Per Matera, per tutti
Da poco ho saputo che la capitale europea non sarà nostra. Nostra come Toscana, intendo. Mi dispiace, perché ci tenevo a che fosse rappresentata la mia regione. Ma penso anche che noi siamo una terra fortunata. Senza falsa modestia, credo di abitare in uno dei luoghi più belli che mi poteva capitare. La cultura contadina dietro l’angolo, le città come universi compiuti, le campagne morbide, i colori naturali del senese, l’aura selvaggia del maremmano, le aspirazioni liguri del carrarino, le rivalità rituali del livornese-pisano, la ritrosia lucchese, la sorpresa del volterrano, l’opulenza fiorentina. Ho vissuto metà della mia vita in una città così carica di storia da poterla sentire come un liquido amniotico. Anche nel vicolo del biciclettaio e nel parcheggio a gettone. Di ogni città nuova dove vado, quello che mi preoccupa è ritrovare questo stesso respiro. Il buon storico – sosteneva Bloch – somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta la carne umana, sa che è la sua preda. Non posso e non voglio giudicare me stessa, ma so per certo che questo istinto all’umano mi si è radicato dentro ed è diventato potente. Forse anche per la terra dove mi sono formata. Leggere la storia sui muri e nei reticoli delle strade è come avere una finestra interiore sempre aperta sul panorama umano. Ché poi è la cosa più interessante che possa capitare. C’è un senso di continuità intrinseco nella storia che spinge a rivolgere lo sguardo verso il futuro. Gli storici sono gli astronauti del tempo. Amare la storia non significa opporsi alle trasformazioni, tantomeno in questo periodo. E’ una gioia autentica vedere qualcosa rinascere dalle macerie di questi anni bui. Nel piccolo delle nostre città bastano alla gratitudine una caffetteria nuova, una merceria, un panettiere, una libreria che riapre, un alimentari che ritorna in vita al posto delle trappole per turisti. Tutto ciò è umano ed è nostro: fatto a misura di noi che viviamo un paese piccolo, sgarrupato e prezioso. Reso fecondo dalla varietà innumerevole e dall’irriducibile singolarità. E’ per questo che mi piace la nomina di Matera, con la sua storia unica, eppure così significativa per tutti. Matera è parte di quel panorama umano da cui trare forza quello che oggi siamo e ne è la figura per antonomasia. E’ bello osservare tutto ciò che si sta muovendo intorno a questa nomina di capitale europea della cultura. L’ambizione realizzata di una città è diventata l’ambizione di tutti, in un momento storico tanto difficile e tanto speciale come quello che viviamo. C’è fermento nel paese, sta succedendo qualcosa. Non è un fenomeno che ha un nome. E’ più un sentire comune, come una speranza condivisa. Rinascono faticosamente attività e iniziative. Ci vorrà una forza straordinaria. Ed è proprio questa voglia di risalire che Matera incarna. Basta guardare il suo profilo per avvertire la presenza recente di Pasolini. Quel Pasolini che raccontava le città come organismi viventi.
Ilaria Sabbatini
Che aspetto ha un palinsesto
Il palinsesto è un manoscritto di papiro o pergamena, di epoca antica o medievale, il cui testo originario (scriptio inferior) sia stato cancellato mediante lavaggio e raschiatura e sostituito con altro (scriptio superior) disposto nello stesso senso o in senso trasversale al primo.
L’uso di riutilizzare la materia scrittoria, preziosa per la sua rarità o difficoltà di produzione, già ricordato in età classica, per il papiro, da Catullo, Cicerone,Plutarco e nel Digesto, si diffuse fra VIII e IX sec. in centri scrittori europei dove furono ‘riscritti’ codici antichi (codices rescripti) contenenti testi classici, giuridici, liturgici e biblici caduti in disuso o ritenuti, come quelli ariani, eterodossi. Numerosi p. furono prodotti fra 11° e 15° sec., riutilizzando codici liturgici di età romanica e documenti pubblici e privati su pergamena. Sono rari i casi di documenti membranacei riutilizzati per riscrivervi sopra altri atti documentari (chartae rescriptae).
Lo studio scientifico dei palinsesti, la cui lettura può presentare notevoli difficoltà, si diffuse nella prima metà del XIX sec., per opera anzitutto di Angelo Mai [proprio quello della canzone Ad Angelo Mai del Leopardi] che, utilizzando reagenti chimici, scoprì nella Biblioteca Ambrosiana e nella Vaticana testi fino allora sconosciuti di autori pagani e cristiani, tra cui il De republica di Cicerone. L’uso indiscriminato dei reagenti chimici (noce di galla, tintura detta del Gioberti, solfidrato di ammonio) ha però procurato danni ai palinsesti sottoposti al trattamento, rendendo spesso impossibili nuovi tentativi di lettura. Nel XX sec. si è preferito ricorrere al sistema, più efficace e innocuo, della lettura e della fotografia mediante raggi ultravioletti, che, attraverso la fluorescenza, rendono evidenti i contrasti fra le due scritture. (Treccani)
https://www.youtube.com/watch?v=RmfZcsmQTEk
Auri sacra fames. IX Edizione di FestivalStoria a San Marino
Il denaro, maledizione e benedizione degli umani
http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-denaro-maledizione-e-benedizione-degli-umani/
“Auri sacra fames. Il denaro, motore della storia?” è il tema della IX Edizione di FestivalStoria in programma a San Marino da martedì 14 a sabato 18 ottobre. Pubblichiamo qui il testo della prolusione di Angelo d’Orsi, curatore della manifestazione.
Al di là di questo, la damnatio del denaro (una curiosa condanna, a dire il vero…), in ogni epoca, e in ogni pensiero morale o teologico, individua la radice di tutti i mali nell’avidità del denaro: “l’esecranda fame dell’oro”, appunto. In tanti testi religiosi (a cominciare dalle Sacre Scritture) si trova un’affermazione di tal fatta). Si tratta di affermazioni che suonano come esorcismi, o tentati lavacri di coscienza, più che come ammonimenti. In effetti, quando Scipione Maffei, nel 1744, pubblicava Dell’impiego del danaro nel quale ammetteva come lecito il prestito, con relativi interessi da riscuotere, suscitò un bel vespaio nel mondo cattolico, che, ipocritamente, condannava quell’attività (tipica dell’ebreo “usuraio”). Per Maffei, che il papa Benedetto XIV (dedicatario dell’opera, a guisa di santo protettore…) considerava “uno dei lumi principali della nostra Italia”, il danaro (al tempo, sempre con la a), non poteva essere semplicemente un mucchio di monete conservate in qualche cassaforte, ma si trattava di un capitale, da investire e far fruttare: era l’idea oggi assai corrente nell’alta finanza, del denaro che genera denaro. Il danaro era per lui e doveva essere fruttifero, doveva produrre frutti: “Come non frutta il soldo, se per esso altro soldo si acquista? E se qual vero Proteo in tutte le cose si trasforma, e tutte le cose in esso si convertono?”. E aggiungeva: “Non c’è maggior benefizio d’un popolo, che quando il danaro circola, e non c’è maggior danno, che quando si seppellisce e si chiude. […] Il giro del danaro […] è necessario alla vita civile e alla repubblica”.
Aveva capito tutto, il buon Maffei: il denaro che deve girare, il denaro che serve e che frutta, trasformandosi in mille cose. Il denaro proteiforme, insomma. Proteiforme, la sostanza, polisemica la parola: perché molteplice è il significato. Denaro è una funzione astratta, una funzione di scambio, ma denaro è altresì un oggetto, nella sua materialità di moneta (o equipollente), un oggetto che viene cambiato con altri oggetti o beni o servizi; infine, però, il denaro costituisce un valore. Uno dei grandi vantaggi del denaro, rispetto ad altre mezzi di scambio, è la sua trasportabilità: la pecunia, com’è noto, nasce dal pecus, il bestiame, e certo portare in giro mandrie di pecore o di buoi da scambiare con pane, grano, semi, alcol, o qualsivoglia altra merce, è piuttosto scomodo. Oggi, la trasportabilità è divenuta volatilità, nel duplice senso, della immaterialità (le carte di credito, le transazioni on line…), ma anche della fugacità della persistenza delle monete e delle banconote nelle nostre tasche. Uno scrittore contemporaneo ha parlato dell’”incessante andirivieni” del denaro (Coudray, 2012).
Un altro elemento da osservare è che il “progresso”, relativamente al denaro, corrisponde, paradossalmente, alla perdita di valore intrinseco della forma del denaro: una mandria di bestiame, poi metalli preziosi, quindi monete coniate con quei metalli, quindi monete di conio più vile (il bronzo prende il luogo dell’oro e dell’argento), sino a diventare, ai nostri tempi, patacche colorate, o pezzetti di carta, a forma rettangolare, che di colpo, alle leggi che li mandano “fuori corso”, si rivelano nella loro miserabile natura priva di qualsiasi valore. V’è anche chi sostiene, con qualche fondatezza, che gli antenati delle monete in metallo prezioso furono gli oggetti d’oro e d’argento saccheggiati da soldati, nell’era assiale, e divisi in pezzetti per poter essere facilmente trasportati e usati come mezzo di scambio o di pagamento. Secondo David Graeber, uno dei più originali pensatori della scena contemporanea, non l’innocente baratto, ma il colpevole furto, con violenza o con destrezza, ma perlopiù con violenza, è all’origine della sua “creazione” e del suo uso: soldataglia, bande di ladri, saccheggiatori. Così, il mondo fu trasformato in un sistema di valori numerici. Forse non tutti condivideranno l’affermazione di Graeber (grande vecchio della resistenza internazionale al turbocapitalismo), secondo il quale “Ogni sistema che riduce il mondo a una serie di numeri può essere mantenuto solo con le armi”, non importa quali; ma quello che qui conta sottolineare è che il sistema nasce dalla violenza, dalla frode, dal crimine. Forse il denaro porta con sé questa “colpa originaria”.
Ma poi, fra una ingiuria e una maledizione, tanti hanno messo in evidenza che in sé il denaro non è nulla, e che il suo valore è puramente strumentale: un autore che ha dedicato un libro addirittura alla “filosofia del denaro”, Georg Simmel, ha scritto, ad esempio, che “il denaro è la forma più pura dello strumento”, Che cosa in effetti v’è di più strumentale del denaro: un mezzo (in forma solida, cartacea o virtuale…, ma anche in forma di natura) per ottenere beni, ecco che cosa è il denaro nella sua essenza. Ma quando poi, da Agostino a Virgilio, dall’Antico Testamento al Nuovo, fino a Seneca, e ben oltre, esso denaro, viene accusato di esser foriero di altri, gravi mali. E ciò quando precisamente da mezzo diviene fine. Una mutazione drammatica, che contiene in nucetutti i mali del mondo, si direbbe, stando alla letteratura, tanto quella creativa, quanto quella di riflessione critica. “La capacità del denaro di crescere come un tumore”, è stato detto (Massimo Fini), “sul corpo che gli ha dato vita, fino a invaderlo completamente, soffocarlo e distruggerlo, deriva dalla sua natura squisitamente tautologica, dalla sua attitudine ad autoalimentarsi, diventando così un fine, un fine ultimo,un fine che non ha altri fini al di fuori di se stesso” . Ma è proprio il denaro in sé a generare tale trasformazione? O non sono gli umani, usandolo, che finiscono, cambiando il suo valore, appunto da mezzo a fine, per diventarne vittime? È il denaro che da servo si fa padrone, o non sono piuttosto gli esseri umani che da padroni si mutano in servi?
La forza del denaro consiste, sembrerebbe, nella dipendenza che il suo possesso genera. Una droga pesante, insomma. La letteratura vale più della scienza economica o della sociologia, per darcene conto. Si pensi alle varie figure di avari che animano romanzi, novelle, racconti, commedie. Avarizia, nel senso etimologico di avidità, della cupidigia dell’accumulo, della brama di possesso: un circuito che si autoalimenta, perché l’avaro non è mai sazio, come il bulimico cerca il cibo, a prescindere dall’appetito: la sua è una fame insaziabile. Auri sacra fames. Ma se Virgilio usa il registro di una mesta invettiva, Molière o Goldoni ci regalano ritratti di sapida comicità, di avari eccellenti, facendone dei tipi universali, come universale è la loro “malattia”, la loro incurabile malattia. Se poi si guarda alla grande letteratura realista, o nell’accezione italiana, verista, il quadro diventa cupo, a tratti foschi: Balzac, Zola, Verga frugano non solo negli ambienti, ma nelle profondità della psiche di signorotti e contadini arricchiti, di bifolchi e di banchieri, di sartine e impiegatucci… La struggle for life è lotta per il denaro, per averne, per averne di più, non importa come e a quale prezzo. La ruberia, l’inganno, la grassazione, il ricatto… tutto è adatto se raggiunge lo scopo, nulla è proibito. Lo scopo, dunque, è il denaro, e la sua ostentazione, prima che il suo uso; oppure, la sua tesaurizzazione: la roba, la roba, la roba, ci ripete Mastro Don Gesualdo, come in un mantra ossessivo. Papà Goriot sentenzia in modo definitivo: “L’argent, c’est la vie”. Il denaro è la vita: dà vita, e richiede vita. Assicura la sopravvivenza, ma anche la devasta. Un moloch terribile. Eppure può essere anche un dio buono, che ti assicura il pane per sempre, che regala benessere, amore, felicità, e la preziosissima rispettabilità, vera cartina di tornasole dell’essere borghese.
È leggendo L’argent di Zola, che ci si affaccia, incredibilmente, sul nostro tempo, anche se si tratta di un romanzo (diciottesimo volume della infinita saga dei Rougon-Macquart) pubblicato nel 1891, ma racconta vicende collocate nel Secondo Impero, ormai crollato da un ventennio esatto. Vi si trovano insospettati squarci sul denaro come speculazione, come dannazione sociale, come condanna dell’individuo: è un romanzo sociale, naturalista, ma soprattutto un testo impegnato, diremmo, e anche un racconto giornalistico, con penna straordinariamente efficace. È la speculazione finanziaria a essere messa sotto accusa, la “finanza creativa”, di moda in questo primo scorcio del secolo XXI, la finanza teorizzata da economisti di dubbia competenza e praticata da pubblici amministratori sventati, o interessati alle proprie sorti più che a quelle dei loro amministrati. L’autore usa spesso la parola “mistero” quando si riferisce ai meccanismi della banca, della borsa e dell’alta finanza. Ne è come sedotto, ma anche inorridito, e lancia, ante litteram, con questo poderoso romanzo, il suo J’accuse, diretto anche contro il denaro inteso come religione. Una religione perversa, che coinvolge e seduce , e che sovente, come nel suo racconto ispirato a eventi della cronaca ma anche alla temperie storica, conduce alla rovina individui, banche, imprese, e intere nazioni.
Eravamo non così lontani dal Finanzkapital descritto da Rudolf Hilferding qualche anno più tardi (1910), un implacabile mostro divoratore, che, a distanza di un secolo, Luciano Gallino ha spiegato come l’essenza sconvolgente e impietosa del nostro presente, per arrivare all’essenza della “civiltà del denaro”. Una mega-macchina che possiede, ma non governa, il mondo, nella quale ormai il Denaro, con la maiuscola, non produce più Merci, per ottenere altro Denaro, ma produce Denaro senza Merci: la tradizionale formula di Marx D1- M – D2 si è trasformata, e ridotta, alla formula binaria D1-D2, ossia produrre denaro senza produrre merci. Il capitalismo finanziario è capitalismo che si arricchisce senza distribuire benessere, il denaro che scorre nella finanza palese, è una piccola parte di quello che giace nei sotterranei della finanza ombra, sulla quale autorità nazionali e sovranazionali non hanno alcun potere di controllo; e rispetto alla quale anche gli studiosi più avvertiti possono solo fare congetture. Denaro che si riversa nei fondi di investimento, nei fondi pensione, nelle compagnie assicurative, e nelle tante varietà dihedge funds, il culmine della speculazione, con i famigerati “derivati”, ai quali si sono affidati negli ultimi anni tante amministrazioni locali nel tentativo di risolvere i propri problemi di bilancio, con conseguenze spesso catastrofiche, sempre comunque negative per il pubblico, sempre lucrative per il privato. 60 trilioni di dollari (ossia 10 elevato alla diciottesima potenza: 1018, vale a dire 1000 000 000 000 000 000, una cifra a diciotto zeri) sono nelle loro casseforti. Il PIL dell’intero mondo. La civiltà del denaro è in crisi, come racconta Gallino, e il capitale sopravvive squassato da crisi, come mostra David Harvey; intanto, però, “il denaro accresce la sua sfera d’influenza, lentamente, ma inesorabilmente: tutto viene messo in vendita”, anche quel che fino ad oggi ritenevamo fosse la Natura (o il Buon Dio) a donarci (Coudray, 2012).
In vendita o in prestito. Denaro significa infatti la coppia credito/debito. Denaro implica verbi impegnativi come prestare, investire, ricavare, perdere, guadagnare. Se il credito non è diventato tuttavia una categoria filosofica, il debito invece sì, tanto da dar vita, ai tempi nostri, ad una sorta di “metafisica”. Si costruiscono imperi sui debiti, è noto; si può affogare nei debiti, o con diversa metafora, i debiti ci strozzano. Stiamo parlando peraltro di quel che accade a milioni di persone, persone che vivono tra di noi, persone che forse siamo anche noi, perché il debito, questa montagna che tende a crescere invece che a diminuire, è un principio astratto che ha drammatiche estrinsecazioni pratiche.Debito, si intitola il brillante libro di Graeber che propone una incredibile cavalcata in cinquemila anni di storia: il debito, altro non è che “una promessa corrotta dalla matematica e dalla violenza”. Già un economista marxista eterodosso Paul Sweezy, aveva colto, tempestivamente, nella crisi degli anni Settanta del Novecento, che la risposta delle società capitalistiche – l’affluent society di cui parlava Galbraith alle fine degli anni Cinquanta del secolo scorso – alla caduta del saggio di profitto e alla discesa degli investimenti, non era soltanto la riproposizione del modello keynesiano dello Stato interventista, bensì l’indebitamento: il ruolo crescente dell’indebitamento privato. In particolare l’indebitamento delle famiglie, che in tal modo entrano in un viluppo dal quale non riusciranno a venir fuori: il denaro che non hanno, il denaro preso a prestito, gli acquisti di beni che saranno poi pagati nel corso di anni, a rate, diventa la condanna di milioni di individui. In tal modo, il capitalismo che produce denaro a mezzo di denaro, ingloba nel suo grande ventre le famiglie, che ne diventano per così dire vittime e complici oggettive, ancorché “innocenti” sul piano soggettivo. Si sta assistendo da anni, per dirla in modo difficile, a una “sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito” : ovvero, consumo, risparmio, abitazione, salute, istruzione, ricerca, risorse naturali, vengono inglobati nel capitale (Bellofiore, 2012).
Quel capitale studiato da Marx a metà Ottocento, che oggi, con una notevole temerarietà, uno studioso divenuto improvvisamente celebre, Piketty, ha tentato di analizzare sul lungo periodo dell’intero secolo XX, suscitando occorre dire non poche perplessità (e pure qualche sonora stroncatura). Piketty pone, sostanzialmente, il problema della iniqua distribuzione della ricchezza, una questione, scrive in esordio, giustamente, “troppo importante per esser lasciata ai soli economisti, sociologi, storici e filosofi”. Le disuguaglianze – che sono disuguaglianze nel possesso di beni, mobili e immobili, ossia in ogni modo, di denaro – sono generate in particolare quando, come nel nostro tempo, il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito”. Ossia, quando D non produce o produce in modo insufficiente M, e si limita a generare D2. Marx aveva posto in luce, raccontandone il processo, le contraddizioni a suo avviso insormontabili del capitalismo, le sue interne aporie, e ne disegna il necessario, catastrofico epilogo. Altri, come ancora Piketty, pur riconoscendo grandi meriti all’autore di Das Kapital, non ne condividono l’orientamento “catastrofistico”, ma nel contempo non possono non ammettere che tutti i torti non aveva.
È la nuova forma e sostanza del capitalismo finanziarizzato, quella della “vertigine finanziaria” (Casiccia 2006), che ha nel suo cuore il debito, sempre lui… Il debito, che pure sarebbe “fondamento delle relazioni intersoggettive e comunitarie” (Turri, 2014): in tal senso esso ha a che fare con la dynamis dell’essere umano, e la pretesa del “pareggio di bilancio” è un assurdo snaturamento. Ma il debito è un peso, con buona pace della filosofia: un immenso, mostruoso macigno, preme su di noi: ci hanno persuasi che siamo sempre in debito. Il denaro è ciò che estingue, sempre provvisoriamente in realtà, il debito: verso qualcuno che ci ha dato qualcosa, verso un’azienda che ha fornito servizi, verso una pubblica amministrazione che ci garantisce, più o meno, strade o scuole; ma c’è anche il debito oggi definito correntemente “stratosferico” dei Paesi poveri, il Sud del Mondo, verso i Paesi ricchi. La moratoria del debito, oggi appare una delle richieste più eversive che si possano pensare. Che viene vista da qualcuno come una forma di comunismo primitivo, pronto a eliminare le differenze tra chi deve e chi ha diritto a ricevere. Bizzarramente, sono i poveri, singoli o Paesi, che sono i “debitori” e i ricchi, Stati o persone, che sono i “creditori”. Sarà poi davvero giusto che tutti noi “rimettiamo i nostri debiti”, così come recita il Pater Noster? Il denaro, l’altra faccia del debito, è asservimento: degli uni agli altri, individui e collettività. Eppure v’è chi sfugge a questa regola: si pensi agli Usa, una delle maggiori potenze creditrici ai tempi di Franklin D. Roosevelt, trasformatisi in Paese immensamente debitore, sotto Bush e Obama. Eppure, sotto il segno della banconota verde, il disegno egemonico di Washington non è cambiato. O, meglio, si è indurito. E, paradosso nel paradosso, questo mentre a tutti gli effetti l’egemonia americana sembra essere entrata in una crisi irreversibile, come ha mostrato convincentemente, fra gli altri, uno dei massimi studiosi di economia non economista, un autentico genio delle scienze sociali, Giovanni Arrighi (peraltro preso sul serio molto più proprio negli Usa che in patria). E ciò mentre tutta l’Europa, che finge d’essere una entità unitaria, con una sua propria identità, fa del “debito pubblico” il grande nemico della prosperità privata (ossia di quei singoli che ne godono), e del “pareggio di bilancio”, un totem che addirittura, di gran carriera, secondo dettami provenienti dal nuovo Kaisertum, è stato inserito nelle Costituzioni degli Stati membri: un’aberrazione giuridica, una assurdità politica, una sciocchezza economica. L’economia finanziarizzata, quella che produce e fa circolare denaro (virtuale), senza quasi produrre più merci, comanda alla politica, o la sostituisce pienamente, sotto il segno di una vistosa D, come Denaro: quello che è nelle mani di pochi, che si autogenera incessantemente, ma non si diffonde. Quello che gli altri, la crescente massa di poveri assoluti e relativi, per usare una distinzione canonica e un po’ ipocrita, non vedono se non come brevi sequenze di cifre sulle buste paga, che passano, senza neppur transitare dalle loro mani, direttamente, ossia bancariamente, dal conto degli intestatari lavoratori, a quelli delle aziende fornitrici di servizi, al “padrone di casa”, alla banca che ci ha erogato un mutuo, e così via: le cifre sulle “bollette”, quei messaggi, cartacei o elettronici, che scandiscono il mese, il bimestre, il semestre, l’anno, sono le stesse sulle buste paga, ma col segno meno. Che quando siamo fortunati, va a pareggiare il segno più; ma tanto, troppo spesso non riesce, e allora ecco che si riaffaccia il mostro, il debito. “Mi occorre denaro”: la frase proferita viene raccolta, facilmente, da orecchie interessate a trasformare il dono in pegno, e avviare la spirale debitoria, dalla quale sarà poi difficile uscire. Ed ecco che il denaro, quello che non c’è, viene maledetto, da parte di chi non ne ha neppure, e si tratta non della esecrazione moralistica di chi comunque “tiene i soldi”, ma del disperato urlo di chi anela soltanto al necessario per la sopravvivenza, o almeno per una esistenza degna del nome.
E tutto questo ha riflessi ormai persino vistosi, nella loro forza devastatrice, sugli assetti istituzionali, sulle forme politiche, a cominciare da quella princeps del nostro mondo occidentale, quella chiamata democrazia: etichetta discutibile, fin dalle sue origini (Luciano Canfora ci è maestro nella demistificazione di una ideologia). Da un canto le banche espandono all’infinito le proprie attività , in modo tentacolare diventando le vere protagoniste della globalizzazione, incuranti delle più elementari regole della contabilità di bilancio, comprando di tutto dappertutto, e così facendo si indebitano, e falliscono bruciando il denaro depositato presso le loro casse dai risparmiatori (altra etichetta bislacca, se ci si riflette), oppure si aggrappano allo Stato per essere salvate: nel 2008 960 miliardi di euro concessi dagli Stati dell’UE alle banche, sono diventati 1100 nel 2009; non si conoscono i dati successivi…
In un modo o nell’altro sono soldi di tutti che finiscono nelle tasche di pochi. Dall’altro canto, accade che precisamente queste banche, che hanno creato (come ha mostrato lucidamente Luciano Gallino) un sistema di finanza parallela, occulta, hanno escogitato una infinita serie di espedienti sostanzialmente truffaldini, anche quando legali, secondo l’immarcescibile insegna di godere in proprio dei profitti, e di trasmettere le perdite agli Stati, ossia alle collettività (Gallino, 2013), in un incessante aumento del debito: il risultato è stato pessimo, dato che le banche nell’insieme sono lungi dall’essere risanate, e i costi sociali di queste operazioni disinvolte, attuate o autorizzate dalle classi politiche euroamericane, sono stati sostenuti dall’insieme delle popolazioni, in modo inversamente proporzionale alle fasce di reddito: costi più elevati per le fasce più basse, e così via.
Il flusso del denaro, dunque, segue vie imperscrutabili, non soltanto però per la cittadinanza (secondo il principio che l’economia è una scienza, esatta, e iniziatica, per cui chi non appartiene all’inclita schiera non può e non deve sapere nulla), ma per le classi dirigenti (dunque, non solo i politici, ma i loro “tecnici”, e i dirigenti di istituzioni finanziarie nazionali e sovranazionali), le quali hanno dimostrato nella gestione della crisi degli ultimi anni una incredibile impreparazione, imprevidenza, e anche, in definitiva, impudenza.
Il corrispettivo di questi processi finanziari, è una rapida progressiva spoliazione del sistema “democratico” e di un suo passaggio a un sistema oligarchico che è plutocratico, nel quale insomma comandano “i ricchi”, che diventano sempre più ricchi, mentre coloro che denaro non hanno, vengono deprivati via via, in un crescendo micidiale, di quell’insieme di garanzie e protezioni delle fasce deboli , chiamato Welfare State. È proprio, quindi, il denaro, averne o non averne, il cuore del processo che sta portando verso la “postdemocrazia”, per usare la felice, e forse ormai ottimistica etichetta di Colin Crouch. O, più drasticamente, a delle “democrazie senza democrazia” (Salvadori, 2009).
Ma a ben guardare tutto questo processo invece che mostrare una politica al servizio dell’economia (finanziarizzata), sembra avvalorare un percorso inverso: una politica che persegue un disegno di nuovo asservimento ai danni di ceti popolari, e usa, complice la crisi e i suoi oscuri andamenti, l’economia, o meglio la finanza, come un grimaldello da scasso, e insieme come un paravento ideologico, tanto più da quando esiste una Costituzione europea e il processo di uniformazione (non di unione) dei 27 Stati aderenti, ha posto in campo un nuovo formidabile soggetto ideologico: il famoso “Ce lo chiede l’Europa”. “Falso!”, risponde ancora Luciano Canfora in uno dei volumetti di una felice serie dell’editore Laterza.
Tutto ciò accade con modalità che escludono del tutto i cittadini dalla vita stessa delle loro società, ridotti alle figure emaciate e tristi di consumatori indebitati, di desideranti frustrati, di partecipanti inconsapevoli a riti elettorali privi di autentiche opzioni politiche alternative, o, peggio, a manifestazioni plebiscitarie per un personaggio invece che un altro. E tutti promettono denaro, denaro da ricavare, in più (promesse talora mantenute, con una partita di giro spettacolare, che fa entrare dalla porta e fa uscire dalla finestra mirabolanti bonus), e denaro da sborsare in meno (“ridurremo le tasse!” – è il grido di lancio fondamentale di ciascun partecipante all’arena politico-elettorale).
Intorno al denaro, alla sua dialettica fascinosa e orrorifica, si gioca dunque il destino dei popoli, come quello delle persone: la società liquida di cui parla Bauman, è una società in cui il liquido – inteso come flusso di soldi – sembra avere una sola direzione, dal basso verso l’alto. La parola magica “austerità” – che in un passato non troppo lontano – assumeva un significato etico, contro la corruzione politica da una parte, e contro la società dello spreco e della dissipazione, dall’altra – è diventata ora la giustificazione politica, in chiave quasi scientifica, delle nuove ingiustizie. Tutti i dati a disposizione, nella UE, o nei Paesi aderenti alla OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), ci mostrano due verità inoppugnabili: una redistribuzione del reddito (dunque del denaro) dalle fasce basse verso quelle alte, da un lato; dall’altro, una riduzione della quota dei salari sul reddito sociale, ossia una quota crescente di reddito è transitata dai lavoratori salariati, ma anche dai lavoratori autonomi, verso i percettori di rendite finanziarie di varia natura e genere (immobiliari, assicurative, profitti…). Il rapporto dell’OIL già nel 2008 scriveva: “Di fronte alla forte moderazione salariale, i lavoratori e le loro famiglie si sono indebitati in misura crescente allo scopo di finanziare il loro investimento in un’abitazione – e talvolta anche i consumi” (in Gallino, 2013). Negli anni seguenti la situazione è peggiorata: la forbice si è allargata. E la morsa del debito si è stretta vieppiù non soltanto intorno alle famiglie e agli individui delle classi salariate, ma anche delle classi medie: il denaro è diventato tutt’uno col debito. La quota di stipendi, salari o introiti di attività commerciali dei piccoli rivenditori, si è fatta invisibile, entrando virtualmente e fuoruscendo immediatamente per le spese necessarie (affitti, rate mutuo, utenze), mentre il resto, quello non certo per spese “voluttuarie”, se non in forma minima, ma per la vita quotidiana, dipende in misura crescente o da prestiti e fidi bancari, da anticipazioni di stipendi o emolumenti pensionistici futuri, o semplicemente ottenuti da rete di protezione: genitori, parenti, amici.
Intanto, nella “nostra” Italia, il 10% della popolazione possiede metà della ricchezza nazionale; mentre il 90% accede a quel che resta. Un Paese ricco abitato da poveri ai quali ancora si cerca di far pagare, sul piano finanziario e normativo, le colpe e gli abusi di poche migliaia di individui. E, per milioni di italiani e italiane, “senza soldi”, ovvero coloro che “non arrivano alla terza settimana” , beni elementari come la casa, l’istruzione, la cura di sé diventano adunata: cose impossibili, desideri irrealizzabili. Al “guai ai vinti!” sostituiremo un “Guai ai poveri!”, con serena indifferenza? Siamo poi sicuri che l’equivalenza tra ricchezza e denaro sia corretta?, si chiede Vandana Shiva, come del resto l’altra, conseguente, tra ricchezza e benessere. Si può essere ricchi senza denaro, e si può star bene senza essere ricchi, insomma? Il PIL equivale al FIL? (il sistema della Felicità Interna Lorda, adottata nello Stato del Bhutan)… Se l’attivista indiana spiega giustamente che il flusso incessante del denaro nelle nostre società è in realtà un deflusso (“dalla natura e dalle persone verso gli interessi commerciali e verso le grandi imprese”: in Dionigi, p. 84), Luciano Gallino, dunque uno studioso severo, non marxista, ci spiega che nella economia finanziarizzata, alla produzione di valore è subentrata l’estrazione di valore: lo sfruttamento intensivo e spesso folle di ogni risorsa, naturale o umana, a scopi di “fare denaro”, mettendo da parte gli ultimi fuochi di una “sana” economia che producendo ricchezza anche disuguale continua a creare un benessere diffuso, senza distruggere l’ecosistema.
Certo, in conclusione, per chi ne abbia, e per chi no, il denaro rimane quella terribile o benefica divinità che, per dirla con Marx, “umilia tutti gli dei dell’uomo”.
Perciò dobbiamo parlarne, analizzare questa divinità da ogni punto di vista, e con tutte le chiavi possibili; e siamo qui per farlo. Come sempre, in FestivalStoria, senza dogmatismi, seguendo il solo criterio della competenza, allo scopo di porre domande, suscitare problemi, in definitiva di eccitare la volontà di sapere e di capire, ma sempre nella convinzione che “il mestiere di storico” abbia e debba avere sempre una funzione (anche) civile.
Bibliografia
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(15 ottobre 2014)
Tortura, stregoneria, inquisizione
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In questo periodo sta tornando di gran moda l’argomento dell’inquisizione, della tortura e della stregoneria. Non sempre a proposito. Anzi, volendolo dire con un eufemismo, quello che il più delle volte si trova sull’argomento è frutto di approssimazioni, pregiudizi ereditati, leggende e contaminazioni fantasy. La prima cosa da dire è che ciò che viene percepito come argomento unico, è invece composto da diversi fenomeni variamente combinati tra loro e non sempre coesistenti: tortura, inquisizione, stregoneria, roghi, eresia. Questo post non sarà esaustivo riguardo all’argomento perché non è quello il suo scopo. Il suo scopo è di dimostrare quanto sarebbe semplice fare un minimo di verifiche prima di spacciare per buone conoscenze raffazzonate, lacunose e parziali. Userò quindi gli strumenti della rete, pur avendo a disposizione altri materiali, perché non mi interessa di disquisire su tortura, stregoneria e inquisizione bensì di esemplificare come agirebbe qualcuno che volesse veramente informarsi, pur non avendo una preparazione storica specialistica.
Dunque partiamo.
La prima immagine che viene in mente al riguardo, sono gli immancabili banners dei musei della “tortura medievale” che garriscono in varie città, compresa la mia, richiamando i passanti con le immagini di sedie puntute e pere d’ottone. Si legga in proposito Che tortura quei musei. Il punto è questo: i musei della tortura si basano principalmente sulla reazione di raccapriccio provocata da quegli strumenti. Ma devono porli sufficientemente distanti dall’osservatore in modo che non inneschino controproducenti sensi di colpa o sospetti di pesantezze politiche. Vi siete mai chiesti come suonerebbe un museo della “tortura contemporanea”? Il gioco consiste nel proiettare quelle immagini e quegli oggetti all’indietro nel tempo, in un passato indefinito ma comunque lontano. A quel punto diventa quasi naturale, tenuto conto della pervicacia della “leggenda dei secoli bui”, ricorrere al medioevo come una sorta di “pattumiera della storia” (non è mia, è di Trotski). Volete una riprova? Bene: ieri leggendo una discussione a proposito dell’orsa Daniza, uccisa durante il tentativo di cattura, ho incrociato l’espressione “come nella migliore tradizione araba medievale” usata, nelle intenzioni dello scrivente, come terribile esempio di arretratezza e superstizione. Ho scritto all’autore che si trattava di un errore grossolano, reso più brutto dal fatto che lui aveva stigmatizzato “la gente che parla senza sapere”. Gli arabi del medioevo, infatti, sono stati quelli che hanno tenuto viva la tradizione medica, matematica, scientifica, filosofica e poi la hanno ritrasmessa all’Occidente. Senza gli arabi medievali non avremmo l’algebra e nemmeno lo zero. In buona sostanza il problema è che la parola “medioevo” ha perso il significato originario di periodo storico (valore denotativo) per assumere il significato di periodo lontano e cupo (valore connotativo). In questo caso il “medioevo” cessa di essere una dimensione reale del tempo, compresa tra un inizio e una fine, per diventare una dimensione del linguaggio separata dal suo stesso significato. Si usa “medioevo” come puro e semplice sinonimo di “oscurantista” perché suona meglio ed è più facile. Da questo poi derivano i paradossi delle espressioni come “medioevo contemporaneo”, “medioevo arabo”, “medioevo sanitario”, “medioevo sessuale” e chi più ne ha più ne metta. Per approfondimenti rimando al prontuario degli stereotipi sul medioevo di Antonio Brusa, reperibile in rete.
Magari questi argomenti li avete già sentiti. Naturalmente non parlo ai colleghi, che ne hanno già acquisito coscienza, bensì agli appassionati, ai curiosi, ai dilettanti volenterosi che sono da incoraggiare ma anche da riportare al principio fondamentale della scientificità della narrazione storica. Capisco che per chi non lo fa di mestiere sia una fatica quella di inseguire la bibliografia o anche solo di procurarsene una. Ma questo non legittima il fatto di scrivere cose senza averne contezza. Su internet prolifera ancora leggenda nera dei secoli bui, rafforzata periodicamente dai contributi di chi ne scrive senza approfondire. D’altro canto, grazie alla digitalizzazione delle risorse e agli strumenti di condivisione come academia.edu, su internet è possibile trovare anche materiale sicuramente più affidabile di quello messo in circolazione da gruppi e utenti che si occupano di medioevo in chiave sensazionalistica.
Capisco che una sbirciata tra i materiali messi a disposizione dai ricercatori possa essere faticosa, ma esistono in ogni caso gli strumenti adatti a tutte le esigenze, compresa quelle di chi non ha voglia di perdersi tra citazioni bibliografiche, frasi latine e rimandi alle fonti. Apro una parentesi: il medioevo studiato scientificamente è proprio questo, ovvero citazioni bibliografiche, frasi latine e rimandi alle fonti. Poi vengono anche le ciliegine ossia gli episodi piccanti e le vicende sensazionali che sì, piacciono anche ai medievisti di professione, ma arrivano dopo parecchia fatica e diversi anni di studio. Chiudo la parentesi. Chi non vuole sobbarcarsi di questi pesi, perché è vero che si tratta di pesi, non è tenuto a farlo: può dignitosamente porsi tra gli appassionati e ha comunque dei canali di informazione.
Come ho già detto, infatti, esistono ormai molti strumenti adatti alle esigenze di chi è appassionato di storia. Tra i miei preferiti c’è sicuramente l’enciclopedia Treccani, un evergreen che da qualche anno è uscito anche in versione digitale. La ricerca per il tema di questo post andrebbe fatta su più voci parallele ma è davvero difficile risolvere tutto in un articolo da blog. Così, dovendo scegliere, ho dato la priorità all’argomento della tortura fornendo come anticipazione l’indicazione del link alla voce Treccani relativa all’inquisizione. Prima di arrivare al nocciolo della questione, voglio dare anche un assaggio dell’aspetto più interessante del lavorare con la storia, ossia il contatto con le fonti. Le fonti sono importanti perché sono esse, e non altro, che danno la versione più prossima a ciò che effettivamente pensavano le persone di un’epoca diversa dalla nostra. In questo caso si tratta di un brano di Reginone, abate di Prum, che nel 906 scrisse il Canon Episcopi, un trattato rivolto ai vescovi circa l’atteggiamento da tenere nei riguardi della stregoneria. Il Canon episcopi è una parte del De Ecclesiasticis Disciplinis et Religione Christiana, libro II, capitolo 364. Il testo è pubblicato in Patrologia Latina, volume 132 (colonne 352 – 352). Fornisco qui la traduzione di un passaggio particolarmente interessante:
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«Certe donne depravate, rivolte a Satana, e sviate da illusioni e seduzioni diaboliche, credono e affermano di cavalcare la notte alcune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani (o di Ero diade), e di una innumerevole moltitudine di donne; di attraversare larghi spazi grazie al silenzio della notte profonda e di ubbidire a lei come loro signora e di essere chiamate certe notti al suo servizio. Volesse il Cielo che soltanto loro fossero perite nella loro falsa credenza e non avessero trascinato parecchi altri nella perdizione dell’anima! Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in tal modo si allontanano dalla vera fede e cadono nel l’errore dei pagani, credendo che vi siano altri dei o divinità, oltre all’unico Dio. Perciò, nelle chiese a loro assegnate, i preti devono predicare con grande diligenza al popolo di Dio affinché si sappia che queste cose sono completamente false e che tali fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo spirito divino ma dallo spirito malvagio. Infatti […] durante le ore del sonno inganna la mente che tiene prigioniera, alter nando visioni liete a visioni tristi, persone note a persone ignote, e conducendole attraverso cammini mai praticati; e benché la donna infedele esperimenti tutto ciò solo nello spirito, ella crede che avvenga non nella mente ma nel corpo».
Vediamo adesso cosa dice la Treccani a proposito della tortura. La voce è complessa, predeve un sommario di cui riporto solo le prime due parti per questioni di brevità ma rimando comunque alla sezione La tortura nel mondo contemporaneo, giusto perché chi legge possa avere un’idea di cosa stiamo parlando. Faccio notare che, al momento in cui scrivo, in Italia il codice penale, secondo quanto riportato da Amnesty International, non prevede ancora il reato di tortura. Il disegno di legge per l’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano è stato approvato il 5 maggio 2014 ed è tuttora al vaglio della commisione d’esame. Non dico questo per scaricare di “responsabilità” il medioevo bensì per sottolineare che un “problema tortura” esiste, è grave e sta accadendo ora, nel nostro tempo. Forse sarebbe opportuno puntare lo sguardo anche lì visto che, a differenza del passato, il futuro si potrebbe ancora cambiare.
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Storia della tortura giudiziaria di Franco Cardini
1. Tortura e verità
In senso giuridico, la tortura è costituita dall’insieme di coercizioni e di tormenti fisici e psichici con i quali si vuol indurre un imputato a confessare la verità; in Europa è stata considerata legale sino alla seconda metà circa del 18° secolo, nonostante le molte contestazioni a proposito della sua legittimità morale e della sua validità funzionale. Un tipo particolare di tortura, sempre nell’ambito giuridico ma privo d’intenti probatori, è quello inflitto ai condannati a morte prima dell’applicazione della sentenza finale per scopi al tempo stesso punitivi e pedagogici: infatti, nei sistemi di giustizia d’ancien régime non soltanto un condannato a una qualche pena poteva essere sottoposto ad altre sussidiarie (carcere duro, digiuni, percosse ecc.), ma al condannato alla pena capitale si potevano infliggere (secondo il tipo e la qualità del suo crimine, e con riferimento al suo rango e stato sociale e giuridico) pene preliminari, che avevano l’obiettivo non solo e non tanto di aggravare la sua pena quanto piuttosto di servire da esempio deterrente.
La tortura esercitata nei confronti di prigionieri di guerra o di soggetti sottoposti a costrizione per motivi politici, religiosi o anche in seguito a crimine di cui essi siano dirette vittime (per es., i rapiti o sequestrati a scopo di estorsione mediante riscatto), appartiene a una sorta d’histoire immobile dell’umanità e conosce una dinamica di certo legata al modificarsi del senso morale diffuso e delle ‘soglie del dolore’ nelle differenti civiltà, ma connessa soprattutto con il mutare dei mezzi tecnologici. In genere vietata o comunque soggetta a durissime censure etiche, essa è stata ed è nondimeno praticata sia all’interno di corpi ‘speciali’ o ‘paralleli’ degli Stati moderni sia nel contesto di frequenti situazioni private. Questo tipo di tortura, comunque suscettibile di una riflessione storica legata soprattutto alle dinamiche fenomenologiche, ha tuttavia un rapporto molto forte con la cultura della violenza e della crudeltà, cultura che si è andata imponendo negli ultimi due secoli e che ha anche avuto interpreti illustri.
Oggetto precipuo di storia è tuttavia non già questo tipo di tortura, non soggetto al consenso civile e sottratto quindi alla regolamentazione che accompagna la legittimazione, bensì quello della tortura giudiziaria, intesa come complesso dei mezzi di coercizione personale, sia fisica sia morale, impiegati durante il processo – anche se essi possono essere accompagnati e complicati dalla parallela attività di polizia (ufficialmente lecita, semilecita oppure illecita, a seconda dei tempi e dei luoghi) che lo precede o l’accompagna – e tesi all’accertamento della colpevolezza degli imputati o a provocarne comunque la confessione, oppure a convalidare l’attendibilità delle deposizioni dei testimoni.
È difficile e forse impossibile rintracciare l’origine storica della tortura giudiziaria, la radice ultima della quale può considerarsi etico-pedagogica ancor prima che giuridica: il tormentare per conoscere la verità implica un sottinteso ma forte rapporto tra la verità intesa come bene e la falsità e la menzogna ritenute di per sé un male. Tale tensione etica rendeva plausibile, nel diritto greco e romano che l’hanno codificata, l’interpretazione della tortura come atto praticato anche pro reo: si partiva cioè dal principio che, in mancanza di chiare prove, la forza d’animo dimostrata dall’imputato nel sostenere la sofferenza pur di far trionfare la verità fosse, essa stessa, una prova. Dato il suo carattere non solo doloroso ma anche umiliante, la tortura in certi periodi non poteva essere applicata se non nei casi dei soggetti non liberi: la legislazione imperiale romana tuttavia conosce, al riguardo, fasi differenti. La sua pratica non era mai stata libera però da forti ipoteche, da pesanti e dolenti perplessità. Dice il giurista Ulpiano: “La tortura è uno strumento fragile e rischioso, incapace spesso di condurre alla verità: molti difatti riescono a sopportare i tormenti grazie alla loro forza d’animo o alla loro robustezza fisiologica, in tal modo che non c’è verso d’estorcere loro la verità; altri, al contrario, temono la sofferenza al punto tale da esser pronti anche a mentire pur d’evitarla”.
Durante l’Alto Medioevo, la tortura fu in genere sostituita dall’ordalia, che con essa aveva in comune la concezione del rapporto tra coscienza soggettiva d’innocenza (o di colpevolezza) e capacità di sopportare prove e sofferenze. Essa rinacque a partire dalla fine del 12° secolo o dai primi del 13°, vale a dire da quando l’Europa occidentale, attraverso la diffusione universitaria del corpus iuris giustinianeo, torna al diritto romano. Ammesso fin dai primi del Duecento in numerosi esempi di procedura giuridica laica, l’interrogatorio sotto tortura, detto quaestio, è menzionato con certezza e chiarezza per la prima volta nel veronese Liber iuris civilis (1228). Esso fu legittimato per quel che concerneva i processi inquisitoriali nella bolla Ad exstirpanda (15 maggio 1252) del famoso canonista Sinibaldo de’ Fieschi, papa con il nome d’Innocenzo IV. Sette anni dopo, Alessandro IV ratificò la decisione del suo predecessore, poi rafforzata altresì da Clemente IV. Papa Alessandro autorizzò anche i religiosi a concedersi reciprocamente l’assoluzione nei casi in cui il contatto con la tortura comportasse un’infrazione dei divieti canonici relativi al principio secondo il quale Ecclesia abhorret a sanguine.
Nel corso del Trecento la tortura fu estesa poi ad altre, differenti procedure: i giuristi, quali Accursio, Baldo, Bartolo, fornirono tutti, sia pure con accenti diversi, il loro apporto favorevole al radicamento e alla generalizzazione della pratica, che nondimeno fu rigorosamente regolamentata. In particolare, si dovevano evitare sia la mutilazione permanente sia la morte. In età tardomedievale e rinascimentale abbondano i trattati sulla tortura, come l’anonimo (forse bolognese) De tormentis e il De indiciis et tortura di F. Dal Bruno, che si preoccupano di legittimare e al tempo stesso di disciplinare la pratica. Già nei giuristi medievali si avvertono molto vivi la preoccupazione per gli abusi e il dubbio sull’efficacia della tortura in rapporto alla fragilità umana e alla paura del dolore. Tuttavia, forte era l’argomentazione dell’inquisitore Bernard Gui, secondo il quale vexatio dat intellectum, “la sofferenza induce a riflettere”. La Constitutio criminalis Carolina, emanata dall’imperatore Carlo V nel 1532, costituì un punto fermo nella storia dell’adozione della tortura nell’Europa moderna: nel momento stesso in cui ne confermava legittimità e validità, il legislatore imperiale sottolineava la necessità dell’osservanza scrupolosa di precise regole procedurali, pena l’ottenimento di un risultato opposto rispetto a quello voluto.
2. Regolamentazione dei tormenti
La tortura era esercitata in materia civile a fini probatori, ma soprattutto mirava a rendere più certe le sentenze nei processi criminali, durante i quali a essa potevano essere sottoposti sia gli imputati sia i testimoni poco attendibili o reticenti: il suo uso era tuttavia subordinato alla certezza che altri mezzi probatori fossero inapplicabili o inefficaci o insufficienti. Sia nei processi civili sia in quelli inquisitoriali, la tortura era raccomandata nei casi in cui l’imputato si ostinasse a negare la sua colpa ma non fosse in grado di dimostrare con prove o argomentazioni la sua innocenza; o quando, pur avendo egli ammesso la colpa, vi fossero fondati motivi per ritenere non completa la sua confessione. Naturalmente erano previste categorie di persone verso le quali la tortura era inapplicabile: o per la qualità del loro stato, che rendeva inutile la tortura dato che la loro parola doveva essere considerata un pegno di publica fides (i nobili, i militari, gli insigniti di dignità cavalleresche), o per la loro qualità di soggetti a un foro speciale (i chierici), o per la debolezza della loro condizione fisiologica e psicologica (i bambini, i vecchi, le gravide ecc.); ma la procedura inquisitoriale poteva introdurre al riguardo qualche deroga. Chi allegasse malattie o difetti che gli impedivano di sopportare la tortura aveva il diritto di essere visitato da un medico.
La tortura poteva essere applicata solo sulla base di una preliminare sentenza, rispetto alla quale l’imputato poteva appellarsi: se e quando possibile, si tendeva a far sì che la sola paura della sofferenza bastasse a far confessare la verità. All’applicazione della tortura, che doveva essere eseguita secondo i limiti, nei modi e nei tempi sanciti nella sentenza, dovevano assistere – secondo la decretale Multorum querela del tempo di papa Clemente V – i giudici inquisitoriali (quindi il vescovo ordinario del luogo nel quale l’imputato era stato arrestato e l’inquisitore) o i loro vicari ufficiali. La tortura si poteva iterare, ma solo dopo attento esame dei singoli casi e matura riflessione.
Mezzi e sistemi di tortura variavano in relazione alle consuetudini locali: nel corso del 17° e 18° secolo si tese a disciplinare anche quelli secondo le varie normative statali. I più comuni erano i ‘tratti di corda’ (l’inquisito, con le mani legate dietro la schiena, veniva sollevato più volte in aria per mezzo d’un sistema di carrucole e poi lasciato cadere); il ‘cavalletto’ (un ordigno sul quale si stiravano le membra del torturato); il ‘fuoco’ (si ungevano i piedi del torturato per avvicinarli poi a una fonte di calore); la ‘stanghetta’ (un sistema di contenzione che comprimeva polsi e caviglie); le ‘cannette’ (si stringevano con appositi strumenti le dita giunte del tormentato); la ‘veglia’ (s’impediva al torturato, legato a un sedile, di addormentarsi per un periodo che poteva arrivare a quasi due giorni); la ‘bacchetta’, uno staffile che si poteva usare anche nei confronti dei minorenni, non però prima del nono anno d’età. Il testimone che avesse resistito al dolore senza ritrattare era considerato veridico; l’imputato che vi avesse resistito senza confessare era dichiarato innocente. I notai erano chiamati a registrare con precisione carattere e durata dei singoli tipi di tortura; dopo di essa, si chiedeva all’imputato confesso di confermare la sua confessione, nel qual caso si parlava di confessione spontanea.
È indebito il carico che talora si fa ai tribunali inquisitoriali di aver usato sistematicamente la tortura: in ciò, essi non facevano che seguire la pratica giuridica dell’epoca e avvalersi di infrastrutture poste a loro disposizione dai tribunali laici; e vi sono testimonianze numerose d’una forte resistenza degli inquisitori a servirsi dell’extrema ratio, la tortura, cui si ricorreva di solito soltanto dopo aver provato altre vie, quali, anzitutto, la prigione ‘stretta’ che prevedeva digiuno e privazione del sonno. Molti trattati inquisitoriali citavano, facendolo proprio, il duro giudizio di Ulpiano sui limiti della tortura. Il domenicano frate Eliseo Marini, nel suo Sacro arsenale (1631), sosteneva che la ‘rigorosa disamina’ – la tortura – dovesse essere applicata solo se le altre prove fossero del tutto insufficienti, e massima l’incertezza; e ammoniva che si procedesse con prudenza, si mostrassero all’imputato gli strumenti di tortura prima di usarli, gli si proponesse ripetutamente di pensare a quel che faceva, s’interrompesse più volte il procedimento per dargli modo di riflettere. La costrizione della volontà risulta insomma chiara, ma l’arbitrio dei giudici e la durezza del tormento si riducevano e si disciplinavano per quanto era possibile.
Trascrizione delle carte del Canon episcopi (qui sopra) secondo Patrologia Latina 140 Il Canon episcopi compare come inizio del libro 10 del Decretum Burchardi (ca. 1012), nel manoscritto 119 della Biblioteca Cattedrale di Hildesheim (Colonia). Ut episcopi eorumque ministri omnibus viribus elaborare studeant, ut perniciosam et a diabolo inventam sortilegam et maleficam artem penitus ex parochiis suis eradicent: et si aliquem virum aut feminam hujuscemodi sceleris sectatorem invenerint, turpiter dehonestatum de parochiis suis ejiciant. Ait enim Apostolus: Haereticum post unam et secundam admonitionem devita, sciens quia subversus est, qui ejusmodi est. Subversi sunt, et a diabolo capti tenentur, qui, derelicto creatore suo, a diabolo suffragia quaerunt, et ideo a tali peste mundari debet sancta Ecclesia. Illud etiam non omittendum, quod quaedam sceleratae mulieres retro post Satanam conversae, daemonum illusionibus, et phantasmatibus seductae, credunt se et profitentur nocturnis horis, cum Diana paganorum dea, vel cum Herodiade et innumera multitudine mulierum equitare super quasdam bestias, et multa terrarum spatia intempestae noctis silentio pertransire ejusque jussionibus velut dominae obedire et certis noctibus ad ejus servitium evocari. Sed utinam hae solae in perfidia sua perissent, et non multos secum in infidelitatis interitum pertraxissent. Nam innumera multitudo hac falsa opinione decepta haec vera esse credit, et credendo a recta fide deviat, et in errore paganorum revolvitur, cum aliquid divinitatis, aut numinis extra unum Deum esse arbitratur. Quapropter sacerdotes per Ecclesias sibi commissas populo omni instantia praedicare debent, ut noverint haec omnimodis falsa esse, et non a divino, sed a maligno spiritu talia phantasmata mentibus infidelium irrogari. Siquidem ipse Satanas, qui transfigurat se in angelum lucis, cum mentem cujuscunque mulierculae ceperit, et hanc sibi per infidelitatem et incredulitatem subjugaverit, illico transformat se in diversarum personarum species atque similitudines, et mentem quam captivam tenet in somnis deludens, modo laeta, modo tristia, modo cognitas, modo incognitas personas, ostendens, per devia quaeque deducit. Et cum solus spiritus hoc patitur, infidelis mens haec non in animo, sed in corpore evenire opinatur. Quis enim non in somnis et nocturnis visionibus extra seipsum educitur, et multa videt dormiendo, quae nunquam viderat vigilando? Quis vero tam stultus et hebes sit, qui haec omnia quae in solo spiritu fiunt, etiam in corpore accidere arbitretur? Cum Ezechiel propheta visiones Domini in spiritu non in corpore vidit. Et Joannes apostolus Apocalypsis sacramenta in spiritu non in corpore vidit, et audivit sicut ipse dicit: Statim, inquit, fui in spiritu. Et Paulus non audet se dicere raptum in corpore. Omnibus itaque publice annuntiandum est, quod qui talia et his similia credit, fidem perdit, et qui fidem rectam in Deo non habet, hic non est ejus, sed illius in quem credit, id est diaboli. Nam de Domino nostro scriptum est: Omnia per ipsum facta sunt. Quisquis ergo aliquid credit posse fieri, aut aliquam creaturam in melius aut in deterius immutari, aut transformari in aliam speciem, vel similitudinem, nisi ab ipso Creatore qui omnia fecit et per quem omnia facta sunt, procul dubio infidelis est et pagano deterior.
Ildegarda di Bingen, mistica benedettina, 1098 – 1179
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Ildegarda (lat. Hildegarda) di Bingen, santa. – Mistica benedettina (Bermeshein1098 – presso Bingen 1179). Entrata a otto anni nell’abbazia di Disibodenberg, nel1136 prese la direzione della comunità, trasferita più tardi (1147–50) nel monastero da lei fondato presso Bingen. Fondò poi (1165), come filiale, un altro monastero a Eibingen e svolse molta attività in favore della Chiesa e del clero, specialmente nella Germania meridionale. La sua esperienza mistica è descritta in particolare nel Liber scivias (sci vias lucis “conosci le vie della luce”, degli anni1141–51); altre sue importanti opere di edificazione religiosa sono il Liber vitae meritorum (1159–64) e il Liber divinorum operum (1164–70). Nelle sue opere (che, donna di modesta cultura, dettava a segretarî e correttori), sono notevoli anche i motivi cosmologici nell’ambito di una interpretazione allegorico-simbolica del mondo fisico e del corpo umano. Abbiamo di lei anche poesie, canti, moltissime lettere e un’autobiografia di cui ci restano frammenti. Festa, 17 settembre. (Treccani)
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Hildegard von Bingen della Biblioteca statale di Lucca
Il Codice, proveniente dal Convento dei Chierici regolari della Madre di Dio di Lucca, contiene il Liber Divinorum Operum di Hildegard von Bingen. Nata dalla nobile famiglia francone Vermersheim nel 1098, Hildegard morì a Bingen nel 1179. Destinata alla vita monastica fin da bambina, entra nel convento benedettino di Disibodenberg. Nel 1147 fondò il monastero di Rupertsberg a Bingendove visse fino alla fine della sua vita.Scrittrice, compositrice, naturalista, condusse una vita attiva non solo all’interno del monastero ma intraprendendo molti viaggi e mostrando capacità e consapevolezza sia nella vita spirituale che in ambito giuridico, economico e politico.Intrattenne relazioni dirette o epistolari con le più alte personalità della sua epoca: con San Bernardo, con i papi Eugenio III, Anastasio IV, Adriano IV, Alessandro III, con gli imperatori Corrado e Federico Barbarossa. Ha lasciato alcuni libri profetici: loScivias, il Liber Vitae e il Liber Divinorum Operum (il “Libro delle opere divine”). Di quest’ultima opera rimangono tre trascrizioni, di cui quella lucchese è l’unica miniata e la sua datazione è stata collocata tra il secondo e il terzo decennio del XIII secolo. L’opera contiene le visioni di Hildegard ed il testo di ogni visione è composto da una descrizione nella quale la Santa parla in prima persona ed espone il contenuto dell’apparizione, cui segue un commento esplicativo pronunciato dalla voce di Dio. Le tavole miniate illustrative delle visioni sono dieci, tutte a piena pagina. All’interno della cornice di tali tavole o in un riquadro adiacente, è presentata la figura di Hildegard seduta, il capo elevato verso l’alto, con gli strumenti scrittori fra le mani, o appoggiati su un leggio, in atto di scrivere le sue visioni. Delle visioni vengono enucleati gli episodi di particolare evidenza e intensità: l’immagine dello spirito del mondo, la struttura del cosmo, il sistema dei venti, la figura umana collocata al centro dell’universo, il tema del mostro e delle figure fantastiche ed allegoriche, il globo terrestre, lo schema della città. Nel 2012 è stata dichiarata dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI.
http://www.internetculturale.it/opencms/opencms/it/collezioni/collezione_0103.html
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Liber divinorum operum – Biblioteca Governativa di Lucca, Codex Latinus 1942 Download
Liber revelationis in Revelationes S. S. Virginum Hildegardis et (…), Colonia, 1628 Download
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VIDEO RAI: Il tempo e la Storia
29/04/2014 29/04/2014
Ildergarda di Bingen: santa eclettica della modernità
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Vision – Margarethe von Trotta.
Con Barbara Sukowa, Heino Ferch, Hannah Herzsprung, Gerald Alexander Held, Lena Stolze. continua» Titolo originale Vision – Aus dem Leben der Hildegard von Bingen. Drammatico, durata 110 min. – Germania, Francia 2009. http://www.youtube.com/watch?v=g-kBG3KxAjQ