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Il costo delle riproduzioni con mezzi propri

La gabella (da abolire) che pesa sugli studiosiCorriere della sera, 5 nov 2014

Il punto della situazione sul blog FOTOGRAFIE LIBERE PER I BENI CULTURALI

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L’ARTBONUS, GLI ARCHIVI E LE BIBLIOTECHE

Il sogno infranto delle libere riproduzioni

A Londra e Parigi gli studiosi possono riprodurre i documenti con mezzi propri, in Italia ancora no. Il danno per la libera ricerca è gravissimo

La nuova norma introdotta dal decreto ArtBonus, che prevede la liberalizzazione delle riproduzioni nei musei, sarà pure una novità interessante per le migliaia di turisti che potranno ora sbizzarrirsi con le foto ricordo, ma per la realtà della ricerca rappresenta purtroppo una delle tante occasioni perse che oggi faremmo volentieri a meno di collezionare. Ce ne accorgiamo subito se confrontiamo il testo definitivo della legge con quello, davvero rivoluzionario, del decreto nella sua formulazione originaria che liberalizzava la riproduzione per finalità di studio dell’intero universo dei beni culturali, compreso dunque quel materiale documentario conservato negli archivi e nelle biblioteche, che invece un emendamento della Camera dei Deputati ha deciso di escludere, stroncando l’iniziale entusiasmo dei ricercatori. Il decreto ArtBonus, entrato in vigore il primo giugno, nel rendere libere e gratuite le riproduzioni tramite mezzo proprio aveva garantito un notevole risparmio, in termini di tempo e denaro, a tutti quei ricercatori e professionisti dei beni culturali che, nonostante le difficoltà economiche e le incertezze lavorative ancora svolgono attività di ricerca e valorizzazione di beni culturali. Si poneva fine a un vero e proprio commercio delle riproduzioni sulle spalle dei ricercatori: prima dell’entrata in vigore del decreto alcuni istituti consentivano l’uso della propria fotocamera dietro pagamento di un canone (che poteva giungere sino ai 2 euro a scatto), altri negavano invece tassativamente il ricorso al mezzo proprio per garantire il massimo del profitto alle ditte private cui era stato concesso l’appalto del servizio di riproduzione in esclusiva, secondo un regime di concessione introdotto dalla legge Ronchey nel 1993. Il sogno è stato, purtroppo, di assai breve durata: il 9 luglio, a poco più di un mese dall’entrata in vigore della liberalizzazione, nell’iter di conversione del decreto in legge, la Camera dei Deputati ha approvato un emendamento restrittivo che esclude i «beni archivistici e bibliografici» dal novero dei beni culturali liberamente riproducibili. La legge ora approvata in Senato ha frustrato le speranze di tutti quegli studiosi che a gran voce ma invano avevano richiesto di ripristinare il testo originario. Con un passo in avanti per i turisti (le foto nei musei) e due indietro per i ricercatori che frequentano archivi e biblioteche, come se nulla fosse, si è così ritornati al regime precedente. Prima ancora che sulle responsabilità amministrative e politiche di questo emendamento, è bene qui riflettere sulle sue deboli ragioni di fondo sul piano che fanno riferimento all’interpretazione del testo normativo e ad argomenti di tipo economico. L’emendamento è stato giustificato anzitutto con un abile cavillo giuridico: dal momento che la norma permette la libera riproduzione a condizione che non si determini un contatto fisico con il bene, è stato facile escludere manoscritti e documenti che richiedono di essere maneggiati e sfogliati per essere riprodotti, a differenza delle opere esposte nei musei. In realtà l’intento del decreto originario era ben diverso. Esso non intendeva tanto creare distinzioni tra le categorie di beni culturali, quanto piuttosto tra le tecniche di riproduzione, da un lato ammettendo le fotografie a distanza dall’altro escludendo scansioni, fotocopie o comunque quei mezzi che avrebbero comportato inevitabilmente un contatto con il bene, e dunque una sua potenziale usura. Un discrimine perciò meramente tecnologico, già presente nell’art. 107 del Codice dei Beni culturali che vieta espressamente le tecniche di riproduzione per contatto, e che è stato ribadito da un’autorevole mozione del Consiglio superiore del Mibact del 15 luglio che conferma l’estensione della liberalizzazione a tutti i beni culturali al di là di ogni possibile distorsione interpretativa che, come in questo caso, appare null’altro che un pretesto per escludere i beni archivistici e bibliografici.
La seconda motivazione alla base dell’emendamento è invece squisitamente economica: i proventi derivanti dall’appalto alle ditte private di fotoriproduzione sarebbero l’unico cespite non pubblico per il sostentamento degli archivi.
In realtà proprio per prevenire simili obiezioni il parere espresso sul decreto dalla Commissione Bilancio della Camera è stato netto: «L’ampliamento delle ipotesi di mancata corresponsione del canone (…) non determinerà effetti apprezzabili rispetto ai flussi di entrate attesi dalle amministrazioni concedenti».
A ben guardare il sistema dell’outsourcing nasce per gestire i cosiddetti servizi aggiuntivi, come bookshop o caffetterie, e dotare gli istituti di quelle competenze professionali di cui sono sprovvisti. Siffatta delega diventa però del tutto superflua, e anzi un vero ostacolo per la ricerca, se lo stesso servizio risulta invece gestibile in perfetta autonomia dagli utenti grazie al mezzo digitale che, rispetto alla tecnologia analogica, ha reso la fotografia finalmente alla portata di tutti con enormi vantaggi sia per la ricerca che per la conservazione: anche se gli scatti realizzati durante la consultazione delle fonti non saranno degni di un Cartier-Bresson, avranno almeno il pregio di permettere una semplice trascrizione dei documenti senza dover tornare sull’originale. Per non parlare dei dubbi di legittimità sollevati dal sistema delle concessioni applicato alle riproduzioni: l’art. 108 del Codice stabilisce infatti una gratuità delle riproduzioni a scopo di studio che però sinora non s’è mai riscontrata. Al massimo è previsto un rimborso spese a carico del richiedente nel caso in cui sia l’amministrazione a farsi carico della riproduzione, vale a dire l’esatto contrario di quanto accade oggi con il sistema dell’appalto a ditte private specializzate, che è divenuto un mezzo per generare nuovi introiti. Le ditte di riproduzione offrono comunque un servizio altamente qualificato per produrre, su richiesta, immagini di alta qualità ideali per le pubblicazioni più raffinate, che è giusto che si affianchi, ma senza sostituirsi, come oggi avviene, alla libera riproduzione con mezzo proprio.
Vi è il forte sospetto che dietro a simili motivazioni se ne celino altre più subdole, in particolare l’idea inconfessata che la proliferazione delle copie dei documenti, senza i limiti imposti da un tariffario che ne scoraggi la riproduzione, svilisca l’unicità dell’originale. In quest’ottica archivi e biblioteche rischiano di somigliare alle collezioni dei principi dell’evo moderno che limitavano o proibivano il disegno dei loro cimeli per imporne l’unicità. Sono tracce di una concezione proprietaria e patrimoniale dei beni culturali, che è l’esatto opposto della moderna nozione democratica di bene pubblico da cui è urgente invece oggi ripartire. La missione delle biblioteche e degli archivi è infatti sì quella di conservare, ma anche di garantire, agevolando le libere riproduzioni, la massima fruibilità dei documenti e dei loro contenuti a tutti quegli studiosi che, attraverso la ricerca, restituiscono un valore al materiale documentario, e quindi un senso alla loro stessa conservazione. È questo che indica il combinato degli artt. 9 e 33 della Costituzione. La carenza di risorse per gli archivi rimane un problema oggettivo che impone una riflessione attenta, ma la scelta di far gravare la spesa di gestione degli archivi sugli studiosi è un danno inaccettabile per chi ancora oggi si ostina a percorrere la strada impervia della ricerca storica. Vi è stato persino chi è s’è visto costretto a modificare il proprio progetto di tesi di laurea o di dottorato per i costi insostenibili richiesti dalla riproduzione del materiale documentario. La piena libertà della ricerca non è un lusso, ma un principio costituzionale sul quale non si può scendere a compromessi. È perciò auspicabile che la politica si ravveda e rivaluti le potenzialità della libera riproduzione, già intraviste nella prima formulazione dell’ArtBonus, come volàno per la ricerca storica, e rimuova così l’emendamento allineandosi alla prassi degli archivi nazionali di Parigi e Londra, dove la libera fotografia con mezzo proprio è già da tempo realtà.

di Mirco Modolo

fonte Il Giornale dell’Arte numero 345, settembre 2014

 

Il Sogno Infranto Delle Libere Riproduzioni in PDF


 

Codice dei beni culturali e del paesaggio

Articolo 108
Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione

1. I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto:
a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso;
b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni;
c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni;
d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonche’ dei benefici economici che ne derivano al richiedente.

2. I canoni e i corrispettivi sono corrisposti, di regola, in via anticipata.

3. Nessun canone e’ dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici per finalità di valorizzazione. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente.

4. Nei casi in cui dall’attività in concessione possa derivare un pregiudizio ai beni culturali, l’autorità che ha in consegna i beni determina l’importo della cauzione, costituita anche mediante fideiussione bancaria o assicurativa. Per gli stessi motivi, la cauzione e’ dovuta anche nei casi di esenzione dal pagamento dei canoni e corrispettivi.

5. La cauzione e’ restituita quando sia stato accertato che i beni in concessione non hanno subito danni e le spese sostenute sono state rimborsate.

6. Gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell’amministrazione concedente.


Costituzione italiana

Art. 9

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

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(segue discussione)

(altro…)

Radici

Un medioevo aperto al mondo

di Massimo Montanari.

Estratto dall’intervento al convengo “La storia è di tutti. Nuovi orizzonti e buone pratiche nell’insegnamento della storia” Modena 5 – 10 settembre 2005

La domanda da porre a questo punto è molto semplice: dove abita l’identità? Nel passato o nel presente? Laggiù o quassù? La risposta è molto chiara: l’identità è qui, l’identità siamo noi, così come la storia ci ha costruiti. Eppure, un diffuso equivoco vuole che l’identità sia qualcosa da cercare, da trovare, da conservare: che abiti in fondo alla storia, là dove si ritrovano le nostre “radici”.
Le radici: altra parola equivoca, altro concetto pericoloso. Anche qui, la mia domanda è semplice: come sono fatte, quale forma hanno le radici? Da come spesso se ne parla, sembrerebbero fatte a forma di carota: il vertice in fondo sarebbe il punto da ritrovare, il luogo mitico delle nostre origini. Ma le radici sono fatte al contrario: scendendo in profondità si allargano. Più scendiamo nel terreno, più le radici si allargano. E si badi: la pianta, più le radici sono ampie, più è forte e duratura.
Allora, se proprio vogliamo giocare al gioco delle radici, io propongo di farlo seriamente e fino in fondo, di utilizzare fino in fondo la metafora (perché una metafora è sempre specchio della realtà che rappresenta). Cerchiamo le nostre radici? Benissimo. Più cerchiamo, più ci allontaniamo da noi. Più cerchiamo, più troviamo il mondo. Esattamente il contrario di quanto propongono certi mistificatori del gioco.

(…)
Intendo dire che identità e radici (concetti che spesso, ma abusivamente, tendiamo ad assimilare e a confondere) non sono la stessa cosa, anzi, sono cose lontanissime fra loro. Le radici sono là in fondo, l’identità è qui. Le radici sono la storia, l’identità siamo noi. Le radici, cioè le origini, di per sé non spiegano nulla: servono solo a rendersi conto di quanto siano complicati e contorti i fili della vicenda storica. Lo aveva sottolineato con forza Marc Bloch, quando, nel suo aureo libretto di riflessione sul mestiere di storico, intitolato “Apologia della storia”, metteva in guardia lo storico dal “mito delle origini”, che non sono le cause, e allo storico, in fondo, non interessano più di tanto.

APPROFONDIMENTI BIBLIOGRAFICI:
M. Montanari, Storia medievale, Roma-Bari, Laterza, 2000.
M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1993.
M. Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2004.

Santa Wilgefortis

Santa WilgefortisLa statua di Santa Wilgefortis nella Chiesa di Wissages, Pas-de-Calais, Francia

La storia di sant Wilgefortis fu raccontata per la prima volta dal Martirologio Romano del 1586, secondo il quale sarebbe stata la figlia di un re del Portogallo vissuto nell’VIII secolo. Convertita al cristianesimo  progettava di dedicare la sua esistenza a Dio ma il padre la voleva maritare con il re di Sicilia. Messa davanti al fatto compiuto Wilgefortis si disperò, supplicò e pianse ma non ci fu nulla da fare. Dopo qualche settimana il promesso sposo giunse per nave al porto di Lisbona e le nozze furono fissate di lì a qualche giorno. La principessa trascorse la vigilia in continua preghiera, implorando Dio di salvarla da quel matrimonio. La mattina delle nozze sul viso della ragazza era comparso una folta barba. Quando il re di Sicilia la vide rifiutò il matrimonio e se ne andò. Il re del Portogallo, furente, chiese spiegazioni alla figlia che rivelò l’intervento divino. Il genitore, pagano, rispose che se non poteva disporre della figlia nessun altro avrebbe potuto farlo e ordinò che fosse messa a morte come il suo Dio.

Omelia per la Celebrazione della Passione, 18 aprile 2014

Autun, Cathédrale de Saint Lazare, Impiccagione di Giuda, Gislebertus, 1120

 

Celebrazione della Passione del Signore nella Basilica Vaticana, 18 aprile 2014

Omelia di p. Raniero Cantalamessa

Predicatore della Casa Pontificia, O.F.M.

Dentro la storia divino-umana della passione di Gesù ci sono tante piccole storie di uomini e di donne entrati nel raggio della sua luce o della sua ombra. La più tragica di esse è quella di Giuda Iscariota. È uno dei pochi fatti attestati, con uguale rilievo, da tutti e quattro i vangeli e dal resto del Nuovo Testamento. La primitiva comunità cristiana ha molto riflettuto sulla vicenda e noi faremmo male a non fare altrettanto. Essa ha tanto da dirci.

Giuda fu scelto fin dalla prima ora per essere uno dei dodici. Nell’inserire il suo nome nella lista degli apostoli l’evangelista Luca scrive «Giuda Iscariota che divenne (egeneto) il traditore» (6, 16). Dunque Giuda non era nato traditore e non lo era al momento di essere scelto da Gesù; lo divenne! Siamo davanti a uno dei drammi più foschi della libertà umana.

Perché lo divenne? In anni non lontani, quando era di moda la tesi del Gesù «rivoluzionario», si è cercato di dare al suo gesto delle motivazioni ideali. Qualcuno ha visto nel suo soprannome di «Iscariota» una deformazione di «sicariota», cioè appartenente al gruppo di zeloti estremisti che agivano da «sicari» contro i romani; altri hanno pensato che Giuda fosse deluso dal modo con cui Gesù portava avanti la sua idea del «regno di Dio» e che volesse forzargli la mano ad agire anche sul piano politico contro i pagani. È il Giuda del celebre musical Jesus Christ Superstar e di altri spettacoli e romanzi recenti. Un Giuda che si avvicina a un altro celebre traditore del proprio benefattore: Bruto che uccise Giulio Cesare per salvare la Repubblica!

Sono ricostruzioni da rispettare quando rivestono qualche dignità letteraria o artistica, ma non hanno alcun fondamento storico. I vangeli — le uniche fonti attendibili che abbiamo sul personaggio — parlano di un motivo molto più terra terra: il denaro. A Giuda era stata affidata la borsa comune del gruppo; in occasione dell’unzione di Betania aveva protestato contro lo spreco del profumo prezioso versato da Maria sui piedi di Gesù, non perché gli importasse dei poveri, fa notare Giovanni, ma perché «era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (12, 6). La sua proposta ai capi dei sacerdoti è esplicita: «Quanto siete disposti a darmi, se io ve lo consegno? Ed essi gli fissarono trenta sicli d’argento» (Matteo, 26, 15).

Ma perché meravigliarsi di questa spiegazione e trovarla troppo banale? Non è stato forse quasi sempre così nella storia e non è ancora oggi così? Mammona, il denaro, non è uno dei tanti idoli; è l’idolo per antonomasia; letteralmente, «l’idolo di metallo fuso» (cfr. Esodo, 34, 17). E si capisce il perché. Chi è, oggettivamente, se non soggettivamente (cioè nei fatti, non nelle intenzioni), il vero nemico, il concorrente di Dio, in questo mondo? Satana? Ma nessun uomo decide di servire, senza motivo, Satana. Se lo fa, è perché crede di ottenere da lui qualche potere o qualche beneficio temporale. Chi è, nei fatti, l’altro padrone, l’anti-Dio, ce lo dice chiaramente Gesù: «Nessuno può servire a due padroni: non potete servire a Dio e a Mammona» (Matteo, 6, 24). Il denaro è il «dio visibile» (W. Shakespeare, Timone d’Atene, atto iv, sc. 3.), a differenza del Dio vero che è invisibile.

Mammona è l’anti-dio perché crea un universo spirituale alternativo, cambia oggetto alle virtù teologali. Fede, speranza e carità non vengono più riposte in Dio, ma nel denaro. Si attua una sinistra inversione di tutti i valori. «Tutto è possibile a chi crede», dice la Scrittura (Marco, 9, 23); ma il mondo dice: «Tutto è possibile a chi ha il denaro». E, a un certo livello, tutti i fatti sembrano dargli ragione.

«L’attaccamento al denaro — dice la Scrittura — è la radice di tutti i mali» (1 Timoteo, 6, 10). Dietro ogni male della nostra società c’è il denaro, o almeno c’è anche il denaro. Esso è il Moloch di biblica memoria, a cui venivano immolati giovani e fanciulle (cfr. Geremia, 32, 35), o il dio Azteco, cui bisognava offrire quotidianamente un certo numero di cuori umani. Cosa c’è dietro il commercio della droga che distrugge tante vite umane, lo sfruttamento della prostituzione, il fenomeno delle varie mafie, la corruzione politica, la fabbricazione e il commercio delle armi, e perfino — cosa orribile a dirsi — alla vendita di organi umani tolti a dei bambini? E la crisi finanziaria che il mondo ha attraversato e che questo Paese sta ancora attraversando, non è dovuta in buona parte all’«esecranda bramosia di denaro», l’auri sacra fames, (Virgilio, Eneide, 3. 56-57) da parte di pochi? Giuda cominciò con sottrarre qualche denaro dalla cassa comune. Dice niente questo a certi amministratori del denaro pubblico?

Ma senza pensare a questi modi criminali di accumulare denaro, non è già scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze e che alzino la voce appena si profila l’eventualità di dover rinunciare a qualcosa, in vista di una maggiore giustizia sociale?

Negli anni Settanta e Ottanta, per spiegare, in Italia, gli improvvisi rovesciamenti politici, i giochi occulti di potere, il terrorismo e i misteri di ogni genere da cui era afflitta la convivenza civile, si andò affermando l’idea, quasi mitica, dell’esistenza di un «grande Vecchio»: un personaggio scaltrissimo e potente che da dietro le quinte avrebbe mosso le fila di tutto, per fini a lui solo noti. Questo «grande Vecchio» esiste davvero, non è un mito; si chiama Denaro!

Come tutti gli idoli, il denaro è «falso e bugiardo»: promette la sicurezza e invece la toglie; promette libertà e invece la distrugge. San Francesco d’Assisi descrive, con una severità insolita, la fine di una persona vissuta solo per aumentare il suo «capitale». Si avvicina la morte; si fa venire il sacerdote. Questi chiede al moribondo: «Vuoi il perdono di tutti i tuoi peccati?», e lui risponde di sì. E il sacerdote: «Sei pronto a soddisfare ai torti commessi, restituendo le cose che hai frodato ad altri?». Ed egli: «Non posso». «Perché non puoi?». «Perché ho già lasciato tutto nelle mani dei miei parenti e amici». E così egli muore impenitente e appena morto i parenti e gli amici dicono tra loro: «Maledetta l’anima sua! Poteva guadagnare di più e lasciarcelo, e non l’ha fatto!» (cfr. San Francesco, Lettera a tutti i fedeli 12, Fonti Francescane, 205).

Quante volte, di questi tempi, abbiamo dovuto ripensare a quel grido rivolto da Gesù al ricco della parabola che aveva ammassato beni a non finire e si sentiva al sicuro per il resto della vita: «Stolto, questa notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?» (Luca,12, 20)!». Uomini collocati in posti di responsabilità che non sapevano più in quale banca o paradiso fiscale ammassare i proventi della loro corruzione si sono ritrovati sul banco degli imputati, o nella cella di una prigione, proprio quando stavano per dire a se stessi: «Ora godi, anima mia». Per chi l’hanno fatto? Ne valeva la pena? Hanno fatto davvero il bene dei figli e della famiglia, o del partito, se è questo che cercavano? O non hanno piuttosto rovinato se stessi e gli altri? Il dio denaro si incarica di punire lui stesso i suoi adoratori.

Il tradimento di Giuda continua nella storia e il tradito è sempre lui, Gesù. Giuda vendette il capo, i suoi seguaci vendono il suo corpo, perché i poveri sono membra di Cristo. «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo, 25, 40). Ma il tradimento di Giuda non continua solo nei casi clamorosi che ho evocato. Sarebbe comodo per noi pensarlo, ma non è così. È rimasta famosa l’omelia che tenne un Giovedì santo don Primo Mazzolari su «Nostro fratello Giuda». «Lasciate — diceva ai pochi parrocchiani che aveva davanti — che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro».

Si può tradire Gesù anche per altri generi di ricompensa che non siano i trenta denari. Tradisce Cristo chi tradisce la propria moglie o il proprio marito. Tradisce Gesù il ministro di Dio infedele al suo stato, o che invece di pascere il gregge pasce se stesso. Tradisce Gesù chiunque tradisce la propria coscienza. Posso tradirlo anch’io, in questo momento — e la cosa mi fa tremare — se mentre predico su Giuda mi preoccupo dell’approvazione dell’uditorio più che di partecipare all’immensa pena del Salvatore. Giuda aveva un’attenuante che noi non abbiamo. Egli non sapeva chi era Gesù, lo riteneva solo «un uomo giusto»; non sapeva che era il Figlio di Dio, noi sì.

Come ogni anno, nell’imminenza della Pasqua, ho voluto riascoltare la Passione secondo San Matteo di Bach. C’è un dettaglio che ogni volta mi fa trasalire. All’annuncio del tradimento di Giuda, lì tutti gli apostoli domandano a Gesù: «Sono forse io, Signore?» «Herr, bin ich’s?». Prima però di farci ascoltare la risposta di Cristo, annullando ogni distanza tra l’evento e la sua commemorazione, il compositore inserisce un corale che inizia così: «Sono io, sono io il traditore! Io devo fare penitenza!», «Ich bin’s, ich sollte büßen». Come tutti i corali di quell’opera, esso esprime i sentimenti del popolo che ascolta; è un invito a fare anche noi la nostra confessione di peccato.

Il vangelo descrive la fine orrenda di Giuda: «Giuda, che l’aveva tradito, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì, e riportò i trenta sicli d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: Ho peccato, consegnandovi sangue innocente. Ma essi dissero: Che c’importa? Pensaci tu. Ed egli, buttati i sicli nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi» (Matteo, 27, 3-5). Ma non diamo un giudizio affrettato. Gesú non ha mai abbandonato Giuda e nessuno sa dove egli è caduto nel momento in cui si è lanciato dall’albero con la corda al collo: se nelle mani di Satana o in quelle di Dio. Chi può dire cosa è passato nella sua anima in quegli ultimi istanti? «Amico», era stata l’ultima parola rivoltagli da Gesù nell’orto ed egli non poteva averla dimenticata, come non poteva aver dimenticato il suo sguardo.

È vero che, parlando al Padre dei suoi discepoli, Gesú aveva detto di Giuda: «Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione» (Giovanni, 17, 12), ma qui, come in tanti altri casi, egli parla nella prospettiva del tempo non dell’eternità. Anche l’altra parola tremenda detta di Giuda: «Meglio sarebbe per quell’uomo se non fosse mai nato» (Marco, 14, 21) si spiega con l’enormità del fatto, senza bisogno di pensare a un fallimento eterno. Il destino eterno della creatura è un segreto inviolabile di Dio. La Chiesa ci assicura che un uomo o una donna proclamati santi sono nella beatitudine eterna; ma di nessuno essa stessa sa che è certamente all’inferno.

Dante Alighieri, che, nella Divina Commedia, colloca Giuda nel profondo dell’inferno, narra della conversione all’ultimo istante di Manfredi, figlio di Federico ii e re di Sicilia, che tutti a suo tempo ritenevano dannato perché morto scomunicato. Ferito a morte in battaglia, egli confida al poeta che, nell’ultimo istante di vita, si arrese piangendo a colui «che volentier perdona» e dal Purgatorio manda sulla terra questo messaggio che vale anche per noi: «Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei» (Purgatorio, III, 118-123).

Ecco a cosa deve spingerci la storia del nostro fratello Giuda: ad arrenderci a colui che volentieri perdona, a gettarci anche noi tra le braccia aperte del crocifisso. La cosa più grande nella vicenda di Giuda non è il suo tradimento, ma la risposta che Gesú dà a esso. Egli sapeva bene cosa stava maturando nel cuore del suo discepolo; ma non lo espone, vuole dargli la possibilità fino all’ultimo di tornare indietro, quasi lo protegge. Sa perché è venuto, ma non rifiuta, nell’orto degli ulivi, il suo bacio di gelo e anzi lo chiama amico (Matteo, 26, 50). Come cercò il volto di Pietro dopo il rinnegamento per dargli il suo perdono, chissà come avrà cercato anche quello di Giuda in qualche svolta della sua via crucis! Quando dalla croce prega: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Luca, 23, 34), non esclude certamente da essi Giuda.

Che faremo dunque noi? Chi seguiremo, Giuda o Pietro? Pietro ebbe rimorso di quello che aveva fatto, ma anche Giuda ebbe rimorso, tanto che gridò: «Ho tradito sangue innocente!» e restituì i trenta denari. Dov’è allora la differenza? In una cosa sola: Pietro ebbe fiducia nella misericordia di Cristo, Giuda no! Il più grande peccato di Giuda non fu aver tradito Gesú, ma aver dubitato della sua misericordia.

Se lo abbiamo imitato, chi più chi meno, nel tradimento, non lo imitiamo in questa sua mancanza di fiducia nel perdono. Esiste un sacramento nel quale è possibile fare una esperienza sicura della misericordia di Cristo: il sacramento della riconciliazione. Quanto è bello questo sacramento! È dolce sperimentare Gesù come maestro, come Signore, ma ancora più dolce sperimentarlo come Redentore: come colui che ti tira fuori dal baratro, come Pietro dal mare, che ti tocca, come fece con il lebbroso, e ti dice: «Lo voglio, sii guarito!» (Matteo, 8, 3).

La confessione ci permette di sperimentare su di noi quello che la Chiesa dice del peccato di Adamo nell’Exultet pasquale: «O felice colpa che ci ha meritato un tale Redentore!». Gesù sa fare di tutte le colpe umane, una volta che ci siamo pentiti, delle «felici colpe», delle colpe che non si ricordano più se non per l’esperienza di misericordia e di tenerezza divina di cui sono state occasione!

Ho un augurio da fare a me e a tutti voi, venerabili padri, fratelli e sorelle: che il mattino di Pasqua possiamo destarci e sentire risuonare nel nostro cuore le parole di un grande convertito del nostro tempo, il poeta e drammaturgo Paul Claudel:

«Mio Dio, sono risuscitato e sono ancora con Te! Dormivo ed ero steso come un morto nella notte. Hai detto: “Sia la luce!” E io mi sono svegliato come si getta un grido! […] Padre mio che mi hai generato prima dell’Aurora, sono alla tua presenza. Il mio cuore è libero e la bocca mondata, corpo e spirito sono a digiuno. Sono assolto di tutti i peccati, che ho confessati uno ad uno. L’anello nuziale è al mio dito e il mio volto è pulito. Sono come un essere innocente nella grazia che mi hai concessa» (P. Claudel, Prière pour le Dimanche matin, in Œuvres poétiques, Gallimard, Paris, 1967, p. 377).

Questo può fare di noi la Pasqua di Cristo.

Pellicano

Amiens – BM – ms. 0399 f. 147

Bartholomaeus Anglicus, Livre des propriétés des choses, 1447

“Pelicano è uno uccello in Egitto di cui li Egiziani dicono che li figliuoli tradiscono i padri, e fediscondo con l’ali per mezzo il volto, ov’egli se ne crucia in tal maniera ch’elli gli uccide, e quando la madre li vede morti sì li piange tre dì, tanto ch’alla fine si fiede nel costato col becco, tanto che ne fa uscire molto sangue, e fallo cadere sopra agli occhi de’suoi figliuoli, tanto che per lo calore di quel sangue risuscitano e tornano in vita. Ma altri sono che dicono che nascono quasi senza vita, e il padre li guarisce col suo sangue in tal maniera ch’egli non muore”.

Brunetto Latini, Il tresor, lib. 4 cap. 3

 

Cristo Portacroce

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Hieronymus Bosch, Cristo portacroce, 1510-1516

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Questa non è solo una raffigurazione della passione ma un saggio su base fisiognomica dell’iconografia del maligno.

http://www.hieronymus-bosch.org/Christ-Carrying-the-Cross-1515-16.html

L’Occidente e l’idea di nemico

L’Occidente e l’idea di nemico — Fondazione Roberto Franceschi ONLUS

Rotondità della terra

Rotondité de la terre, Recueil d’astronomie et de mathématiques, XVe siècle. Lyon – BM – ms. 172, f. 5

La leggenda della terra piatta

di Umberto Eco

Una interpretazione che trova le sue radici nelle polemiche positivistiche ottocentesche, vuole che il Medioevo abbia rimosso tutte le scoperte scientifiche dell’antichità classica per non contraddire la lettera delle sacre scritture. È vero che alcuni autori patristici hanno cercato di dare una lettura assolutamente letterale della Scrittura là dove essa dice che il mondo è fatto come un tabernacolo. Per esempio nel IV secolo Lattanzio (nel suo Institutiones divinae), su queste basi si opponeva alle teorie pagane della rotondità della terra, anche perché non poteva accettare l’idea che esistessero degli Antipodi dove gli uomini avrebbero dovuto camminare con la testa all’ingiù.
E idee analoghe aveva sostenuto Cosma Indicopleuste, un geografo bizantino del VI secolo, che nella sua Topografia Cristiana, sempre pensando al tabernacolo biblico, aveva accuratamente descritto un cosmo di forma cubica, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra.

Ora, che la terra fosse sferica, tranne alcuni presocratici, lo sapevano già i greci, sin dai tempi di Pitagora, che la riteneva sferica per ragioni mistico-matematiche. Lo sapeva naturalmente Tolomeo, che aveva diviso il globo, ma lo avevano già capito Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, e naturalmente Eratostene, che nel terzo secolo avanti Cristo aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre.

Tuttavia si è sostenuto (anche da parte di seri storici della scienza) che il Medioevo aveva dimenticato questa nozione antica, e l’idea si è fatta strada anche presso l’uomo comune, tanto è vero che ancora oggi, se domandiamo a una persona anche colta che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il levante per il ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare, la risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la terra fosse piatta e che dopo un breve tratto le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l’abisso cosmico.

In verità a Lattanzio nessuno aveva prestato troppa attenzione, a cominciare da Sant’Agostino il quale lascia capire per vari accenni di ritenere la terra sferica, anche se la questione non gli sembrava spiritualmente molto rilevante. Caso mai Agostino manifestava seri dubbi sulla possibilità che potessero vivere esseri umani ai presunti antipodi. Ma che si discutesse sugli antipodi è segno che si stava discutendo su un modello di terra sferica.
Quanto a Cosma, il suo libro era scritto in greco, una lingua che il medioevo cristiano aveva dimenticato, ed è stato tradotto in latino solo nel 1706. Nessun autore medievale lo conosceva.

Nel VII secolo dopo Cristo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di acribìa scientifica) calcolava la lunghezza dell’equatore in ottantamila stadi. Chi parla di circolo equatoriale evidentemente assume che la terra sia sferica.

Anche uno studente di liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell’imbuto infernale ed esce dall’altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sapeva benissimo che la terra era sferica, e che scriveva per lettori che lo sapevano. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Beda, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni. La materia del contendere ai tempi di Colombo era che i dotti di Salamanca avevano fatto calcoli più precisi dei suoi, e ritenevano che la terra, tondissima, fosse più ampia di quanto il nostro genovese credesse, e che quindi fosse insensato cercare di circumnavigarla. Naturalmente né Colombo né i dotti di Salamanca sospettavano che tra l’Europa e l’Asia stesse un altro continente.

Tuttavia proprio nei manoscritti di Isidoro appariva la cosiddetta mappa a t, dove la parte superiore rappresenta l’Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall’altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l’Europa e quello a destra l’Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell’Oceano. Naturalmente le mappe a t sono bidimensionali, ma non è detto che una rappresentazione bidimensionale della terra implichi che la si ritenga piatta, altrimenti a una terra piatta crederebbero anche i nostri atlanti attuali. Si trattava di una forma convenzionale di proiezione cartografica, e si riteneva inutile rappresentare l’altra faccia del globo, ignota a tutti e probabilmente inabitata e inabitabile, così come noi oggi non rappresentiamo l’altra faccia della Luna, di cui non sappiano nulla.
Infine, il Medioevo era epoca di grandi viaggi ma, con le strade in disfacimento, foreste da attraversare e bracci di mare da superare fidandosi di qualche scafista dell’epoca, non c’era possibilità di tracciare mappe adeguate. Esse erano puramente indicative. Spesso quello che preoccupava maggiormente l’autore non era di spiegare come si arriva a Gerusalemme, bensì di rappresentare Gerusalemme al centro della terra.

Infine si cerchi di pensare alla mappa delle linee ferroviarie che propone un qualsiasi orario in vendita nelle edicole. Nessuno da quella serie di nodi, in sè chiarissimi se si deve prendere un treno da Milano a Livorno (e apprendere che si dovrà passare per Genova), potrebbe estrapolare con esattezza la forma dell’Italia. La forma esatta dell’Italia non interessa a chi deve andare alla stazione (…).

Si veda ora questa immagine del Beato Angelico nel duomo di Orvieto. Il globo (di solito simbolo del potere sovrano) tenuto in mano da Gesù rappresenta una Mappa a T rovesciata. Se si segue lo sguardo di Gesù si vede che egli sta guardando il mondo e quindi il mondo è rappresentato come lo vede lui dall’alto e non come lo vediamo noi, e quindi capovolto. Se una mappa a T appare sulla faccia di un globo vuole dire che essa era intesa come rappresentazione bidimensionale di una sfera.

(23 febbraio 2009)

http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/spettacoli_e_cultura/medioevo-eco/medioevo-eco/medioevo-eco.html

 

Eclisse

Recueil d’astronomie et de mathématiques, XVe sciècle, Lyon – BM – ms. 0172, f. 29v

Andrea da Bergamo: “Ci fu grande sgomento tra la gente e molti cominciarono a temere che questa nostra era fosse giunta alla fine”. [Monumenta Germaniae Historica, Scriptores (Rerum Longobardicarum et Italicarum saec. VI-IX), III, 235]. Il bello è che continua così: “Ma mentre si scambiavano simili ingenui pensieri riprese di nuovo a splendere sfuggendo all’ombra che prima l’aveva avvolto”. Stiamo parlando del IX secolo.

Babele

Nuova Cronica

Nuova Cronica – ms. Chigiano L VIII 296 – Biblioteca Vaticana

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