12 novembre 2021
Presentazione del volume “Lucca, il Volto Santo e la Via Francigena” (MPF 2021) di Ilaria Sabbatini
Con l’arcivescovo Paolo Giulietti e l’autrice Ilaria Sabbatini
Presenta Daniela Bartolini
https://www.turismo.lucca.it/lucca-book-festival-2
Invenzione della Croce – 3 maggio
Il 3 maggio il calendario liturgico celebra la festa dell’inventio crucis, il ritrovamento della croce da parte della madre dell’imperatore Costantino (†337). Elena (†329) è venerata dai cattolici come santa Elena Imperatrice.
Il lignum crucis, il legno della croce di Cristo che così tanta importanza riveste non solo nel culto cristiano ma nell’intero immaginario occidentale, è una reliquia strettamente legata al fenomeno dei pellegrinaggi in Terrasanta. La tradizione della sua leggenda ha un’origine ben precisa che si colloca nel pieno del medioevo latino. La storia è narrata dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine che, come egli stesso afferma, la raccoglie da altri autori precedenti.
Elena, madre dell’imperatore Costantino, giunta a Gerusalemme, chiese alle autorità se conoscevano il luogo nel quale si trovava la Croce della Passione di Cristo. Solo un tale di nome Giuda lo sapeva e dopo che fu costretto a rivelarlo si scavò nel luogo da lui indicato dove vennero fuori tre croci che furono consegnate all’imperatrice. A quel punto, continua la Legenda, non sapendo come distinguere la croce di Cristo da quelle dei ladroni, le misero tutte in mezzo alla piazza di Gerusalemme aspettando che si manifestasse la gloria del Signore. Ed ecco che venne portato un giovane morto: furono posate sul corpo senza vita prima una croce, poi un’altra e il giovane non risorse ma appena gli fu avvicinata la terza croce il morto tornò in vita.
La Legenda aurea è una collezione di vite di santi compilata dal domenicano Jacopo da Varagine intorno al 1260 e veniva probabilmente usata come manuale di predicazione. Nel tardo medioevo la Legenda fu tradotta in molte lingue europee compreso il francese. La più importante di tali traduzioni è quella realizzata intorno al 1333 da Jean de Vignay di cui sono sopravvissuti sedici manoscritti corredati di belle miniature.
Fu proprio in questa traduzione francese che anche la leggenda del Volto Santo entrò nella raccolta della Legenda aurea che così tanta importanza rivestiva per il periodo medievale.
Il Volto Santo di Lucca infatti era ben conosciuto nel Nord Europa ed era oggetto di grande devozione da parte della nobiltà francese del tardo medioevo. Quando la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, celebrata il 14 settembre in ricordo del ritrovamento della croce di Gesù, entrò a far parte del calendario liturgico fu il momento in cui la leggenda del Volto Santo venne integrata nel compendio che originariamente accoglieva solo le vite dei santi ordinate secondo il calendario liturgico.
Iacopo da Varagine, Legenda aurea, traduttore Jean de Vignay, continuatore Jean Golein, datazione ca. 1470
Invenzione ed esaltazione della croce. Iacopo da Varagine, Legenda aurea, edizione Lipsia (Graesse) 1850
Le pèlerinage dans les religions d’Abraham
Jewish and Non-Jewish Cultures in Contact: New Research Perspectives, Ecole Normale Supérieure, 20-24 July 2014
I. Sabbatini, «In terram quam mostrabo». L’itinérance pieuse dans les religions d’Abraham.
22 July, Ecole Normale Supérieure, Salle des RÉSISTANTS, Main building, 1st floor,
Session 1: 9.00-10.30 Early Modern History. Travel and Cultural Interchange in Pre-Modern Jewry
Le pèlerinage dans les religions d’Abraham
La via Egnazia: ponti e muri tra Oriente e Occidente
Gli Stati o gli imperi in ascesa o all’apice della loro potenza costruiscono strade e ponti, mentre quelli in declino o in pericolo innalzano mura e barriere. Un viaggio lungo l’antica via Egnatia che collegava Italia e Grecia antica, proseguendo fino a Bisanzio e che ora dà il nome a un’autostrada
Chi frequenta la Grecia da molti anni non può non ricordarselo. Traversare il nord del Paese, dall’Egeo allo Ionio, era una piccola avventura: un saliscendi di sette, otto ore, tra giravolte e dure pendenze su una striscia d’asfalto intasata da camion e corriere arrancanti, che a tratti s’incanalavano in paesini pittoreschi e superavano passi montani vertiginosi. Alla fine si arrivava ad imbarcarsi per l’Italia dal porto di Igoumenitsa, confinata in un angolino là, sotto l’Albania, non lontano dalle coste pugliesi.
Ora, tutto questo è finito. Un solo breve tunnel rimaneva ancora incompiuto quest’estate lungo la nuovissima autostrada greca che, con un percorso di 670 km, permette di passare in un paio d’ore da un mare all’altro, e addirittura nella stessa mattinata di raggiungere i confini della Turchia europea. E poi, da lì, volendo, si prosegue per Istanbul, porta dell’Asia. E viceversa.
Il paradosso è che il suo tratto più orientale, quello che dalla cittadina di Alexandroupoli giunge al posto di confine greco-turco di Kipi, risulta spesso semivuoto. Conduce infatti non solo alla barriera tra due Stati i cui rapporti continuano a non essere facili, ma anche al limite estremo dell’Unione Europea, segnato dal tratto finale del fiume Evros . E’ proprio qui che il governo ellenico sta costruendo una barriera costituita da reticolati e da un profondo fossato. Lo scopo è porre argine al crescente flusso di migranti provenienti dai paesi asiatici o africani che passano attraverso la Turchia. Capita perfino di vederli, a volte, al calar del sole, marciare a piccoli gruppi in fila indiana lungo la corsia di emergenza dell’autostrada deserta.
L’autostrada Egnatia
Era così importante, l’ Egnatia , che fu la prima delle numerose strade che i Romani decisero di costruire fuori dalla nostra penisola. Si trattò, per quei tempi, di un’impresa straordinaria: traversare i Balcani da est a ovest a quella latitudine, infatti, è una sfida all’orografia. Già di per sé il termine ‘Balcani’ significa ‘monti’; ma per di più in queste regioni i rilievi, così come i principali fiumi, scendono da nord verso sud: e quindi l’ Egnatia doveva tagliarli, tutti. Solo l’organizzazione e i mezzi finanziari del più grande impero dell’antichità poterono realizzare quel percorso lastricato in pietra di 1.120 km, ben più lungo della odierna autostrada, l’ Eghnatìa Odòs , come la chiamano i greci.
Come è noto, i Romani erano grandi costruttori di strade; e lavorarono talmente bene, con in mente una prospettiva di durata nei secoli, che tratti dell’antico tracciato resistono ancora. Mi è capitato di ritrovarne in più punti. Come alle spalle dell’odierna Kavala, una cittadina macedone incastonata tra le montagne e affacciata sull’Egeo scintillante, con gli immancabili traghetti che salpano per le isole. E’ questo un tratto in forte pendenza, poiché la strada risaliva e poi scendeva per il passo che sovrasta la città provenendo dalla non lontana Filippi: sì, proprio quella della battaglia vinta da Ottaviano e Antonio contro gli uccisori di Cesare; e anche quella che ispirò le ‘Lettere ai Filippesi’ di S. Paolo – il quale come tanti si trovò a passarvi nel suo viaggio verso Roma.
L’antica via Egnatia , la strada bipolare
Anche l’asse viario moderno è un prodigio di ingegneria. Le semplici cifre bastano a dimostrarlo. Vi si contano 177 grandi ponti per un totale di 40 km, nonché 73 lunghe gallerie (la maggiore è lunga 4,8 km.). Specie nel tratto dell’Epiro, il 30% del percorso passa assai più in alto, oppure al di sotto, del livello suolo.
Oggi come allora – nel XXI secolo come nel II a.C. – un piccolo Stato da solo, con le sue limitate risorse, non ce l’avrebbe mai fatta. E così, dei circa 6 miliardi di euro di costo complessivi, la metà è venuta dai finanziamenti dell’Unione Europea: come non si stancano di ricordare lungo le corsie sospese tra le montagne i cartelli che i turisti scorrono con lo sguardo annoiato. Le imprese ciclopiche hanno sempre alle spalle ampie entità statali o, in alternativa, una grande unione di Stati: come quella costituita del nostro continente, almeno finché reggerà. Anche la moderna impresa, così come quella avviata dal console Gnaeus Egnatius dopo il 146 a.C., aveva una grandiosa ambizione: collegare in modo rapido e sicuro le due parti del mondo. La via Egnatia insomma era, ed è, per le sue dimensioni e i suoi costi, una strada il cui senso non può che essere bipolare. Allora i poli erano le teste politiche delle due parti dell’immenso impero: quello romano d’Occidente, con capitale Roma, e quello d’Oriente, con capitale Costantinopoli. E oggi?
La nuova via Egnatia, la strada sospesa
Oggi, questo superbo nastro d’asfalto rischia di diventare un magnifico ponte sospeso, cui manchino le campate finali: alle sue estremità non lo attendono infatti varchi spalancati, ma le indecisioni e le lentezze, le miopie e le dispute che dividono i governi della regione. Non si tratta solo degli alterni rapporti dell’Europa con la Turchia. Anche il tracciato occidentale dell’Egnatia, se lo si confronta con quello della strada romana, è rivelatore dell’attualità geopolitica. Infatti l’antica Via non partiva da Igoumenitsa, non attraversava l’Epiro meridionale: i Romani sapevano che il tratto di mare più breve tra Brindisi e i Balcani non era lì, ma più a nord, dove si apriva il porto di Apollonia; mentre ancor più a settentrione quello di Durazzo offriva alle spalle un facile accesso ai Balcani. E così essi la fecero partire da queste due città: che allora erano greche, abitate da Greci, mentre attualmente sono albanesi. Dopodiché, la Via Egnatia giungeva in Grecia, a Salonicco, attraversando il territorio della Repubblica di Macedonia o FYROM, a seconda dei punti di vista, dove toccava il lago di Ochrid ed Erakleia Lynkestis , l’odierna Bitola. Insomma, se si fossero rispettati la logica e il percorso originari, la nuova Egnazia avrebbe traversato oggi quattro stati (Albania, Macedonia/FYROM, Grecia e Turchia), non uno solo.
Comunque, era forse scontato che assieme ai fondi europei la Grecia incamerasse, per questa meritevole impresa, anche il nome della prestigiosa Via romana. Essere o non essere nell’Unione Europea: anche questo fa la differenza, specie nel campo delle infrastrutture.
L’antica Via di Solimano il Magnifico
Ma se nel suo primo tratto la moderna Egnatia ha mutato percorso, e se quello finale resta senza grandi sbocchi, che ne è di quello ancora successivo della antica Via romana, quello che arrivava fino alla imperiale Costantinopoli? Essa attraversava l’attuale confine greco-turco (quello che oggi si vorrebbe ‘fortificare’ con la barriera) poco più a sud della stazione doganale di Kipi, nei pressi dell’antica Traianoupolis : ed è anche lì per buoni tratti visibile, sebbene abbia perso il manto lapideo. Giunta sul Mar di Marmara, l’antica Via ne seguiva le coste fino a sbucare nella ‘Città’ per eccellenza attraverso la ‘Porta d’Oro’, aperta nelle maestose mura della capitale d’Oriente.
In effetti anche durante l’età dei Bizantini e degli Ottomani la via Egnazia continuò parzialmente a funzionare: ad essere percorsa da mercanti, eserciti, viandanti, predicatori, crociati, invasori, esploratori, migranti e fuggiaschi, in entrambe le direzioni. Ma poiché in quel lungo millennio Oriente e Occidente furono quasi sempre contrapposti, da ‘bipolare’ che era stata divenne ‘unipolare’. Il suo traffico, cioè, fluiva e rifluiva sempre partendo dalla capitale. In quei secoli erano le acque salate dell’Adriatico, non quelle dolci dell’Evros, a costituire un confine sensibile.
Gli imperatori cristiani e i padiscià musulmani continuarono quindi a restaurarla e ad utilizzarla. Ma mentre Bisanzio era in declino e la vedeva più come un possibile varco per gli invasori, l’impero ottomano dei secoli d’oro, specie al tempo di Solimano il Magnifico, la considerava una delle due ‘ali’ che dalla capitale permettevano di volare ai due estremi del mondo: più precisamente, l’ala occidentale, quella che la univa ai popoli sottomessi dei Balcani, e che avrebbe portato – si sperava, prima o poi – gli eserciti della mezzaluna a conquistare Vienna.
Il ponte in pietra con 28 archi
L’ho attraversato a piedi (fortunatamente è chiuso al traffico) nella sua ora più luminosa, con un sole a picco di fine agosto reso tollerabile dal vento fresco e vivace che qui soffia costantemente dal Mar Nero.
Così, ancor oggi gli abitanti utilizzano il ponte di Sinan, a preferenza del caotico passaggio automobilistico più a valle, per raggiungere le due parti in cui la cittadina è divisa dalla laguna. Anche l’impiegato in giacca e cravatta che lo percorre a passo veloce, col suo fascicolo gonfio di documenti biancheggianti sotto il braccio, lo sta usando per tornare in ufficio. Mi individua come straniero, forse per via della macchina fotografica, e decide, con la maniere gentili tipiche dei turchi dei piccoli centri, di farmi gli onori di casa. In breve, raggiungiamo assieme il Comune, dove lavora; lì vengo riempito di foto, poster, volumi illustrati su questo bellissimo e poco noto sobborgo di Istanbul.
Quando ci congediamo, riprendo a vagare un po’ stordito dal sole per il porto di Büyükçekmece: sono ormai le tre del pomeriggio e, anche a causa del ramadan, non ho bevuto né mangiato nulla. Dovrei provvedere a rifocillarmi, ma il mio occhio viene attratto dall’ingresso ombroso di una piccola libreria comunale, ancora aperta al pubblico. Decido di entrare lì: spero di trovarvi l’indicazione necessaria per concludere il mio viaggio lungo l’ Egnazia con un’escursione speciale.
Ponti o muri?
Gli Stati o gli imperi in ascesa o all’apice della loro potenza costruiscono strade e ponti, mentre quelli in declino o in pericolo innalzano mura e barriere. E io ho letto da qualche parte che un imperatore bizantino, mentre la pars occidentalis dell’impero romano crollava sotto i colpi delle invasioni, aveva voluto erigere una invalicabile barriera che separasse Costantinopoli dal resto dei Balcani. Non bastavano, no, le possenti e duplici mura teodosiane, che ancor oggi vediamo avvolgere la città. Egli volle dividere, con un vallo lungo 56 km., l’intera penisola alla cui estremità, sulle acque del Bosforo, sorgeva la capitale, dal resto del continente (oggi è detta penisola diÇatalça ). Il problema è che di questo muro quasi nessuno sa o ricorda più nulla. Tutti coloro che avevo interpellato non ne avevano mai sentito parlare, le carte anche dettagliate non ne segnalano i resti, né avevo scorto indicazioni stradali. Eppure, dopo il Vallo di Adriano in Britannia, questo dovette essere il più lungo muro continuo eretto in Europa dall’antica Roma!
Il Vallum Anastasianum ? Mai sentito
Saluto la bibliotecaria ringraziandola anche per due formidabili tè, densi quasi come il miele, che mi hanno dato la forza di proseguire; e mi avvio verso Selimbria. Oggi si chiama Silivri : è un’esplosione di vita, per quanto è movimentata, giovane e popolosa. Dalla sua acropoli si ammira metà del mar di Marmara. Non per nulla i Greci la fondarono ancor prima di Bisanzio. Nessuna traccia del muro, lì: ma, ammirando le sue rive e le sue acque, so già che l’indomani sarò su quelle opposte del Mar Nero.
E così il giorno dopo raggiungo con un amico turco il remoto villaggio di Karacaköy. Qui gli uomini della piazza sanno del muro, e ci danno le indicazioni giuste. Si trova a pochi chilometri, verso il mare. Ci avviamo in auto per un tratto di asfalto angusto e deserto e finalmente, alla nostra sinistra, messa in ombra dalla vegetazione, addirittura dagli alberi che le sono cresciuti sopra, ecco la barriera che doveva salvare Bisanzio. E’ in rovina, le radici delle piante ne fendono qua e là la cortina di pietre rettangolari, ma rivela ancora la sua passata imponenza. La Storia racconta però che ben presto il muro si rivelò inutile agli scopi per cui fu costruito. Gli invasori, alla fine, trovano sempre un punto da cui passare, poiché aspirazione al benessere e declino altrui li facilitano più di quanto le barriere non li ostacolino; e così fu abbandonato. I locali lo smantellarono per erigervi i loro edifici, e nessuno se ne interessò più.
Giunto in vista delle onde fredde e nervose del mar Nero, su cui si rispecchiano le nubi trascinate veloci dal vento, ripenso a tutti ponti, ai tratti di strade, ai passaggi e ai cavalcavia che ho visto in queste settimane di pellegrinaggio lungo l’ Egnazia , e li paragono a quei poveri resti. I secoli, i millenni, finiscono prima o poi col rendere superate e prive di senso le barriere. Ma gli uomini, a qualsiasi civiltà appartengano, ricostruiscono sempre, orgogliosi, i loro ponti e le loro vie. E questo qualcosa vorrà pur dire.
Arrigo VII
L’apertura del sarcofago di Enrico VII a Pisa
http://www.youtube.com/watch?v=PaUjPbUtAKk#t=22
Un tesoro medievale nella tomba di Enrico VII – Oltre a corona, scettro e globo, è tornata alla luce una rara stoffa di oltre tre metri
http://www.unipi.it/index.php/tutte-le-news/item/4198-un-tesoro-medievale-nella-tomba-di-arrigo-vii
Codex Calixtinus
Il Codex Calixtinus (occasionalmente chiamato anche Codex Compostellarum), composto da cinque libri e la cui redazione è databile alla metà del secolo XII, è una delle testimonianze manoscritte più importanti per lo studio della cultura medievale: infatti non solo contiene informazioni dettagliate sulla vita quotidiana dei pellegrini diretti a Santiago di Compostela, sulle vicende di San Giacomo e sul relativo culto, ma documenta anche il più antico repertorio musicale polifonico di area francese. Le sue 226 carte pergamenacee si suddividono in cinque sezioni più un’appendice, aggiunta probabilmente intorno agli anni 1160-’65; è proprio quest’ultima parte del codice a tramandare una ventina di brani polifonici (organa e conductus) molto vicini agli stilemi musicali della Francia del Nord (nonostante utilizzino invece la medesima notazione della Francia meridionale), e dotati dei nomi degli autori – anche in questo caso si tratta di una novità assoluta, per composizioni di tipo polifonico. Il I libro contiene a sua volta brani musicali, ma si tratta di composizioni monodiche (ovvero, scritti per un’unica voce, e quindi eseguiti all’unisono da un piccolo coro); i libri II, III, IV sono dedicati alla vita di San Giacomo, mentre il V costituisce la celebre guida “pratica” per i pellegrini sulla via di Santiago, la più antica a noi nota. Investito presto da una grande popolarità, il Codex venne copiato in moltissimi altri esemplari (oggi ne rimangono circa 300, cifra ragguardevole, trattandosi di testimonianze di più di otto secoli fa), ed il suo testo venne “sezionato” e tramandato tramite innumerevoli estratti, adattamenti ed edizioni ridotte, spesso ancora prima che l’intero manoscritto fosse terminato; il corpus di tutte queste preziose testimonianze è denominato complessivamente Liber Sancti Jacobi, e consta soprattutto di libelli dal formato ridotto, maneggevoli e “pratici”, adatti alle esigenze dei numerosissimi pellegrini che si mettevano in viaggio alla volta di Compostela. Le vicende della transazione delle spoglie di San Giacomo in Galizia e la successiva scoperta della sepoltura ad opera di Carlo Magno ebbero notevole fortuna, ma furono soprattutto i racconti relativi ai miracoli compiuti dal santo a rendere il Codex Calixtinus (o sue determinate sezioni) un vero best-seller del basso Medioevo. Quanto al termine calixtinus, esso deriva dalla lettera, attribuita in passato a papa Callisto II (1119-1129) e presente all’inizio del manoscritto, che il pontefice avrebbe inviato ai monaci benedettini di Cluny dichiarandosi responsabile dell’esecuzione del codice e raccomandandone la lettura; tuttavia, si è ormai da tempo accertato che il copista (molto probabilmente si trattò di uno solo, di provenienza franca ma temporaneamente residente a Santiago) non fu il papa, ma un compilatore a tutt’oggi rimasto anonimo. Ma fu lo stesso copista ad alimentare la convinzione che il codice fosse opera di papa Callisto, affermandolo in una sorta di dichiarazione autografa sugli obiettivi del suo lavoro, compresa nello stesso manoscritto e “corroborata”, nelle carte finali, da un ulteriore documento in cui Innocenzo III (1130-1143) ribadisce la paternità calistina del Codex.
Le composizioni musicali di tipo polifonico sono costituite soprattutto da conductus; talvolta è presente anche un ritornello, dotato di intonazione musicale differente da quella della strofa. Grande è il legame con le melodie gregoriane: mentre infatti quasi tutti i brani polifonici di provenienza aquitana (quindi attinenti alla parte meridionale della Francia) venivano composti interamente ex novo, nel caso del Calixtinus gli autori si basavano sulla melodia gregoriana, sulla quale imponevano la seconda voce; inoltre, la monodia “tradizionale” interrompeva la composizione polifonica in modo da creare alternanza tra esecuzione a più voci ed esecuzione all’unisono. Tutto questo era assente nella prassi compositiva aquitana, gravitante soprattutto (ma non esclusivamente) intorno al centro di San Marziale: anche i brani polifonici a noi noti provenienti da quest’area geografica (circa 70, tutti a due voci) si organizzano nella struttura del conductus, ma vengono denominati versus, e nascono quasi esclusivamente per un contesto paraliturgico e devozionale, e non liturgico in senso stretto – ecco quindi la preferenza per l’argomento natalizio o mariano, ed il forte legame con le manifestazioni processionali. Al contrario, le consuetudini musicali documentate dal Calixtinus denotano il forte legame dei brani polifonici con la liturgia di Messa e Ufficio, già da tempo accompagnata da composizioni monodiche tratte dal repertorio gregoriano, ma che ora, con la polifonia, si arricchivano di uno splendore sonoro tutto particolare – oltre ovviamente a costituire una pietra miliare per l’evoluzione dell’arte musicale in Occidente. Come si è detto, si parla di brani tutti a due voci, ma in un caso – più precisamente, per il famoso Congaudeant Catholici – sussiste l’ipotesi che esso sia il primo esempio noto di polifonia a tre voci: sul tetragramma sono riportate infatti tre linee melodiche, due vergate in inchiostro nero ed una in rosso; tuttavia, se si trattasse davvero dell’esecuzione simultanea di tutte e tre le melodie si realizzerebbero scontri dissonanti “sospetti” per l’epoca, invece assenti se si procede all’esecuzione di due melodie per volta (la più grave nera con la mediana rossa, oppure le due in nero). D’altra parte, l’esecuzione di forti dissonanze in polifonia era prassi consolidata già intorno alla metà del 1100, sia in quella a due voci sia nell’unico altro brano (sicuramente) a tre voci databile al secolo XII, ovvero il Verbum Patris umanatur tràdito dal Cambridge Songbook: anche qui le dissonanze sono forti, ma inequivocabili, visto che la notazione utilizzata è uniforme e l’inchiostro per le diverse parti melodiche è il medesimo. Riassumendo: anche se non ve n’è la certezza, il Codex Calixtinus potrebbe dimostrarsi “pionieristico” anche sul lato dell’organico polifonico, contenendo una probabile composizione a tre voci, la più antica conosciuta, che ad ogni modo non sarebbe un esempio del tutto isolato, vista l’esistenza di un brano analogo nel repertorio inglese.
Questo è un mio articolo inerente a una parte specifica del Codex Calixtinus
IL CAMMINO DI SANTIAGO – LA GUIDA DEL PELLEGRINO
http://www.instoria.it/
Via Francigena
La carta georeferenziata della Regione Toscana
http://www306.regione.toscana.it/mappe/index_francigena.html?area=francigena_multi_cluster