi sulla natura e sugli animali, volesse approfondire il rapporto e la conoscenza con Francesco, e addirittura averlo alla sua corte. Chissà. Questo però non lo sapremo mai». In compenso, ecco una scoperta di un certo peso e dai chiari risvolti didattici, abbiamo appreso che si può leggere e scrivere ancor prima di nascere.
Sorvoliamo sulle scene successive, in cui un Federico nerissimo di capelli e un Francesco in rigorosa divisa francescana si scambiano riflessioni di portata cosmica e sguardi assenti, e mentre i due si confrontano sull’universo e sulla storia da manuali, una bionda fanciulla si sforza invano di tentare Francesco (a mo’ di Sharon Stone nel film Basic Instinct). e sorvoliamo anche sul terzo e ultimo episodio, che rappresenta Bona Sforza già regina e vedova (ma qui, stranamente, ancora molto giovane), impegnata a farsi corteggiare e nel contempo a dare istruzioni sulla ristrutturazione del castello, mentre sugli spalti continua a passeggiare, tranquilla nel suo sereno distacco dal mondo, la sentinella dagli abiti senza tempo. Ma, chiede la turista, «era davvero bella la regina Bona Sforza?». «Certo – mente senza nemmeno saperlo la guida – una donna affascinante… che aveva molti corteggiatori»; anzi, lo ammette poi la stessa Bona, «ero più bella al ritorno [dalla Polonia] che prima di sposarmi». La scena torna infine ai nostri giorni; la visita al castello sta per concludersi, ma la guida riesce ancora a fornire qualche altra notizia, collocando re Ferdinando II nel secolo XIII. Ai due giovani turisti non rimane che ringraziarla, con la promessa di tornare a Bari per approfondire la storia del castello: dopo quelle informazioni, è il minimo che si possa augurar loro.
Val la pena a questo punto visionare un’altra videocassetta. Per rimanere nell’età di Federico II scegliamo quella su Catania. Il Castello Ursino. Anche qui, con una breve storia del castello, tre episodi. All’inizio la voce narrante dedica qualche minuto alla storia del castello, facendone risalire la progettazione «ai primi anni del Duecento», ovvero al 1209, quando il giovane Federico viaggiando per la Sicilia visita per la prima volta Catania. Ma nell’isola un vero e proprio programma castellare, si precisa, viene messo a punto dopo il 1231, dopo «le Constitutiones Melfitane» (attenzione: la voce pronuncia esattamente constitutiones); sicché il castello fu edificato a Catania tra 1239 e 1250, «su disegno prepòritusedificiorum Riccardo da Lentini, che ne diresse i lavori». Disegnoprepòritus? Andiamo avanti. Nel primo episodio, proprio Riccardo si presenta al cospetto di Federico II con un masso di lava in mano: un modo brillante per evidenziare il materiale con cui fu costruito il castello. In nome delle necessità della divulgazione e della teatralizzazione tutto è possibile: superfluo allora protestare per un Federico rappresentato anche qui con capelli nerissimi (perché siciliano, o per irreperibilità di una parrucca?), per l’abbigliamento dei personaggi, per l’elmo del soldato di guardia, per i rotoli di carta velina, dal vago sapore attuale, disposti sul tavolo da progettista dell’imperatore. È comunque difficile accettare il dialogo che segue, con Riccardo che motiva allo Svevo la sospensione dei lavori nel cantiere castellare. I popolani, che l’architetto osa paragonare all’imperatore in quanto, secondo natura, «esseri intelligenti: pensano come me, come voi, Maestà», «non conoscono, non possono capire le vostre grandi opere, la Costituzione siciliana, il “Liber Augustalis”, un grande trattato giuridico». Ieratico, Federico gli risponde che solo la storia, non il popolo, potrà giudicare la sua grandezza, il suo «contributo all’umanità»: «Sapete, sto scrivendo un trattato di ornitologia, De arte venerandi cum avibus…». Date queste premesse, non ci si stupisce di sentir dire che l’astensione delle maestranze non è assenteismo, né congiura, né ricatto. Di più, giura Riccardo: «Uno sciopero, una questione sindacale, un nuovo modo per ottenere quello che loro pensano sia giusto». «Non avevo mai sentito di questa forma eversiva di solidarietà – ammette Federico mordicchiandosi le auguste dita – È un precedente pericoloso e assurdo». Già. Qui fuori, continua Riccardo, ci sono tre loro esponenti che aspettano di essere ricevuti: «Sappiate che i tre sono rappresentanti dei popolani, dei contadini e delle maestranze edili». «Fateli entrare». Sorpresa: entrano un uomo e due donne (il giorno era forse l’8 marzo). E che cosa chiedono? «Un atto di umanità e di democrazia». «Ma è ridicolo», reagisce Federico. Siamo d’accordo con lui.
Dopo una descrizione storico-architettonica del castello che nella sua brevità trova il modo di trattare della «tipologia dei castrum» federiciani e di quella «del palarium», consoliamoci con il secondo episodio, la tenera storia d’amore tra Martino di Montblanch e sua cugina, la regina Maria, promessa invece a Galeazzo Visconti. Una telenovela ambientata nella seconda metà del secolo XIV, talmente densa e palpitante di passioni da far passare in secondo piano gli anacronismi storici qui seminati con sapienza. Rimane la curiosità di saperne di più sull’illustrazione a stampa che a un certo punto si lascia intravvedere tra le pagine di un volumone rilegato che, semichiuso, è nelle mani del reggente del regno, Artale, per tutta la durata di una scena; e c’è qualche sottile, metaforica ironia (che, inesperti come siamo di divulgazione di massa, non siamo in grado di cogliere), nel fatto che sia proprio il reggente a reggere il libro?
Nel dubbio, lasciamoci alle spalle il prevedibile happy end tra Maria e Martino, e sull’ultimo episodio, la leggenda della dama bianca, limitiamoci a una sola considerazione. Qui una fanciulla appare in sogno al conte Ruggero ogni notte, vestita sempre di bianco: innamoràtosene, Ruggero potrà averla solo uccidendo il gigante Ursino, che dal castello insidia la fanciulla. Il gigante, naturalmente, nell’immaginario collettivo è lo stesso castello. E ci sembra che nel filmato l’identificazione sia colta. Una caduta di tono, se mai, è nella scena del duello tra il conte e il gigante, che usano le spade come se non le avessero mai viste prima, e poi nella sequenza finale, fantozziana senza volerlo: 1) sulle ali della musica, il conte corre verso la dama bianca da destra verso sinistra; 2) la dama bianca corre verso il conte da sinistra verso destra; 3) il conte correndo allarga le braccia; 4) la dama correndo allarga le braccia; 5) a quella velocità, i due si mancheranno, o si scontreranno?
E si potrebbe continuare a imparare visionando le altre videocassette. Quella, ad esempio, che riporta sulla copertina il titolo Il castello di Marostica, e presenta invece come titolo del filmato Marostica. «La città murata» (così, quella su Il castello Vecchio di Caserta s’intitola nel filmato Caserta. La torre dei falchi); o quella su Cesena. La Rocca Malatestiana, che vede scorrere prima del titolo l’istruttiva avvertenza che «la Rocca, fino a qualche tempo fà era adibita a carcere»; o infine quella su Mantova. Il castello di San Giorgio, in cui un gruppo di giovani turisti in visita castellare, giunto in una camera da letto, si lascia andare a osservazioni di robusta valenza pedagogica. Un giovane: «Se questo letto potesse parlare, ragazzi, i racconti erotici…». Una ragazza, con la «giraffa» del sonoro in presa diretta che le volteggia visibile sul capo, gli obietta: «Ma dai, non essere blasfemo, stai parlando dei nobili… I nobili non ce l’hanno, il sesso». E mentre la «giraffa» scompare (per la vergogna?), un altro giovane precisa: «Ma che dici, ce l’hanno piccolo, ma ce l’hanno…».
Al di là delle diverse vicende narrate e dei singoli episodi rappresentati, al di là degli stessi anacronismi e degli errori storici, sintattici e grammaticali, il filo rosso che collega anche questi strumenti di divulgazione è la concezione romantica del castello medievale, popolato da nobili e giullari, da cavalieri generosi e dame affascinanti, ricco in ogni pietra e in ogni stanza di fascino e di mistero, luogo di duelli, di oscure trame, d’inconfessabili passioni e di dolcissimi ma sempre contrastati amori: «Siete un poeta», dichiara a Vieri da Vallonara, nel filmato su Marostica, la timida ma passionale Lionora Parisino. «E voi siete la mia poesia», le risponde Vieri, prima di contenderne la mano al rivale Rinaldo d’Angerano. Ancora un contrasto d’amore: ma dopo il solito quasi-duello con le spade, si approda qui ad un altro tipo di sfida: la partita «al nobil ziogo degli scacchi». Il gioco, altro elemento in cui s’incardina l’immagine tradizionale del castello. Anzi, tutto è gioco, il castello, i personaggi, le vicende; ha ragione allora Caterina Visconti, sempre nel filmato su Marostica, a sostenere che «il Rinascimento no xè un’epoca, ma un temperamento»: il Rinascimento, il Medioevo, la storia.
Divertirsi e imparare. Ne parla anche l’editoriale del primo numero della nuova rivista mensile, «Medioevo», edita da De Agostini-Rizzoli Periodici e diretta da Jean-Claude Maire Vigueur. Pubblicizzata sulla stampa con efficaci inserzioni, distribuita nelle edicole, e dunque scegliendo la grande divulgazione, in edicola già da gennaio 1997 (ma il numero 1 è datato febbraio), «Medioevo» aspira a ritagliarsi la sua fetta di mercato sfidando la concorrenza di una rivista del calibro di «Storia e Dossier», giunta al dodicesimo anno di vita. Generalista quest’ultima, specializzata su un periodo specifico l’altra. È prematuro far confronti (né si potrebbe evitare di allargarli alle riviste divulgative d’oltralpe, prima fra tutte, in ogni senso, «L’Histoire»), ma sin d’ora si può rilevare in «Medioevo», dalla sottotestata «Un passato da riscoprire», come dall’editoriale di Maire Vigueur («Perché è un passato da riscoprire»), l’ambizioso progetto di tenere insieme, e di renderle fruibili didatticamente e sul piano della divulgazione, sia la ricerca di identità che la valorizzazione delle eredità storiche, sia la storia come ricerca che la storia come narrazione: «Non è detto… che ci si diverta solo con il racconto e che si impari solo con l’approfondimento analitico. Da quando è nata, la storiografia ha sempre cercato di perseguire questo doppio obiettivo. Non vediamo ragioni per cambiare strada».
Non c’è ragione per cambiar strada: in una realizzazione grafica che appare incisiva, gradevole e ricca di illustrazioni (sempre corredate da didascalie), non sono pochi gli articoli all’altezza delle dichiarazioni programmatiche (per far dei nomi, almeno quelli a firma di Giuliana Albini e Anna Benvenuti), e comunque più numerosi degli articoli troppo generici o con qualche inesattezza. Sui castelli scrivono Sandro Carocci, Nel segno del potere. Il castello, un’invenzione del Medioevo, e Minna Conti, La Puglia di Federico II. Sei castelli per un re. Il primo articolo si fa notare anche per la capacità di impostare il tema e spiegare il ruolo del castello all’interno del più vasto fenomeno dell’incastellamento, letto correttamente non solo in chiave strategico-militare, ma anche in rapporto all’organizzazione del territorio, ai rapporti di potere, al popolamento, alle forme degli insediamenti e al paesaggio economico e sociale. Un articolo divulgativo ben scritto, chiaro, utile, in cui sarebbe stato opportuno, tra i tanti riquadri esplicativi, inserirne un altro con qualche indicazione bibliografica, per consentire ulteriori approfondimenti: ma questa è una carenza che si avverte in tutti gli articoli del primo numero.
Con uno stile di scrittura altrettanto semplice ed efficace, il secondo articolo (firmato da quella stessa Minna Conti cui dobbiamo i fascicoli più convincenti dei Castelli della Hobby & Work) traccia un itinerario che dal Gargano alle Murge baresi, con le caratteristiche soprattutto strutturali di sei castelli pugliesi legati agli interventi di Federico II, Lucera, Monte Sant’Angelo, Barletta, Gravina, Castel del Monte e Bari, illustra possibili mete escursionistiche, alla scoperta di specialità gastronomiche attribuite alla tradizione locale. Un opportuno riquadro indica come e quando visitare i castelli (e qui, in piena autonomia, il visitatore potrà scoprire la relatività dei concetti di apertura e di orario). Le notizie storiche fornite dall’itinerario sono sostanzialmente corrette (anche se, nel riquadro che le è dedicato, la Lucera saracena viene definita, inestirpabile stereotipo, «città araba»), e si avverte la preoccupazione di far distinguere al visitatore, castello per castello, quanto è attribuibile all’età sveva, dalle preesistenze o dalle modifiche successive. L’articolo, riccamente illustrato, si fa leggere con attenzione e con piacere. Ma non si può evitare di osservare che nelle righe finali, a proposito del ripetersi «ossessivo» del numero otto nella struttura di Castel del Monte, una chiusura che vuol essere ad effetto, rinunciando ad ogni ironia, cede all’agguato della tentazione esoterica, e rischia di vanificare la credibilità (didattica, divulgativa, scientifica) dell’intero articolo: «Castel del Monte e Federico II. Morto il 13 dicembre 1250. Milleduecentocinquanta: uno, due, cinque, zero. Se tirate le somme, di nuovo otto. Difficile non provare una sottile inquietudine» (p. 29).
Sottile inquietudine? Di più, di più: difficile non sentirsi scorrere un brivido lungo la schiena, un brivido che freddo risale su su sino al cervello, quando si entri, con Federico II, nella misteriosa dimensione, simbolica e politica, dell’otto continuo (altri la chiamano, più prosaicamente, estrazione dell’otto): lo Svevo nasce, com’è noto, il giorno 26, cioè 2 più 6 = otto. Giorno, mese e anno di nascita: 26.12.1194: 26+12+1194 = 1232; sommiamo 1, 2, 3, 2 = otto. La battaglia di Bouvines (otto lettere!), che gli spiana la strada verso il trono, è del 1214: sommiamo 1, 2, 1, 4 = otto… Il 29.9.1227 papa Gregorio IX scomunica Federico per la prima volta: 20 (29-9) meno 12 (1+2+2+7) = otto. Lo scomunica poi per la seconda volta il 20.3.1239: 23 (20+3) meno 15 (1+2+3+9) = otto. La terza scomunica viene lanciata da Innocenzo IV il giorno 17 (1+7: otto!); più esattamente, il 17.7.1245: e dunque 6 (1-7) più 7 = 13; 1245 meno 13 = 1232, ovvero (1+2+3+2) ancora otto. Non basta? Federico è sconfitto dai Comuni presso Parma il 18.2.1248: 1248 meno 16 (18-2) = 1232, dunque otto. L’«ossessione» dell’otto può continuare sino alla paranoia: anche Federico contiene otto lettere, come secundus, castello, ottagono… e avanti così, sino alle otto lettere del nome di chi sta scrivendo. Difficile, a questo punto, non provare una sottile esaltazione.
Ormai esperti di numerologia ed esoterismo, possiamo gustarci meglio i castelli virtuali presentati in alcuni cd-rom multimediali di recente pubblicazione. Il primo, L’età dei castelli, è edito dalla Parsec. Qui ci accoglie un testo iniziale in lettere gotiche che, letto con vibrante partecipazione da una tenebrosa voce narrante, può essere considerato una sorta di manifesto ideologico del Medioevo che ci attende: «Lontano, nella notte buia in cui nacque il nostro tempo, c’è un lampo di fuochi accesi tra le tende chiare e i fasci alti di picchi, e ci par vedere un luccichio di corazze e udir voci d’uomini che parlan di donne, di bottino, d’onore. Lontano, all’ombra di torri merlate, v’è un risonar di zoccoli su un ponte levatoio, e l’affrettato aprir le porte a un cavaliere che reca messaggi da oltre le colline. Lontano, tra suoni di pifferi e tamburi, fra note di mandòle e canti, ci par udir risa di fanciulle e rumor di corse tra i cortili di una nobil dimora. Venite, dunque, a ritrovar le tracce di questo passato. Entriamo nell’età dei castelli». È un Medioevo totale, un Medioevo full-time, quello che ci accoglie: nei testi, nella grafica, nei personaggi, nelle voci, nelle musiche, nelle atmosfere. E nei castelli.
Nella scena iniziale basterà cliccare con il cursore del mouse sui battenti della porta in basso, perché questa si apra (per uscire, occorre invece servirsi del «nero rapace che volteggia in alto»), e scricchiolando ci introduca nella seconda scena, quella di base. Qui, in primo piano un cavaliere; dietro di lui il «castello della conoscenza»; sullo sfondo sei sagome castellari: tre possibili percorsi, da seguire con l’ausilio di una «Guida all’uso» di facile utilizzo. Cliccando sul cavaliere ci vengono presentati sei personaggi, ognuno dei quali racconta il suo personale Medioevo: la dama («pegno e strumento di concordia…; passato è ahimé il buon tempo antico»); il menestrello (canta «le donne, i cavalier, l’arme, gli amori e le audaci imprese», e conduce «i vostri pensieri raccolti a navigar per le soavi aere della poesia»); il paggio («assistente di tornei, servitore fedele nelle cerimonie… testimone di cupe trame e messaggero segreto e fidato»); l’abate («alla ricerca di Dio nella preghiera e nella solitudine, eppur così avvezzo alle cose e alle contese del mondo… Sulle spalle, quante trame che hanno ordito la storia di questi nostri anni così splendidi, così terribili, così bui, così affascinanti»); il matematico-filosofo («nella speculazione sta il mio piacere, vera felicità che per contemplazione della verità s’acquista. Il vizio di queste generazioni è che considerano accettabili solo le scoperte fatte dagli antichi e dagli altri»); il cavaliere («in un tempo corrusco, in cui incursioni e furia di barbari e tiranni si scatenano contro le genti, in un tempo in cui il mondo, la cultura, la civiltà subiscon assedi da ogni luogo, in quel tempo il cavaliere corre l’avventura»).
Il «castello della conoscenza» è lo scrigno dei tesori più nobili e preziosi, l’arca del sapere, un castello immaginario che può esistere solo come castello virtuale: «Quando tu sarai giunto costì, veder potrai armi, gioielli, costumi di questo nostro tempo, ed udir le molte cose che raccontar se ne possono», toccando «la fiera armatura, o il monile che scintilla, o la dama dalla lunga veste». Il libro aperto sul leggio consente invece di leggere e ascoltare «le pagine tra le più belle che di lettere e di poesia furon composte ai tempi nostri». Toccando l’organistrum poggiato ai piedi di una colonna, si possono ascoltare musiche medievali. «E se tocchi la clessidra ove la sabbia scorre, conoscere potrai fatti ed opre, cattedrali e battaglie, grandi guerre e scritti di genio, che disegnaron la storia di questo nostro tempo». Quale tempo? Dal 1000 al 1500. Il Medioevo, questo Medioevo dei castelli, non ha dubbi nel periodizzarsi e nel definirsi. Tutto sommato, meglio così: dimezzando il periodo, si dimezza anche la percentuale di errori; peccato che poi finisca dimezzata anche l’incolpevole quarta crociata che, pur presentata dopo la seconda e la terza, e pur inserita in corrispondenza del 1204, quando «Venezia diventa padrona di tutto il Mediterraneo orientale», viene qui appunto retrocessa a «seconda crociata».
Il percorso tra i sei castelli ci conduce, nell’ordine, dalla rocca di Torchiara a quella di Bracciano, da Castel del Monte alla rocca di Gradara, da Castel Coira al maniero di Fénis. Entrati in un castello, se ne potrà uscire passando solo al successivo o al precedente (oltre che a quello della conoscenza), oppure scegliendo di tornare alla scena di base. Per ogni castello troviamo un grande riquadro destinato alle immagini, sempre accompagnate o spiegate da una voce narrante; in basso, accanto al portale di uscita, un cavaliere sull’arcione, che permette di visualizzare un particolare evento della storia di quel castello, «una battaglia, un trionfo, una giostra, una zuffa per gioco, un magico correr del tempo sulle torri»; un libro semiaperto, che se toccato fa comparire una pergamena con il testo (stampabile) del racconto e un utile glossario dei termini; un giovane con il liuto, che introduce ad una leggenda legata al castello; le frecce per procedere in avanti o a ritroso; e una «rosa magica» che fa apparire dalle quinte sulla destra tre dei sei personaggi che abbiamo già incontrato, ognuno dei quali narra dalla sua particolare angolazione un aspetto della storia della fortezza.
I tre personaggi si combinano in modo diverso per ogni struttura, «ché ogni castello è un mondo ove differenti vicende son trascorse». Notato di sfuggita che è certamente significativo il modo differente in cui sono stati scelti e aggregati, castello dopo castello, i tre personaggi (quello sempre presente è il cavaliere, seguito a ruota dalla dama, assente solo da Castel del Monte), e preso atto della cospicua mole di informazioni di ogni tipo presentate nell’opera, va aggiunto che ogni castello è qui l’occasione per valorizzare un segmento particolare del Medioevo immaginato e rappresentato dalla cultura di massa. La rocca «altera e felice» di Torchiara, «una geometrica macchina da guerra che ardita s’erge contro ogni nemico», è in primo luogo «il nido d’amore» che protegge l’illecita passione di due amanti, poi raffigurati negli affreschi che ornano le pareti e la volta della grande sala d’oro: Pier Maria de’ Rossi, condottiero degli Sforza, e Bianca Pellegrino. Il «fortilizio grandemente suggestivo» di Bracciano, dove si respira «quell’aria di intrigo, delitto, amore, tradimento, congiura e odio che fa della nostra un’epoca di indomite passioni», racconta le alterne vicende dello scontro tra papato e Impero, tra la famiglia dei Borgia e quella degli Orsini. Della storia di un’altra famiglia, i Malatesta, è testimone la rocca di Gradara, dove «un amore non permesso si mutò in sventura»: è la storia di Francesca, moglie del signore di Gradara Gianciotto, e del fratello di quest’ultimo, Paolo, che «tra letture cortesi di Lancillotto e Ginevra, s’abbandonano al sentimento così a lungo represso e inconfessato». C’è poi la mole massiccia di Castel Coira, dove si stabiliscono alla fine del Duecento i signori di Matsch, «valenti condottieri e capaci uomini d’arme», e agli inizi del Cinquecento i conti Trapp, che lo trasformano in stupefacente dimora rinascimentale, di cui ci vengono descritti con ricchezza di particolari ambienti e arredi. Così anche per il maniero di Fénis, dove si è ospiti del signore di Challant, Aimone, «signore accorto e illuminato… ma non già portentoso meditatore. Le lettere non son materia in cui egli sia ferrato; preferisce piuttosto le buone cavalcate e le partite di caccia».
E con la caccia giungiamo inevitabilmente a Castel del Monte e all’«ingegno che l’ispirò e lo volle, Federico II Svevo, imperatore e stupore del mondo». Questa architettura «mirabile, dettata dal moto del sole», ci spiega il matematico-filosofo, è «monumento alla conoscenza e ai misteri iniziatici». Segue una particolareggiata esposizione della tesi detta dello gnomone: «Se infatti alla latitudine di Castel del Monte, e non altrove, ponete un bastone a perpendicolo un’ora prima e un’ora dopo mezzodì nei giorni in cui corron gli equinozi, l’angolo racchiuso tra le due ombre è di 45 gradi», e via dicendo. Davvero solo alla latitudine di Castel del Monte? Non anche a quella di Andria, dov’era un’altra frequentata residenza castellare federiciana, o a quella del fortilizio del Garagnone, sulla Murgia, a qualche chilometro di distanza da Castel del Monte? Evitiamo di sottilizzare troppo, in questa sede. Accontentiamoci di apprendere che quanto «di esoterico v’è nel castello, manifesto a pochi, è reso parte integrante della sua architettura», senza interrogarci se e quanto sia possibile addirittura divulgare i «misteri iniziatici» di un «monumento alla conoscenza». Per questa via, ogni castello reale può diventare immaginario.
Va meglio con la pur enfatica narrazione del cavaliere su Federico II e la caccia, praticata presso il «castello ch’è perla prediletta dell’illuminato sovrano», «nelle boscose selve intorno, e per le forre basse levigate dal vento». Lo sguardo di Federico è qui «ghiaccio e intenso, e i passi forti e calmi. Il suo lungo mantello struscia la pietra rossa delle porte, e al suo passaggio si fan da parte i servitori». E sembra andar meglio anche con il racconto del menestrello, che canta da par suo la vita quotidiana nel «magico anello ottagono», e il lavoro delle maestranze nel cantiere castellare, e l’apporto degli artisti e degli scultori. Il colpo basso ci raggiunge perciò senza preavviso, quando ci dice che «da quell’affaccio, ove il pensiero spazia meglio sull’orizzonte largo, e dalla spianata del castello, Federico spesso prende appunti per uno scritto sulla caccia e sui falconi: “De ars venandi cum avibus”». E cascano le braccia. Anche perché qui, a proposito dell’edificazione di Castel del Monte, il menestrello ci parla del mandato imperiale datato «il 29 di gennaio, sembrami dell’anno domini 1240, da quel di Gubbio… al fin che il castro in Santa Maria del Monte sia presto e di buona lena compiuto e rifinito», mentre in precedenza, dall’opzione-clessidra contenuta nel «castello della conoscenza», avevamo appreso che «ad Andria Federico II fa erigere il suo Castel del Monte in stile gotico-classicheggiante» nel 1250. Insomma, prima del 1240 o nel 1250?
Giriamo la questione ad un cd-rom che si definisce «multimediale educational-storico monotematico», e garantisce di saper coniugare «il rigore scientifico della ricerca storica con il fascino dell’interattività ipertestuale», Federico II l’imperatore illuminato, allegato al periodico culturale «Interactive Explora», novembre 1996 (che pubblica anche un breve ma intenso Profilo di Federico II, autonomo rispetto ai testi del cd-rom). Le credenziali sono di tutto rispetto: il cd-rom, veniamo informati in apertura, dedicato a padre Angelo Arpa, ideatore del «Progetto Europa», è stato prodotto dalla Fondazione Europa e Comunità mondiale, e realizzato con il patrocinio del Comitato italiano per le celebrazioni dell’VIII centenario della nascita di Federico II. Dal fondo nero del video che simula gli spazi siderali, ci viene subito incontro ruotando un Castel del Monte tridimensionale, che si avvicina sino a risucchiarci nel suo interno (e l’impatto visivo è di grande effetto), depositandoci di fronte ad una mappa generale, punto di partenza per un itinerario che si snoda lungo decine di argomenti e approfondimenti, cronologie, filmati e centinaia di immagini che «scorrono in sincrono con un commento audio a più voci impreziosito da musiche originali».
La mappa generale presenta in alto tre piantine dell’ottagono castellare, che riproducono rispettivamente il piano terra (formato da una sala ottagonale centrale e da otto salette trapezoidali laterali), il primo piano (che ha a sua volta una sala ottagonale e otto salette trapezoidali), e le otto torri. Sotto ogni piantina è disposta una pergamena con l’elenco degli argomenti illustrati all’interno di quel livello. Il piano terra, intitolato «Trama storica», contiene nove argomenti, in corrispondenza dei nove ambienti del piano: al primo, «Il protagonista», è dedicata la sala centrale; agli altri otto (da «L’eredità normanna», a «La successione») le salette laterali. Analogamente nel primo piano, intitolato «Stato e cultura», la sala ottagonale è dedicata al primo argomento, «Il politico e l’intellettuale», mentre le salette laterali contengono gli altri otto (da «Il re e l’imperatore» a «La vita di corte»). Ogni argomento di questi due piani prevede a sua volta sottoargomenti e ulteriori approfondimenti. Solo otto, uno per ogni torre ottagonale, sono invece gli argomenti della pergamena dell’ultimo livello, intitolato «Antologia», raccolta di curiosità e notizie di diverso genere, da «Profezie e leggende» a «Medioevo in cucina». Si può ora scegliere di stabilire autonomamente il percorso, oppure di affidarsi ad una lunga «visita guidata» in cui tappe e argomenti già prefissati si succedono automaticamente, o ancora di usufruire di una «visita virtuale» che ci mostra in formato tridimensionale i diversi ambienti del castello, dal piano terra alle torri: non nudi e spogli come oggi si presentano, ma come forse sarebbero apparsi agli occhi di un visitatore medievale.
Per ricchezza della grafica, per qualità delle immagini, dei filmati e del sonoro, per capacità di elaborazione e realizzazione tecnica, il cd-rom raggiunge la spettacolarità promessa (ma su questo piano L’età dei castelli è imbattibile). Anche se imprecisioni e limiti non mancano, dall’assenza di didascalie per le tante immagini offerte, a qualche errore seminato distrattamente qua e là. Stupisce ad esempio sentir narrare dalla voce del commentatore, nella quarta sala del piano terra, «Il regno di Sicilia», terzo sottoargomento, «La rivalsa», che giunto Federico II a Roma, «il 22 novembre del 1120 papa Onorio III lo incoronava imperatore». Oppure, sempre a proposito della corona, apprendere dalla sua biografia che Federico «ancora bambino venne allevato da papa Innocenzo III che, opponendolo ad Ottone di Brunswick, lo incoronò imperatore nel 1220», cioè quattro anni dopo essere morto. Ma qui, in un castello virtuale, anche i papi sono virtuali.
Entriamo nella quarta torre dell’«Antologia», dedicata ai castelli. C’è un non breve filmato commentato da uno speaker: scorrono, in sincronia con la voce, le immagini di alcuni dei castelli federiciani. Castel del Monte, innanzi tutto, certo «la più famosa di tutte le costruzioni federiciane», un edificio «concepito come casino di caccia e costruito tra il 1240 e il 1250». Nell’arco di un decennio, in modo da accogliere un po’ tutte le ipotesi: quella che vuole il castello completato nel 1240, quella che nel 1240 lo ritiene iniziato, quella che propone il 1250 come anno dell’ultimazione dei lavori… Tra i castelli di Puglia, ricordati ancora quello di Oria, «uno dei primi fatti riedificare da Federico», e quello di Bari, «edificato verso il 1130 da Ruggero II» (anno più, anno meno). Tra i castelli di Sicilia, citati solo il Castello Ursino di Catania e Castel Maniace di Siracusa, che «prende il nome dal generale bizantino Giorgio Maniace, che nel 1308 conquistò la città siciliana per breve tempo»: breve la conquista, ma assai lunga, quasi tre secoli, l’esistenza del Maniace, peraltro già testimoniato in Sicilia nel 1038. Ma quanti castelli ha realmente costruito nel regno, lo Svevo? Ce lo spiega la voce narrante: «La fama di Federico gran costruttore di castelli deriva probabilmente da un documento redatto tra il 1241 e il 1246, pervenutoci attraverso versioni angioine, lo Statutum de reparationem castrorum»… Ben detto: se in un Castel del Monte virtuale sono virtuali anche i papi, perché non dovrebbe essere virtuale il latino?
Rimaniamo in ambito federiciano e ancora a Castel del Monte con un altro cd-rom divulgativo, Federico II. Sole del mondo che illuminava le genti, edito nel 1996 da Artemis-Comunicazioni multimediali. Caricato il cd-rom, dopo la schermata del titolo (in cui ogni cinque secondi attraversano lo schermo in fila indiana, da sinistra a destra, cinque uccelli acquatici stridenti), si entra nel quadro di base: musica in sottofondo; a sinistra la pianta ottagonale di Castel del Monte; a destra l’imperatore a cavallo con un falcone; sullo sfondo il castello; in basso a sinistra il portale d’uscita (e ogni cinque secondi attraversano lo schermo, ma da destra a sinistra, i soliti uccelli stridenti: dopo un po’, ci si augura vivamente che il falcone si lanci a ghermirli e li elimini definitivamente). In basso la scritta «Cerca aiuto nel sole». Toccando il sole al centro dell’ottagono si entra nella guida, che dispone di quattro opzioni: come sfogliare il libro multimediale; la stampa dei testi; gli autori; la bibliografia (ma è costituita solo da undici titoli). Ciascuna delle otto sale dell’ottagono conduce ad un particolare capitolo: si va dalla «Galleria del tempo» della prima sala, ai «Personaggi» dell’ultima. Ogni capitolo, a sua volta, è diviso in paragrafi.
Nel quinto paragrafo, «Apulia luce degli occhi nostri», della sesta sala (dedicata ad «Architetti ed arte») ci appare una cartina della Puglia e della Basilicata con la localizzazione di 14 castelli «federiciani»: Monte Sant’Angelo, Castel Fiorentino, Lucera, Foggia, Barletta, Trani, Castel del Monte, Gravina, Bari, Gioia del Colle, Brindisi, Melfi, Palazzo San Gervasio e Lagopesole. Basterà sfiorare ogni castello con il cursore, perché si manifestino il nome e un’immagine della struttura; se invece si clicca sul castello, si accede alla «pagina» che gli è dedicata, con la possibilità di visualizzare immagini, filmati, testi con informazioni storiche, e di ascoltare musiche medievali. Se i dati storici forniti appaiono per lo più corretti, le immagini sono invece un po’ il punto debole di questi castelli virtuali. Intanto, perché non sempre si riferiscono ad elementi castellari di età federiciana: è una scelta possibile, forse necessaria, ma da indicare, specialmente quando si fa divulgazione. Sicché del castrum di Lucera ci vengono mostrate le mura e una delle torri angioine, invece dei resti del palazzo federiciano, e non c’è didascalia che ne dia conto; e di quello di Bari la foto ritrae uno dei maestosi baluardi angolari a lancia di età aragonese-sforzesca, e anche qui manca la didascalia esplicativa. Le immagini possono essere ingrandite: ma in quella di Palazzo San Gervasio la struttura castellare rimane indistinguibile; e può accadere che, ingrandendo un’immagine, ne venga fuori un’altra del tutto diversa, come per Lucera (e per l’immagine della cattedrale di Trani che è nella cartina degli edifici sacri dello stesso paragrafo). Sfasature sono anche nei filmati (qui previsti solo per tre castelli), con immagini poco nitide e ripetute: quello sul castello di Bari insiste sulle parti aragonesi e sforzesche, mentre la voce narrante descrive gli ambienti normanni e svevi.
A Castel del Monte si può giungere anche dalla settima sala dell’ottagono, articolata in cinque paragrafi. Nel primo, sulla genesi dell’edificio (con un filmato che, come gli altri, si apre con riprese aeree ed ha immagini non sempre a fuoco), la data di edificazione del castello viene posta «prima del 1240», citando il mandato imperiale del 29 gennaio 1240, ma si dà conto dell’esistenza di una diversa interpretazione, che vuole solo sollecitato in quella data l’avvio dei lavori. Meno problematiche le affermazioni del secondo paragrafo, sulla progettazione e destinazione dell’opera: «Si può affermare con certezza che Castel del Monte non è una fortezza militare», perché «sono assenti il ponte levatoio, il fossato», e via dicendo (sicché si è legittimati a credere che non si dà castello senza fossato e ponte levatoio), e poi perché «non è strategicamente collocato su passaggi obbligati» (sicché si deve ritenere che la via Traiana non fosse un percorso strategicamente rilevante, e che nessun rapporto, nemmeno visivo, legasse quel castello agli altri disposti nel raggio di qualche chilometro). E dopo un terzo paragrafo che ne descrive l’architettura, e prima dell’ultimo, che ne riprende la tesi dell’«affascinante isolamento», il quarto paragrafo, su geometria e simbologia dell’edificio, ci ripropone come scontata un’interpretazione che è stata formulata come ipotesi, e come pienamente decifrabile una struttura che, insanabile contraddizione, si pretende ancora inconoscibile per le sue connessioni e i suoi risvolti esoterici, «un mistero singolare nella storia dell’architettura». Mistero da cui rispunta trionfale, c’era da scommetterci, il numero otto, «che si trova ripetuto quasi ossessivamente in ogni struttura della fortezza» (come, fortezza? Non era stato affermato «con certezza che Castel del Monte non è una fortezza»?). Mistero dopo mistero, brivido dopo brivido, torniamo a sprofondare nell’ignoto: «è curioso osservare che la somma delle cifre dell’anno della morte [di Federico II], 1250, sia proprio pari a otto».
Qualcuno deve aver scritto che il Medioevo virtuale è una dimensione ai confini della realtà storica, così come il Medioevo storico è in realtà una dimensione virtuale. Il nostro itinerario fra i castelli ne è una conferma. I castelli medievali ci rappresentano, ci somigliano. Allora perché non provare a costruircelo direttamente e su misura, il nostro personale castello? Perché non disegnarlo, progettarlo, costruirlo secondo il nostro gusto e la nostra sensibilità, scegliendo forma e funzioni, materiali e strutture, mastio e ingresso, mura e tetti, torri quadre e tonde, torrette e merli, sale e scale, pozzo e cortile, alloggi per la guarnigione e stalle… Impossibile? Non ad un recente cd-rom della Tecniche Nuove Multimedia, Viaggio nel Medioevo. Castelli, dame, cavalieri e battaglie da costruire e da inventare, tra gli strumenti multimediali sin qui trattati forse il più utile, anche didatticamente, un cd-rom progettato per costruire castelli da stampare o realizzare su carta o altri materiali, «con forme e complessità diverse, dando vita ad un gioco infinito». Si dimostra così, finalmente, che anche un castello virtuale può diventare reale.
BIBLIOGRAFIA
Castelli d’Italia e i più grandi d’Europa. Storia. Miti. Leggende, pubblicazione settimanale, Hobby & Work Italiana Editrice S.r.l., Redazione Grandi opere. Progetto e realizzazione editoriale: Editing & Packagers Associati, Axioma S.r.l. Direzione generale: Bepi G. Marzulli. Coordinamento redazionale: Marina De Giorgi. Segreteria di redazione: Franca Lombardo. Progetto grafico: Andrea Mattone. Realizzazione grafica e impaginazione: Luca Marzulli, Simona Petrella. Illustrazioni e cartografia: Laura Federici. Gouaches: Laura Federici. Testi del Repertorio generale: Tiberia de Matteis. Testi della Storia dell’architettura difensiva: Lorella Cecilia, Giovanna Quattrocchi.
Testi delle monografie castellari (sino a gennaio 1997): Minna Conti: fascicoli n. 22, Castello di Fosdinovo; n. 28, Rocca di Spoleto; n. 30, Castello di Gaeta e Forte Michelangelo di Civitavecchia; n. 33, Forlì, Rocca di Ravaldino; n. 36, Siracusa, Castello Maniace; n. 38, Castello di Grinzane Cavour; n. 41, Lucera, Fortezza Angioina; n. 44, Castello di Lagopesole; n. 46, Rocca di Sassocorvaro; n. 49, Genova, Castello D’Albertis; n. 53, Rocca d’Angera; n. 55, Scozia, Castello di Glamis; n. 57, Assisi, Rocca Maggiore e Rocca di Narni; n. 59, Germania, Castello di Nymphenburg; n. 61, Rocca di Castell’Arquato; n. 62, Enna, Castello di Lombardia; n. 64, Marostica, Castello Inferiore; n. 65, Castel Gavone e castello di Andora; n. 66, Palazzina di caccia di Stupinigi; n. 67, Inghilterra, Castello di Warwick; n. 69, Senigallia, Rocca Roveresca.
Marina De Giorgi: fascicolo n. 1, Mantova, San Giorgio.
Tiziana Gazzini: fascicoli n. 2, Sermoneta, Castello Caetani; n. 6, Volterra, Fortezza Medicea; n. 9, Forte di San Leo; n. 12, Castello di Portovenere; n. 14, Castello di Issogne; n. 17, Castello di Otranto; n. 19, Romania, Castello di Bran; n. 21, Merano, Castello Principesco; n. 25, Trieste, Castello Miramare; n. 26, Napoli, Castel Sant’Elmo; n. 29, Ferrara, Castello Estense; n. 32, Verona, Castelvecchio e Castel San Pietro; n. 34, Fontanellato, Rocca San Vitale; n. 37, Roma, Castel Sant’Angelo; n. 40, Castello dell’Aquila; n. 42, Prato, Castello Imperatore; n. 48, Caserta, Reggia e Castello; n. 52, Nettuno, Forte San Gallo; n. 54, Castel Coira.
Roretta Giordano: fascicoli n. 3, Andria, Castel del Monte; n. 5, Castello di Fénis; n. 8, Bari, Castello Svevo; n. 10, Napoli, Castel Nuovo; n. 13, Firenze, Fortezza da Basso; n. 16, Cesena, Rocca Malatestiana; n. 18, Sansepolcro, Fortezza Medicea; n. 24, Catania, Castello Ursino; n. 27, Germania, Castello di Charlottenburg; n. 45, Castello di Cherasco; n. 47, Germania, Castello di Sanssouci; n. 50, Rocca di Dozza; n. 56, Fortezza di Palmanova; n. 58, Castello di Serralunga d’Alba; n. 60, Castello di Pacentro; n. 68, Palermo, Palazzo dei Normanni.
Piero Poggio: fascicoli n. 4, Valle della Loira, Castel Chambord; n. 7, Austria, Castello di Schönbrunn; n. 11, Spagna, Alcázar di Segovia; n. 15, Danimarca, Castello di Kronborg; n. 20, Milano, Castello Sforzesco; n. 23, Germania, I castelli del Reno; n. 31, Scozia, Castello di Edimburgo; n. 35, Germania, Castello di Neuschwanstein; n. 39, Inghilterra, Castello di Windsor; n. 43, Francia, Castello di Chenonceau; n. 51, Francia, Castelli di Angers e Cheverny; n. 63, Austria, Castello di Hohensalzburg; n. 70, Urbino, Palazzo Ducale.
Le videocassette, realizzate tutte su testi, sceneggiatura e dialoghi di Gian Giuseppe Viggi e con la regia di Giuseppe Viggi, voce narrante di Romano Malaspina, sono allegate ai fascicoli n. 1, Mantova; n. 2, Sermoneta; n. 8, Bari; n. 16, Cesena; n. 24, Catania; n. 32, Verona; n. 40, L’Aquila; n. 48, Caserta Vecchia; n. 56, Palmanova; n. 64, Marostica. Le ultime 3 videocassette sono annunciate con i fascicoli n. 72, Trento; n. 80, Fano; n. 88, Bolzano.
«Medioevo. Un passato da riscoprire», anno I, n. 1, febbraio 1997, edizioni De Agostini-Rizzoli periodici. Direttore responsabile: Luca Grandori. Direttore scientifico: Jean-Claude Maire Vigueur. Redazione: Valeria Lembo. Ricerca iconografica: Lorella Cecilia. Segreteria di redazione: Maria Luisa Bandini. Progetto grafico: Alberto Saracco. Realizzazione grafica: Tonino Carnale/Editing Technology.
L’età dei castelli, cd-rom edito da Parsec S.r.l., ottobre 1995. Regia, grafica, design dell’inter-faccia, sviluppo software, progetto editoriale, elaborazione delle immagini, produzione video, postproduzione video e audio: Parsec. Testi e ricerche storiche e letterarie: Parsec. Ha collaborato alla redazione Carla Scarsi. Voci dei personaggi: l’abate, Carlo Cataneo; il cavaliere, Massimo Antonio Rossi; la dama, Maddalena Vadacca; il matematico-filosofo, Riccardo Rovatti; il menestrello, Natale Ciravolo; il paggio, Roberto Trapani. Musiche: prodotte dal Centro Italiano Musica Antica.
Federico II l’imperatore illuminato, cd-rom allegato a «Interactive Explora. Periodico multimediale di cultura, scienza e civiltà», I, numero 4, novembre 1996. Una produzione della Fondazione Europa e Comunità mondiale, realizzata con il patrocinio del Comitato italiano per le celebrazioni dell’VIII centenario della nascita di Federico II. Ideazione e direzione artistica: Gino Capone. Direzione tecnica: Luigi Loreti. Consulenza progettazione e realizzazione: Renato Angelelli. Ricerca storica e testi: Agenzia del tempo, Elisa Bizzarri, Annalisa Zanuttini, Marco Zuccari. Ricerca iconografica: Agenzia del tempo, Francesca Donati. Coordinamento redazionale: Isabella Sermonti. Grafica e Progetto tridimensionale: Roberta Fiorani. Musiche originali: Nicolò Iucolano. Musiche realizzate da: Fabio Massimo Colasanti. Tecnico Audio: Mauro Antonioni. Voci: Augusto Zucchi, Walter Tocci. Il Profilo di Federico II pubblicato alle pp. 5-10 del periodico, autonomo rispetto ai testi del cd-rom, è di Girolamo Arnaldi.
Federico II. Sole del mondo che illuminava le genti, cd-rom edito da Artemis-Comunicazioni multimediali, 1996. Ideazione, progetto generale, impostazione grafica, audio e video: Fabrizio Antonio Recchia. Progetto e realizzazione software: Ninni Ermito.Elaborazione testi: Angelamaria Nitti. Voce recitante: Paolo Zoboli. Riprese aeree: Piero Aloisio. Composizione delle musiche originali e consulenza audio: Francesco Sgobba Palazzi. Canto Gregoriano eseguito dal Coro Monastico «Abbazia Madonna della Scala» di Noci (Ba), diretto da P. Anselmo Susca.
Viaggio nel Medioevo. Castelli, dame, cavalieri e battaglie da costruire e da inventare, cd-rom della Multimedia Tecniche Nuove S.p.A., 1997 (senza ulteriori indicazioni).
Se voi chiedete ad un bambino come si immagina un castello, lui vi risponderà che in un castello ci sono alte torri, un ponte levatoio attraverso il quale si supera un fossato pieno d’acqua e animali feroci, le insegne di un conte o di un barone. All’interno del castello ci sono grandi sale arredate con dipinti, opere d’arte, quadri, tendaggi, camini enormi.
Se andate su un qualsiasi manuale di storia delle scuole medie e vi soffermate a guardare le pagine dedicate alla vita nel medioevo troverete un castello che domina un piccolo borgo. Il castello è circondato da un fossato pieno d’acqua, è dotato di un ponte levatoio, alte torri dalle quali controllare il territorio circostante.
Quando un turista porta la sua famiglia in visita ad un castello non si aspetta di trovare altro che un ponte levatoio, un fossato, alte torri ecc. ecc.
Per non parlare del cinema da quello a fumetti a quello di fanta-storia come nella saga dello ‘Hobbit’, ma anche quelli che derivano dalla saga di ‘Artù’, dove i castelli sono su erti monti, con torri altissime che attirano fulmini dal cielo.
L’immaginario trova forse nei castelli medievali il terreno più fertile perchè le immagini prendano il sopravvento sulla realtà favolistica e/o romanzata. Sin qui sarebbe tutto bene, il problema è che spesso l’immaginario prende il sopravvento spesso e volentieri anche sulla storia.
L’immagine del castello medievale feticcio immaginifico campeggia molto spesso sui libri di storia insieme alla famigerata piramide feudale. Così anche nelle visite guidate molto spesso le guide raschiano il fondo delle storie ‘misteriose’ e ‘storicamente’ verosimili per cercare di coinvolgere turisti e visitatori. Insomma il binomio castello medievale / mistero e avventura della storia è un classico della divulgazione che, per carità, troverebbe nobili origini se dovessimo pensare al capolavoro di H. Walpole ‘Il Castello di Otranto’.
Così l’immaginario letterario fa da base all’immaginario collettivo e spesso l’immaginario collettivo si trasforma in immaginario culturale, mandando un po’ in campana la storia dei documenti e la vicenda dei castelli.
In Puglia esiste un castello che costituisce un caso emblematico in tal senso Castel del Monte. L’immaginario collettivo lo vuole costruito da Federico II e pensato non come un castello ma come un edificio misterioso la cui destinazione non sarebbe ancora chiara. Molti dicono che non si tratti di un castello, perchè pur avendo otto torri, neanche tanto alte per la verità, non ci sarebbe il ponte levatoio ed il fossato. Castel del Monte è protagonista di libri, studi, trasmissioni televisive, anche produzioni cinematografiche, un immaginario nobilitato anche dalla citazione di U. Eco nel ‘Nome della Rosa’ che appunto immagina la Biblioteca dell’abbazia, dove si svolge l’intera vicenda, con le forme ispirate proprio dal Castello pugliese. E poi riferimenti all’immancabile Sacro Graal, ai templari…insomma ci sta materiale per tutti i gusti.
Il problema dell’immaginario è appunto quello di superare la realtà. Per questo il visitatore ed il turista spesso al termine della visita al Castello rimangono un po’ delusi per non aver trovato tutte quelle tracce, visibili, ma anche invisibili, che possano giustificare il proprio immaginario, nonostante lo sforzo di guide sempre meglio addestrate ad additare sculture, iscrizioni, spesso anche scoli delle acque reflue per poter suggellare i più intriganti passaggi romanzeschi e misteriosi dell’immaginario popolare.
Naturalmente ci sono casi dove sull’immaginario collettivo si sono costruiti parchi storici e tematici che della storia hanno tenuto un conto piuttosto esiguo a volte inesistente. E questo accade in Italia, ma anche e soprattutto all’estero, dove Francia e Inghilterra diventano importanti punti di riferimento in questo senso.
Quello che colpisce è come l’immaginario popolare e collettivo abbia ad un certo punto preso il posto della divulgazione e formazione culturale. L’idea del castello medievale che domina il borgo perlopiù rurale diventa una storia/feticcio che pian piano ha preso il sopravvento sulle notizie storiche, ma anche sui resti dei castelli medievali.
L’idea è stata quella di ‘realizzare’ pian piano castelli in grado di rispondere alle esigenze dell’immaginario collettivo un po’ come avvenne a Torino nel 1911, in occasione dell’Esposizione Universale, quando fu costruito un intero borgo medievale ‘ Il Valentino’ con tanto di castello. Il ‘Valentino’ sarebbe la giusta traduzione di quell’immaginario, ma sembra quasi che quell’immaginario diventi una necessaria realtà quando si parla di castelli e di borghi medievali ai turisti e, ahimè, anche agli studenti. Sembra che l’ideale romantico e neogotico di oltre un secolo fa faccia fatica a tramontare. Il turista, lo studente di scuola media ha bisogno dell’immaginario per sovrapporre la propria esperienza cinematografica e fiabesca alla storia, e fa niente se per questo motivo la storia viene stravolta.
La necessità e a volte la pretesa dell’immaginario può diventare quasi patologica, una scelta che diventa irrinunciabile non soltanto a scapito della storia, ma addirittura al posto di questa. Perchè un altro immaginario collettivo è che la storia sia ‘pesantemente’ scritta solo sui libri, che le sue notizie siano spesso intraducibili se cucite addosso ai monumenti, mentre la letteratura, la fiaba, l’immaginario appunto, ci sta molto meglio.
E questo determina anche delle scelte e degli itinerari: per esempio a Castel del Monte ci vanno quasi mezzo milione di visitatori all’anno, mentre sui castelli arroccati dell’Alta Murgia (Garagnone) o della Basilicata (Monte Serico e tanti altri) il numero diminuisce drammaticamente. Eppure su quei castelli si compie un miracolo e cioè quello del fascino della storia e della natura. Ma ormai se non trovo un fossato ed un mistero del paesaggio dello sperone di roccia sul quale affiorano i resti di un diroccato castello normanno non me ne faccio nulla. E poi è vero che nei film i castelli sono sui monti, ma nella realtà si fa fatica a salirci. Meglio rimanere al livello del mare meglio arrivarci in macchina.
Qual è il confine entro il quale l’immaginario possa essere tollerato? E quando la storia, non per riscatto, ma per semplice correttezza, potrà riprendersi il proprio ruolo?
A queste domande non ci si dovrebbe arrivare mai…l’immaginario dovrebbe rimanere nell’immaginario così come accade al Valentino di Torino, un po’ tutti sanno che è finto, così anche la storia dovrebbe rimanere tale e dai libri dovrebbero scomparire certe immagini e certe piccole allusioni.
Il rischio è che l’immaginario sia diventato una necessità non per sfuggire alla storia, della quale molto spesso al turista importa non tantissimo, quanto di fuggire dalla realtà: il castello turrito misterioso e medievale non combatte contro la storia scritta nei libri, ma contro l’attuale immagine delle città, di quelle che hanno volutamente cancellato il fascino del loro passato per far posto ad aree urbanizzate sempre un po’ più squallide.
Cronaca di una visita al castello che non c’è. Il turismo parastorico in Puglia e Castel del Monte
Fot. 1 Le scolaresche sono abituali frequentatrici di Castel del Monte
Il cavallo bianco di Garibaldi.
Che cosa è Castel del Monte, la fortezza che si erge sulle alture murgiane andriesi e che appare sulle monete da un centesimo di euro? Domanda retorica: è un castello. E’ come quel gioco di parole che si faceva da bambini in cui si chiedeva ai più piccoli di che colore fosse il cavallo bianco di Garibaldi, e notavi la veloce sensazione di smarrimento negli occhi dei malcapitati che si riprendevano subito dall’innocente tranello. Eppure questo gioco linguistico, che da bambini ci faceva tanto ridere, diventa seria, quando parliamo di Castel del Monte, perché la risposta non è più soltanto “un castello”, ma si arricchisce di una serie di congiunzioni avversative che vanno a correggere se non ad annullare il significato stesso della parola “castello”.
Se a praticare questo gioco fosse uno dei tanti professionisti della “parastoria”, quel sistema di produzione di racconti sul passato, che tende a invadere i media presentandosi come “storia alternativa a quella ufficiale”, ci potremmo limitare a qualche commento ironico. Ma se a prospettare questo nonsense del “Castel del Monte non-Castello” sono delle guide turistiche, pagate dall’ente regionale durante le aperture gratuite dei musei, allora la preoccupazione è grande, perché dopo decine di anni di studi sul maniero federiciano ci si chiede per quale motivo questi professionisti della narrazione del territorio storico spaccino ancora spiegazioni vecchie e prive di ogni fondamento e ci si chiede come la Regione Puglia abbia loro potuto riconoscere la patente di guida turistica.
Visita in una sera di fine luglio.
In una fresca sera di luglio di quest’anno, ho provato a sfruttare gli Open days, appunto le aperture gratuite dei castelli e musei di Puglia. Ad attendere me e un gruppo di una ventina di persone un’avvenente guida con tanto di patentino in bella vista. Appartiene ad un’associazione andriese, che ha nel nome, stampato sulla maglietta nera con caratteri in oro, un sorta di richiamo divino della stessa regione. Questa associazione è stata scelta, tra altre, dall’Ente regionale per la promozione turistica, Puglia Promozione. Armato del taccuino del mio smartphone, mi segno ciò che dice la guida. Inizia col precisare che di Castel del Monte esiste un solo documento, poi elenca una serie di “anomalie” quali: la mancanza di fossati, che – dice – non lo fanno un vero castello anche se ha una serranda per chiudere il portale, ma quell’elemento di protezione non fa testo – avverte – e per quanto tutti lo chiamino “castello” e lo definiscano così le fonti medievali, di fatto non lo è – conclude – anche perché ha un portale che sembra una chiesa…
Fot. 2: Secondo alcune fantastiche ricostruzioni, al centro del cortile vi sarebbe stata una vasca per le abluzioni, pratica obbligatoria di ogni percorso rituale
Conosco questa cantilena parastorica: il percorso obbligato, il tempio laico, la piscina al centro del cortile, la congiunzione con Chartres e Gerusalemme, le cucine che non sono cucine ma camini per bruciare le essenze, la residenza di caccia che però è anche un hammam, nonostante i materiali edili siano poco inclini agli ambienti termali – ma ultimamente degli architetti del Politecnico di Bari hanno sostenuto che fosse proprio un complesso termale -, il senso antiorario delle scale a chiocciola, i giochi di luce che fanno comparire delle croci (questo, la guida lo diceva facendo vedere una fotografia dove comparivano solo due delle quattro braccia di una croce) e che richiamano la presenza dei templari.
La matrice di tutte le parastorie.
Questa somma di stereotipi trasforma un edificio con precise funzioni militari in una sorta di tempio laico, dove degli iniziati passavano il tempo a purificare l’anima tra bagni e simboli magici. E’ proprio questa la matrice mitopoietica che mette insieme tutte le letture esoteriche del castello, da quelle spiccatamente massoniche alle ultime degli studiosi del Politecnico di Bari. Questo cllché narrativo può esistere a un paio di condizioni: annullare la storia e le evidenze documentali e sottoporre quelle accettate ad un procedimento di lettura fatto di ipotesi e di ipotesi costruite su ipotesi, in un gioco che non finisce più. Lo stesso abile procedimento di storytelling applicato dagli autori della trasmissione “Voyager” di Raidue. Questi però, più furbi delle nostre guide, durante la loro trasmissione sulla Puglia, andata in onda il 22 giugno 2015, nella bibliografia dedicata al castello, hanno consigliato il libro curato da Raffaele Licinio, docente di Storia Medievale dell’Università degli Studi di Bari, Castel del Monte. Un castello medievale, testo che smentisce bellamente le letture esposte durante la trasmissione.
Itinerario minimo di sopravvivenza.
Esiste un percorso bibliografico minimo per sopravvivere a questo proliferare di teorie parastoriche? Un itinerario per ripartire dalla storia e dalla ricerca più accreditata, per costruire una narrazione efficace e avvincente del maniero federiciano?
Sì. La prima tappa è un saggio del 1981 di Giosuè Musca, docente dell’Ateneo barese e per vent’anni direttore del Centro di Studi Normanno-Svevi (rivisto dall’autore nel 2002 è stato riedito nel 2006 con il titolo Castel del Monte, il reale e l’immaginario). Apprendiamo, da quel lavoro, che già dagli anni ’80 lo storico barese metteva in guardia dalle derive mitopoietiche di certa letteratura sul castello.
La seconda tappa sono gli studi di Raffaele Licinio con il summenzionato volume e il suo Castelli medievali. Puglia e Basilicata dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, del 1994, riedito nel 2010, e Castel del Monte e il sistema castellare nella Puglia di Federico II (2001), un volume che raccoglie gli studi del gruppo di ricerca sul castello. Gli studi di Licinio hanno contestualizzato il maniero federiciano nella storia istituzionale, economica e sociale del medioevo meridionale, inserendolo nel sistema castellare svevo, e smascherando le narrazioni più fantasiose.
I suoi testi ci fanno approdare alla terza tappa, con Massimiliano Ambruoso, e al suo Castel del Monte. Manuale storico di sopravvivenza, edito nel 2014 con la presentazione di Franco Cardini e un’appendice di Anna Castriota, ricercatrice pugliese al St. Clare’s College di Oxford. Testo che raccoglie e decostruisce tutte le tesi sul castello per rilanciare una narrazione storica corretta. Tappa complementare, per una fruizione didattica, è il volume di Elena Musci Scoprire e giocare a Castel del Monte, del 2013, che fa propri gli studi più accreditati per trasporli in laboratori e giochi da allestire nel castello.
Esame di conoscenza.
A partire da questa visita, pongo alcuni problemi, che non si limitano al caso di questo bene culturale. Ben venga la legge regionale che ha istituito le guide turistiche: ma queste come sono state scelte? Quali studi hanno fatto? Esistono corsi di laurea in Beni Culturali: sono stati coinvolti nella loro formazione? Quali sono le strutture e i sistemi di aggiornamento di questo personale? Chi gestisce il castello, ovvero il Polo museale della Puglia e la cooperativa Nova Apulia per i servizi didattici, si serve di questa associazione andriese per il servizio di guide alle scolaresche e ai turisti? E il Comune di Andria è a conoscenza del degrado conoscitivo di alcune guide, oppure è una questione a cui non è sensibile?
Tanti attori gravitano attorno ad un castello, che è un sito speciale, sia per il riconoscimento dell’Unesco nel 1996, sia per l’alto numero di visite annue. Un capolavoro dell’arte da tutelare a partire da come lo si presenta e racconta, e che per questo va affidato a persone responsabili e preparate.
Nel 2009, presso il Comune di Barletta, il Centro di Studi Normanno-Svevi dell’Università di Bari organizzò per la terza edizione di “Puglia in-difesa” una tavola rotonda cui parteciparono Cardini e Licinio, la precedente direttrice del castello, Michela Tocci e operatori culturali come il direttore del Festival Castel dei Mondi di Andria, Riccardo Carbutti. Fu un momento importante per discutere sul futuro del maniero federiciano, un momento di condivisione e discussione che oggi andrebbe ripetuto anche con i nuovi attori della comunicazione storica, per evitare che qualcuno il cavallo bianco di Garibaldi lo faccia diventare nero… ma per l’umore.
Puntata speciale di Historycast dedicata alle rievocazioni storiche e condotto a due voci: Enrica Salvatori e Rosita Bellometti, esperta in reenactment [ascolta la puntata]
in Il paesaggio agrario italiano medievale. Storia e didattica. Summer School Emilio Sereni II Edizione 24-29 agosto 2010, a cura di Gabriella Bonini, Antonio Brusa, Rina Cervi, Emanuela Garimberti
D. Balestracci, Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Bologna 2015
R. Bordone, Lo specchio di Shallot. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’ottocento. Napoli 1993.
E. Castelnuovo e G. Sergi, Il Medioevo al passato e al presente vol. IV, Torino 2004.
P. Clemente, Bizzarri rendiconti, in Le terre di Siena. La storia, l’arte e la cultura di una provincia unica, a cura di M. Boldrini, Siena 1999, vol. 1, pp. 328-335
Feste, luoghi e patrimonio. Uno sguardo comparativo sui territori del festivo in Italia e in Europa, a cura di F. Mugnaini, Firenze 2011
T. Di Carpegna Falconieri, Medioevo Militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Torino 2011 I. Porciani, L’invenzione del Medioevo, in E. Castelnuovo e G. Sergi, Il Medioevo al passato e al presente vol. IV, Torino 2004.
P. Schiera, Il Medioevo nell’Ottocento in Italia e in Germania, Bologna 1988.
Satiro che suona l’aulos. Vaso a figure rosse del 500 a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale
Non amo le feste dei sorrisi obbligatori, icuoricini di San Valentino, i cioccolatini per la festa della mamma e le trovate come le cene per sole donne dell’otto marzo. Cioccolatini, fiori e cene vanno bene sempre, non solo quando lo indica la pubblicità. Perciò oggi mi divertirò a smontare questa festa commerciale restituendola a ciò che è: un culto pagano orgiastico che celebra la fertilità e propizia l’imminente primavera.
I Lupercalia erano una festività religiosa romana che si celebrava il 15 di febbraio, in onore del dio della fertilità Luperco, protettore del bestiame e delle messi. La festa celebrava la fertilità della terra e delle donne. In quel periodo, infatti, si raggiungeva il culmine del periodo invernale, con il riposo delle terre agricole.
Plutarco ne dà una descrizione minuziosa nelle sue Vite parallele (Vita di Giulio Cesare, cap. 61). I Lupercalia venivano celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, i fondatori di Roma, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.
Secondo il rito celebrativo, nel giorno antecedente i Lupercalia, le donne ancora in cerca di marito scrivevano il loro nome su un biglietto che veniva messo in un grande contenitore; successivamente tali biglietti, estratti a sorte, venivano abbinati ai nomi dei maschi presenti così da formare delle coppie; queste coppie passavano insieme tutto il giorno della festività danzando e cantando; poteva succedere che alla fine dei festeggiamenti alcune di esse decidessero di sposarsi.
Inoltre, il giorno stesso, due ragazzi (i luperci) di famiglia patrizia, in una grotta sul palatino consacrata al dio, venivano segnati sulla fronte con del sangue di capra. Il sangue veniva quindi asciugato con della lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano sorridere.
Venivano poi fatte loro indossare le pelli degli animali sacrificati, le quali venivano poi fatte a striscie costituendo le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Con queste ultime i due giovani dovevano correre intorno al colle colpendo chiunque incontrassero e in particolare le donne, le quali volontariamente si offrivano per purificarsi e ottenere la fecondità.
Un altro rito della celebrazione era la februatio, la purificazione della città, in cui le donne scendevano in strada con dei ceri accesi.
I Lupercalia furono osteggiati verso la fine del V secolo da Papa Gelasio I che volle contrapporre loro la festa di San Valentino come festa delle persone che si amano.
Biblioteca municipale di Amiens, ms. 108, f. 221 Bibbia di Pamplona, 1197 – Claudio II e la decollazione di San Valentino
Fra il 492 e il 496 Gelasio decise di sostituire la ricorrenza pagana con una nuova ricorrenza legata ad un santo e, nella fattispecie, a San Valentino. L’intento era quello di trasformare la festa della fertilità in una festa dell’amore legata a un messaggio cristiano e l’anniversario della morte di Valentino cadeva proprio in quei giorni. La data della ricorrenza venne dunque fissata al 14 febbraio.
Sul perché di quella scelta si sa poco: c’è chi sostiene che la decisione sia ricaduta su quel santo grazie alla sua predicazione dell’amore (nel termine più ampio del termine) e il rispetto reciproco in anni in cui quei concetti erano estranei a gran parte dei cristiani stessi, altri sostengono che la scelta sia stata perlopiù casuale e motivata solo dalla contingenza di trovare un sostituto alla festa pagana.
San Valentino si convertì al cristianesimo e venne ordinato vescovo da san Feliciano di Foligno nel 197. Nel 207 l’imperatore Claudio II tentò di convincerlo a tornare al paganesimo, ma Valentino si oppose e come contromossa cercò di convertire al cristianesimo l’imperatore stesso. I suoi sforzi furono vani e rischiò di essere giustiziato per il suo gesto anche se all’ultimo momento Claudio II decise di graziarlo. Sotto Aureliano venne nuovamente arrestato e questa volta non sfuggì alla persecuzione: venne decapitato il 14 febbraio 269.
Nel tempo la festa assunse una connotazione maggiormente legato all’amore fra due persone anche grazie al gesto di papa Paolo II che, il 14 gennaio 1400, decise di cogliere l’occasione di quella ricorrenza per distribuire una dote alle donne nubili in modo da aumentare il numero dei matrimoni. Quel gesto creò un’associazione fra la festa di San Valentino e i matrimoni ed i fidanzamenti.
Ilaria Sabbatini
San Valentino nella Legenda aureaSan Valentino nella Legenda aurea
Smithfield Decretals, XIII-inizi XIV secolo, British Library, Londra
Reliquie di San Valentino. Roma, Chiesa di Santa Maria in Cosmedin.
Annuncio ai pastori (ingresso a Betlemme) – Cattedrale di Norwich, transetto nord – inizi XV secolo
Bernardino Dinali, La Hierosolimitana peregrinatione, 1492 (Bib. St. Lucca, Ms. 1301)
È adomque la felicissima cità di Bethleem posta nella tribù di Iuda sopra un monte alto ma assai piano, è di figura lunga e streta et al presente in gran parte ruvinata, felice cità certamente ne la qual nacque la salute de la humana già perduta stirpe, de la qual parlando el propheta dice: «E tu Bethleem, terra di Iuda, non sei già la minima fra li principi di Iuda».
< Chiesa della Natività >
In honore adomque e memoria di questa sacrosancta et admirabile Natività, la divotissima Sancta Helena fece hedificare una belissima et opulenta chiesa et quella Sancta Maria appellò. Quivi è hora un maraviglioso monasterio da li frati regulari di San Francesco habitato. Questa chiesa, segondo el mio iudicio, mi pare una dele sumptuose e belle chiese di tuto el Levante. E perché la maraviglia mi invita, brievemente descrivemo quella.
Sono adomque in essa chiesa quatro ordeni di colone alte e grosissime, marmoree e tute di un pezo, di color biancho di alchune machie rosse notato. Ciaschuno ordene contiene xj colone, el numero di tute è xliiij. El pavimento di essa tucto di candidi marmi è coperto, le mura da la parte interiore marmi di diversi finissimi colori cuopreno. El cielo di pretiosissimo musaico artificiosissimamente è lavorato, el quale da la parte di fuori tuto di piombo è coperto. Apresso ha un maraviglioso campanile cum grande arte et inzegnio lavorato.
Nel coro di questa stupenda chiesa, sotto lo altar magiore, è una grota longa circa trenta piedi e larga dieci, tuta da alto lavorata di musaico e da basso chiamasi Capella Sancta, ne la qual naque nel mondo la nostra redemptione Iesu Cristo figliuol de Dio, Dio et huomo. In capo de la dicta capella si vede el proprio luogo sopra el qual naque el Redemptor nostro, in memoria de la qual sacrosancta Natività ivi è posta una marmorea lastra in forma di altare, sopra la quale si celebra el divino offitio de la Sancta Messa. Et in questo luogo è plenaria indulgentia.
La propria grotta del presepio nel quale, doppo la Natività el Redemptore nostro da la sua dulcissima madre fo reclinato fra l’asino e ’l bue, bruti cunali et irragionevoli, è larga cerca tre pedi. E quivi ancora è indulgentia plenaria. Per andare adomque a questo sanctissimo luogo de la Natività si discendono diece scalini. In questa medesima grotta li tre Magi orientali offersero al Redemptor nostro oro, incenso e mirrha.
< Chiesa della Natività: grotta della natività >
Giungemo adomque nella gloriosa cità deBethleem ad hore xxij et entramo ne la prescripta giesia dove devotissimamente incominciamo una solemne processione di tuti e peregrini in una sua capella, togliendo la indulgentia da tuti quei sancti luoghi. Visitamo adomque prima el luogho over grotta de la sancta Natività, dove divotamente e con gran iubilatione fo cantato el seguente ymno, versi et oratione.
Ymn(us):
Christe redemptor omnium, / ex Patre, Patris unice, / solus ante principium / natus ineffabiliter.
Tu lumen, tu splendor Patris, / tu spes perhemnis omnium,/ intende, quas fundunt preces / tui per orbem famuli.
Memento, salutis auctor, / quod nostri quondam corporis / ex illibata virgine / nascendo formam sumpseris.
Sic presens testatur dies / currens per anni circulum, / quod solus a fede patris / mundi salus adveneris;
Hunc celum, terra, hunc mare, / hunc omne, quod in eis est, / auctorem adventus tuum / laudans exultat cantico.
Nos quoque, qui sancto tuo / redempti sanguine sumuus, / ob diem natalis tui/ hymnum novum concinimus.
Gloria tibi Domine,/ qui natus es de virgine / cum Patre et Sancto Spiritu / in sempiterna secula. Amen.
V(ersiculus):
Verbum caro factum est. Alleluia.
R(esponsio):
Et habitavit in nobis.Alleluia.
Oratio:
Concede, quesumus, omnipotens Deus ut nos unigeniti tui nova per carnem Nativitas liberet quos sub peccati iugo vetusta servitus tenet. Per eundem Cristum.
< Chiesa della Natività: luogo del presepio >
Finita in questo luogo la divota adoratione, andamo poi a visitare el luogo del sancto presepio, e qui fo con suma divotione deta la seguente antiphona, versi et oratione.
Eiis qui‹bu›s unigenitum tuum hic gentibusstella duce revelasti, concede propitius ut qui iam te ex fide cognoscimus usque ad contemplandam speciem tue celsitudinis perducamur. Per eundem Cristum dominum nostrum.
[Ilaria Sabbatini (ed. comm.) La «Jerosolomitana peregrinatione» del mercante milanese Bernardino Dinali (1492), praef. Franco Cardini, Lucca, Pacini Fazzi 2009]
Dal breve discorso dell’incipit appare chiaro che il milanese mercadante svolgeva la sua attività in Venezia da cui partì nel 1492 per compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme a cui si era impegnato per un voto. Nella prefazione infatti l’autore racconta di una grave malattia che lo aveva ridotto allo stremo della vita e del voto fatto per ottenerne la guarigione. Le tracce che il Dinali ha lasciato riguardano alcuni atti notarili e una supplica, tutti conservati presso l’Archivio di Stato di Milano. In uno dei documenti il Dinali rivendica un credito per una transazione e nel qualificarsi usa l’appellativo di merchator Mediolani, et utens stratis.
L’Archivio di Stato di Lucca aderisce al Progetto ARVO Archivio Volto Santo(link), realizzato dall’Associazione Mons Gaudii e curato dalla Dott.ssa Ilaria Sabbatini in collaborazione con la SISMEL (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino, Firenze). Il progetto vede la partnership dell’Università di Siena (Centro interdipartimentale per lo studio dell’ospedale di Santa Maria della Scala), dell’Università di Tours – Francia (Département d’Histoire et d’Archéologie) e del Complesso Museale e Archeologico della Cattedrale di Lucca mentre altri enti stanno per formalizzare la loro adesione. Il progetto intende avviare un recupero della messe di conoscenze sul Volto Santo a partire dalle fonti manoscritte e iconografiche, raccogliendo la vasta bibliografia su quello che fu e rimane un emblema della stessa identità lucchese. La leggenda e il culto del Volto Santo furono peraltro condivisi ben al di fuori della Città, tanto da porsi come un ponte culturale e spirituale tra Oriente e Occidente, un elemento di contatto tra genti diverse ma unite da una potente componente comune.
Anche seguendo le tracce della diffusione del culto del Volto Santo, si ritrovano le due anime dei lucchesi coesistenti in un raro equilibrio: l’orgoglioso senso di appartenenza a una comunità dalle grandi tradizioni e il valore della propria libertas insieme all’apertura verso il vasto mondo: spartiacque le Mura. Il Volto Santo infatti, oltre a parlarci della devozione della città di Lucca, che da secoli si esprime attraverso cerimonie religiose, ma anche feste e momenti di incontro, è anche un punto di riferimento per lo studio di quel fenomeno così importante che furono e continuano ad essere i pellegrinaggi a Gerusalemme ed in altri luoghi simbolo della cristianità. Lungo quel reticolo di strade che congiungeva Roma e Santiago di Compostela, Lucca occupava una posizione chiave ed anche per questa ragione il culto del simulacro lucchese assunse una grande rilevanza, molto al di sopra di una semplice pratica devozionale locale quale talvolta si tende a giudicarlo oggi.
Tenendo conto della via Francigena, o Romea a seconda della prospettiva, il progetto ha cercato la collaborazione delle Università di Siena e di Tours alla luce del fatto che in entrambi i casi si tratta di importanti snodi nel sistema di strade che metteva in comunicazione i grandi centri di culto del medioevo. Il Santa Maria della Scala di Siena fu infatti uno dei più antichi e grandi ospedali europei dove tutt’oggi spicca il bellissimo Pellegrinaio, riservato all’ospitalità dei viaggiatori, conosciuto per la presenza di uno dei più importanti cicli pittorici del Quattrocento senese. Anche la città di Tours, oltre ad essere il punto di partenza della via turonense per Santiago di Compostela, è collegata a Lucca tramite la figura di San Martino cui è dedicata la cattedrale che ospita. La celebre scultura del duomo di Lucca, la sua stessa intitolazione, sanciscono un legame che non è semplicemente evocativo ma esprime l’essenza di una relazione profonda, sul filo del tema della circolazione e dell’assistenza ai viandanti e ai pellegrini. Il progetto ARVO si muove anche in questa direzione, ossia si propone di esplorare il fenomeno del pellegrinaggio in tutti i suoi elementi: la relazione tra le grandi vie di comunicazione, la diffusione dei culti, gli scambi culturali, il consolidarsi di un immaginario collettivo, fino all’influenza profonda sullo sviluppo architettonico dell’Occidente attraverso le imitazioni del Santo Sepolcro, ma anche la diffusione di reliquie, riti e santuari fortemente legati alla simbologia della Terra Santa. All’incrocio delle tematiche del Volto Santo e dei pellegrinaggi si pongono anche fatti e personaggi storici di primo piano, basti solo ricordare che Carlo Magno, passando per Lucca dove l’aveva condotto l’inseguimento di Uggeri il Danese, compì le sue devozioni dinanzi al «santo Vou» nella chiesa di San Martino. Di tutti questi episodi ben presenti alla consapevolezza degli studiosi fino a qualche decennio fa, storie che arricchivano di gustosi aneddoti le dissertazioni degli eruditi degli ultimi due secoli, si è persa in gran parte la memoria. L’ambizione del progetto ARVO è quella di riallacciare tutti i fili che si dipanano dal potente emblema del Volto Santo e di porsi come uno strumento organico di conoscenza, fruibile per un pubblico non solo di specialisti. Considerando l’ampiezza e la complessità delle fonti e dei materiali, il progetto ha raggiunto gli obiettivi posti nella prima fase, ma resta uno work in progress.
Da poco ho saputo che la capitale europea non sarà nostra. Nostra come Toscana, intendo. Mi dispiace, perché ci tenevo a che fosse rappresentata la mia regione. Ma penso anche che noi siamo una terra fortunata. Senza falsa modestia, credo di abitare in uno dei luoghi più belli che mi poteva capitare. La cultura contadina dietro l’angolo, le città come universi compiuti, le campagne morbide, i colori naturali del senese, l’aura selvaggia del maremmano, le aspirazioni liguri del carrarino, le rivalità rituali del livornese-pisano, la ritrosia lucchese, la sorpresa del volterrano, l’opulenza fiorentina. Ho vissuto metà della mia vita in una città così carica di storia da poterla sentire come un liquido amniotico. Anche nel vicolo del biciclettaio e nel parcheggio a gettone. Di ogni città nuova dove vado, quello che mi preoccupa è ritrovare questo stesso respiro. Il buon storico – sosteneva Bloch – somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta la carne umana, sa che è la sua preda. Non posso e non voglio giudicare me stessa, ma so per certo che questo istinto all’umano mi si è radicato dentro ed è diventato potente. Forse anche per la terra dove mi sono formata. Leggere la storia sui muri e nei reticoli delle strade è come avere una finestra interiore sempre aperta sul panorama umano. Ché poi è la cosa più interessante che possa capitare. C’è un senso di continuità intrinseco nella storia che spinge a rivolgere lo sguardo verso il futuro. Gli storici sono gli astronauti del tempo. Amare la storia non significa opporsi alle trasformazioni, tantomeno in questo periodo. E’ una gioia autentica vedere qualcosa rinascere dalle macerie di questi anni bui. Nel piccolo delle nostre città bastano alla gratitudine una caffetteria nuova, una merceria, un panettiere, una libreria che riapre, un alimentari che ritorna in vita al posto delle trappole per turisti. Tutto ciò è umano ed è nostro: fatto a misura di noi che viviamo un paese piccolo, sgarrupato e prezioso. Reso fecondo dalla varietà innumerevole e dall’irriducibile singolarità. E’ per questo che mi piace la nomina di Matera, con la sua storia unica, eppure così significativa per tutti. Matera è parte di quel panorama umano da cui trare forza quello che oggi siamo e ne è la figura per antonomasia. E’ bello osservare tutto ciò che si sta muovendo intorno a questa nomina di capitale europea della cultura. L’ambizione realizzata di una città è diventata l’ambizione di tutti, in un momento storico tanto difficile e tanto speciale come quello che viviamo. C’è fermento nel paese, sta succedendo qualcosa. Non è un fenomeno che ha un nome. E’ più un sentire comune, come una speranza condivisa. Rinascono faticosamente attività e iniziative. Ci vorrà una forza straordinaria. Ed è proprio questa voglia di risalire che Matera incarna. Basta guardare il suo profilo per avvertire la presenza recente di Pasolini. Quel Pasolini che raccontava le città come organismi viventi.
Jewish and Non-Jewish Cultures in Contact: New Research Perspectives, Ecole Normale Supérieure, 20-24 July 2014
I. Sabbatini,«In terram quam mostrabo». L’itinérance pieuse dans les religions d’Abraham.
22 July, Ecole Normale Supérieure, Salle des RÉSISTANTS, Main building, 1st floor,
Session 1:9.00-10.30Early Modern History. Travel and Cultural Interchange in Pre-Modern Jewry
Le pèlerinage dans les religions d’Abraham
Jewish pilgrimage: Sukkah, Italy 1374, British Library
Muhi al-Din Lari, Futuh al-Haramayn (Description of the Holy Cities), A.H. 1089/ A.D. 1678, India, Deccan, Kharepatan, The Metropolitan Museum of Art
A mosaic map of 6th century Jerusalem found under the floor of St George’s Church in Madaba, Jordan. The map depicts some famous Old City structures such as the Damascus Gate, St Steven’s Gate, the Golden Gate, the gate leading to Mount Zion, the Citadel (Tower of David), the Church of the Holy Sepulcre, and the Cardo Maximus.
Sebastiano Münster, La Cosmographie universelle contenant la situation de toutes les parties du monde, avec les proprietez & appartenances, Henry Pierre marchant-libraire, Basle 1552. (Cannibali, p. 1349)
Contraddizioni della tarda età consumistica? Fallout radioattivo del post-capitalismo? Difficile a dirsi. Fatto sta che stamani, all’inizio di una bella giornata d’agosto dell’annus terribilis della crisi economica italiana (a.D. 14 agosto 2013), mi trovo a leggere un compito articoletto sulle conseguenze positive dell’attività intellettuale rispetto alla funzionalità del cervello. E mi viene da pensare a come in realtà l’attività intelletuale sia oggi ridotta proprio questo: un allenamento, poco più di un passatempo.
Lo ammetto, le mie figure retoriche preferite sono l’ossimoro e la preterizione e le uso spesso. Anche da questo si dovrebbe capire quale sia il mio punto di vista. Perché in effetti ho studiato molto, praticamente sempre, si può dire. Ho studiato con una continuità tale da non ricordarmi un periodo della mia vita senza aule o biblioteche. Non lo dico con intenzioni autocelebrative: è semplicemente così e non trovo che ci sia motivo di nasconderlo.
“Allena la mente“, dice l’articoletto e in realtà non dice niente di veramente nuovo ma a scorrerlo mi vengono in mente spunti interessanti. Leggete, dice, leggete sempre e di tutto. Scrivete, fate di conto, esercitate la memoria, stimolate la creatività, cambiate prospettiva. Beh io ci rientro in pieno. Però c’è qualcosa che non mi torna. Quello che viene descritto come elisir di lunga vita è il normale training cui si sottopongono quotidianamente tutti coloro che fanno lavori intellettuali.
Ed è a questo punto che mi sfugge il controllo dei miei pensieri e mi sale una rabbia sottile e insistente. Incapace di mandarla via cerco di capirne la causa e, dacché esercito sempre la memoria, in breve capisco che l’origine è sintetizza in questa frase: “Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura”. La bocca che pronunciato questa frase era quella dell’italiano Giulio Tremonti. Era il 2010 e il nostro era a capo del ministero economico del Governo Berlusconi IV.
Il simpatico episodio dette l’avvio a una serie di reazioni: alcune molto interessanti altre talmente velleitarie che veniva voglia di augurargli un destino da panino della buvette. Il fatto è che il buon Giulio disse solo, malamente, quello che tanti pensano e che però sta male dire in pubblico. In pubblico non si rutta, non si dicono bestemmie, non ci si puliscono le narici e, tra le altre, non si dice che la cultura è un optional, un accessorio di cui si può fare a meno senza che succeda nulla.
L’utilità della cultura rientra tra quelle cose di cui si può pensare il peggior male possibile ma il buon gusto vuole che non lo si possa dire in pubblico. E anche questo è significativo perché se da un lato c’è un’economia-ottusa (non tutta l’economia lo è) che relega la cultura a un ruolo di complemento rispetto alle cose veramente importanti, dall’altro lato c’è un’intellualità-bene che, spingendo la cultura nella dimensione iperuranica, la rende di fatto inutile. In mezzo a queste due polarità c’è tutto il variegato mondo di chi oggi della cultura cerca di camparci. Ora però c’è un problema di metodo che pochissimi vogliono vedere.
Oggi, come dimostra un recente articolo di Giunta su Internazionale, le humanities al tempo della crisi non pagano. Mi sarebbe piaciuto che Giunta avesse messo in relazione le sue puntuali riflessioni con le potenzialità inespresse delle attività culturali e creative. Si veda, ad esempio, il documento industrie-culturali-creative a firma di Pier Luigi Sacco pubblicato dal Sole. Ma mi piacerebbe, più in generale, che l’utilità pratica delle humanities fosse dibattuta non solo e non tanto di per sè quanto nel panorama economico-culturale del paese. Il panorama complessivo, intendo, quello fatto di economia, cultura e società, non di una sua piccola parte. Mi piacerebbe che si prendessero in considerazione anche le riflessioni Montanari sul rapporto tra cultura e mercato.
Del resto il dibattito sull’utilità delle humanities prescinde dalla crisi e, anzi, affonda le radici in un’età molto anteriore a quella presente. Con tutte le cautele del caso, mi chiedo se non si possa individuare, addirittura, nel positivismo ottocentesco, con la sua esaltazione del progresso scientifico ai limiti del dogma. Mi piacerebbe che finalmente si arrivasse a discutere l’idea fondante che la nostra civiltà non si è mai basata solo su un discorso strettamente economico. Questo è ancora vero? E’ mai stato vero? Possiamo dire di possedere una civiltà se poi quella stessa civiltà viene privata di qualsiasi sostanza? E infine: che cos’è una civiltà? Perché può darsi benissimo che il futuro della civiltà occidentale abbia come esclusivo orizzonte la tecnica, la scienza, l’economia, i puri numeri. La cosa non mi scandalizzerebbe affatto. Quello che veramente mi infastidisce sono tutte quelle volte in cui si gira inotorno alla questione e non si ha il coraggio di affrontarla. In tutto questo, si è perso anche e soprattutto il senso della cittadinanza: “Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country”, diceva un tale Kennedy. Era il 1961: forse, dopo trent’anni, è arrivato il momento di chiederselo il relazione alle humanities. “Non chiederti cosa potrebbe fare il tuo paese per la cultura, chiediti cosa potrebbe fare la cultura per il tuo paese”. Chiediti cosa succederà quando un paese arriverà a poterne fare senza.
Ilaria Sabbatini
Per chiunque voglia rendersi conto della complessità ma anche dell’interesse dell’argomento in questione allego un po’ di materiali.
Tutte le volte che c’è una polemica su temi a me cari, come mio uso consolidato, invece di mettermi a inveire o a dar battaglia io studio. Sì, studio. Leggo, mi documento, cerco di capire, riprendo in mano gli appunti e rifletto. Poi, quando sono sufficientemente sicura che il mio pensiero è sensato e può essere supportato da una letteratura scientifica allora – e solo allora – scrivo. Ma non scrivo per convincere qualcuno, cosa che mi interessa relativamente poco. Scrivo perché non sopporto la strumentalizzazione, perché non tollero l’arroganza, perché ho un’idiosincrasia verso chi rivendica l’argomento delle radici per sostenere tesi di parte.
Ida Magli, dicui ho letto e apprezzato i saggidiantropologia, ha recentementescrittounarticolosuldrappellonedelpaliodi Siena sostenendocheinfanga la nostra civiltàilfattocheil San Giorgio siastatodipintodaunmusulmano, ilpittorelibanese Ali Hassoun. Anche se facilmenteintuivolediscrepanzetrailsuo e ilmiopensiero ho apprezzatoilsuosaggiosulruolodellapenitenzanelmedioevo,tantoche lo ricomprereiancheadesso, perché so riconoscere i meritiscientifici a prescinderedalleopinionipolitiche. Ma suldrappellonesi è sbagliata:rispettoall’approcciostorico ha prevalsounaletturapoliticadiparte.
Anzitutto sarebbe interessante sapere da dove viene l’idea della Magli che la kefiah sia il simbolo di «un’altra religione». Sarebbe comodo imbastire facili ironie ma siccome la reputo una donna intelligente e colta mi risulta veramente difficile pensare a un banale strafalcione. Sarebbe come dire che il berretto da baseball è il simbolo dei luterani americani. O che la coppola identifica i cristiani siciliani. Ma tralasciando questo appunto, bastava che verificasse la figura di San Giorgio per capire che Giorgio è un santo orientale, nato in Cappadocia la cui tomba risiede a Lidda, a quel tempo facente parte della Palestina. Bastava una modesta ricerca per scoprire che il santo e la sua sepoltura sono venerati anche dai musulmani, com’è riportato da numerosi diari di pellegrinaggio e da svariati testi enciclopedici. Quelli che per i cristiani sono santi a volte per i musulmani sono profeti e il culto dei profeti non solo è ammesso ma anche incoraggiato nell’islam. Per la cronaca, a chi venissero dei dubbi sulla cronologia, Giorgio non fu martirizzato dai musulmani benché morto a Lidda. Essendo deceduto nel 303 d.C. (all’incirca) ha anticipato di almeno tre secoli l’età di Maometto. Se fu martirizzato lo fu dall’occidentalissimo imperatore Diocleziano.
E se, come fa l’articolo della Magli, si chiama in causa l’esempio di Gesù sarebbe bene ricordare che Gesù non fu affatto cristiano nel senso in cui oggi viene intesa questa accezione, se non altro perché il cristianesimo è la fede nella persona storica di Gesù stesso. Gesù fu giudeo di nascita e di religione ebraica. Se volessimo averne un’immagine storica attendibile non potremmo certo immaginarlo biondo e dall’occhio ceruleo. Anzi non è improbabile che oltre ad avere tratti somatici mediorientali indossasse perfino la kefiah. Del resto si dovrebbe considerare che quel capo d’abbigliamento non è esclusivo degli arabi neppure in Palestina-Israele e che perfino il papa – il capo di quei cattolici di cui l’articolo lamenta l’offesa – ha indossato una kefiah.
Se San Giorgio si colloca tra III e IV secolo, essendo vissuto (in parte) e morto a Lidda in Palestina (la Giudea assunse il nome di Syria Palaestina dal 135 d.C.) dov’è lo scandalo della kefiah?
Se un musulmano raffigura un santo cristiano deve per forza crederci? Chagall era ebreo e ho visto ben poche cose così belle e ispirate come le vetrate della cattedrale di Reims. Chi si sognerebbe di censurarle perché l’autore è un ebreo?
Questa è la vetrata che raffigura Gesù in croce: qualcuno trova che infanghi la nostra civiltà perché chi l’ha raffigurato non lo credeva figlio di Dio? Io lo ritengo invece un gesto commovente e profondo, a prescindere dal fatto che ci si creda o meno. Preferirei mille volte una semplice riproduzione del Cristo ebreo di Chagall piuttosto che i crocifissi in serie smerciati dagli immancabili punti vendita di tanti santuari. Sì, un ebreo che raffigura il Cristo anche se non ci crede mi commuove. Dev’essere qualcosa che ha a che fare col fatto che amo tenere la mezuzah sulla soglia di casa pur non essendo ebrea e il Corano sulla mia scrivania anche se non sono musulmana. Dunque perché dovrei sentirmi offesa dal drappellone di San Giorgio dipinto da un musulmano? La bellezza è semprenell’occhiodi chi guarda e questocaso non fa eccezione.