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Il canone delle streghe di Reginone di Prum (906)

Per caso mi sono imbattuta in una notizia molto adatta alla giornata di oggi, otto marzo, ma declinata nella mia chiave di lettura: quella della storia. Questo brano è, a quanto pare, un passaggio fondamentale nella rappresentazione della donna-strega. Buon divertimento. Soprattutto è convinto che la storia sia noiosa, pedante e lontana. Consiglio di leggere bene la chiusa per avere idea di quale fosse la considerazione del fenomeno, al di là dei miti pseudostorici.
Quando nel 906 Reginone, abate di Prum, scrisse il suo Canon Episcopi, fissò, nel testo, lo stereotipo che, per tutto il medioevo e oltre, venne impiegato per descrivere e trattare il fenomeno delle streghe. Dice, infatti: «certe donne depravate, rivolte a Satana, e sviate da illusioni e seduzioni diaboliche, credono e affermano di caval care la notte alcune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani (o di Ero diade), e di una innumerevole moltitudine di donne; di attraversare larghi spazi grazie al silenzio della notte profonda e di ubbidire a lei come loro signora e di essere chiamate certe notti al suo servizio. Volesse il Cielo che soltanto loro fossero perite nella loro falsa credenza e non avessero trascinato parecchi altri nella perdizione dell’anima! Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in tal modo si allontanano dalla vera fede e cadono nel l’errore dei pagani, credendo che vi siano altri dei o divinità, oltre all’unico Dio. Perciò, nelle chiese a loro assegnate, i preti devono predicare con grande diligenza al popolo di Dio affinché si sappia che queste cose sono completamente false e che tali fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo spirito divino ma dallo spirito malvagio. Infatti […] durante le ore del sonno inganna la mente che tiene prigioniera, alter nando visioni liete a visioni tristi, persone note a persone ignote, e conducendole attraverso cammini mai praticati; e benché la donna infedele esperimenti tutto ciò solo nello spirito, ella crede che avvenga non nella mente ma nel corpo».
Il costo delle riproduzioni con mezzi propri
La gabella (da abolire) che pesa sugli studiosi, Corriere della sera, 5 nov 2014
Il punto della situazione sul blog FOTOGRAFIE LIBERE PER I BENI CULTURALI
L’ARTBONUS, GLI ARCHIVI E LE BIBLIOTECHE
Il sogno infranto delle libere riproduzioni
A Londra e Parigi gli studiosi possono riprodurre i documenti con mezzi propri, in Italia ancora no. Il danno per la libera ricerca è gravissimo
La nuova norma introdotta dal decreto ArtBonus, che prevede la liberalizzazione delle riproduzioni nei musei, sarà pure una novità interessante per le migliaia di turisti che potranno ora sbizzarrirsi con le foto ricordo, ma per la realtà della ricerca rappresenta purtroppo una delle tante occasioni perse che oggi faremmo volentieri a meno di collezionare. Ce ne accorgiamo subito se confrontiamo il testo definitivo della legge con quello, davvero rivoluzionario, del decreto nella sua formulazione originaria che liberalizzava la riproduzione per finalità di studio dell’intero universo dei beni culturali, compreso dunque quel materiale documentario conservato negli archivi e nelle biblioteche, che invece un emendamento della Camera dei Deputati ha deciso di escludere, stroncando l’iniziale entusiasmo dei ricercatori. Il decreto ArtBonus, entrato in vigore il primo giugno, nel rendere libere e gratuite le riproduzioni tramite mezzo proprio aveva garantito un notevole risparmio, in termini di tempo e denaro, a tutti quei ricercatori e professionisti dei beni culturali che, nonostante le difficoltà economiche e le incertezze lavorative ancora svolgono attività di ricerca e valorizzazione di beni culturali. Si poneva fine a un vero e proprio commercio delle riproduzioni sulle spalle dei ricercatori: prima dell’entrata in vigore del decreto alcuni istituti consentivano l’uso della propria fotocamera dietro pagamento di un canone (che poteva giungere sino ai 2 euro a scatto), altri negavano invece tassativamente il ricorso al mezzo proprio per garantire il massimo del profitto alle ditte private cui era stato concesso l’appalto del servizio di riproduzione in esclusiva, secondo un regime di concessione introdotto dalla legge Ronchey nel 1993. Il sogno è stato, purtroppo, di assai breve durata: il 9 luglio, a poco più di un mese dall’entrata in vigore della liberalizzazione, nell’iter di conversione del decreto in legge, la Camera dei Deputati ha approvato un emendamento restrittivo che esclude i «beni archivistici e bibliografici» dal novero dei beni culturali liberamente riproducibili. La legge ora approvata in Senato ha frustrato le speranze di tutti quegli studiosi che a gran voce ma invano avevano richiesto di ripristinare il testo originario. Con un passo in avanti per i turisti (le foto nei musei) e due indietro per i ricercatori che frequentano archivi e biblioteche, come se nulla fosse, si è così ritornati al regime precedente. Prima ancora che sulle responsabilità amministrative e politiche di questo emendamento, è bene qui riflettere sulle sue deboli ragioni di fondo sul piano che fanno riferimento all’interpretazione del testo normativo e ad argomenti di tipo economico. L’emendamento è stato giustificato anzitutto con un abile cavillo giuridico: dal momento che la norma permette la libera riproduzione a condizione che non si determini un contatto fisico con il bene, è stato facile escludere manoscritti e documenti che richiedono di essere maneggiati e sfogliati per essere riprodotti, a differenza delle opere esposte nei musei. In realtà l’intento del decreto originario era ben diverso. Esso non intendeva tanto creare distinzioni tra le categorie di beni culturali, quanto piuttosto tra le tecniche di riproduzione, da un lato ammettendo le fotografie a distanza dall’altro escludendo scansioni, fotocopie o comunque quei mezzi che avrebbero comportato inevitabilmente un contatto con il bene, e dunque una sua potenziale usura. Un discrimine perciò meramente tecnologico, già presente nell’art. 107 del Codice dei Beni culturali che vieta espressamente le tecniche di riproduzione per contatto, e che è stato ribadito da un’autorevole mozione del Consiglio superiore del Mibact del 15 luglio che conferma l’estensione della liberalizzazione a tutti i beni culturali al di là di ogni possibile distorsione interpretativa che, come in questo caso, appare null’altro che un pretesto per escludere i beni archivistici e bibliografici.
La seconda motivazione alla base dell’emendamento è invece squisitamente economica: i proventi derivanti dall’appalto alle ditte private di fotoriproduzione sarebbero l’unico cespite non pubblico per il sostentamento degli archivi.
In realtà proprio per prevenire simili obiezioni il parere espresso sul decreto dalla Commissione Bilancio della Camera è stato netto: «L’ampliamento delle ipotesi di mancata corresponsione del canone (…) non determinerà effetti apprezzabili rispetto ai flussi di entrate attesi dalle amministrazioni concedenti».
A ben guardare il sistema dell’outsourcing nasce per gestire i cosiddetti servizi aggiuntivi, come bookshop o caffetterie, e dotare gli istituti di quelle competenze professionali di cui sono sprovvisti. Siffatta delega diventa però del tutto superflua, e anzi un vero ostacolo per la ricerca, se lo stesso servizio risulta invece gestibile in perfetta autonomia dagli utenti grazie al mezzo digitale che, rispetto alla tecnologia analogica, ha reso la fotografia finalmente alla portata di tutti con enormi vantaggi sia per la ricerca che per la conservazione: anche se gli scatti realizzati durante la consultazione delle fonti non saranno degni di un Cartier-Bresson, avranno almeno il pregio di permettere una semplice trascrizione dei documenti senza dover tornare sull’originale. Per non parlare dei dubbi di legittimità sollevati dal sistema delle concessioni applicato alle riproduzioni: l’art. 108 del Codice stabilisce infatti una gratuità delle riproduzioni a scopo di studio che però sinora non s’è mai riscontrata. Al massimo è previsto un rimborso spese a carico del richiedente nel caso in cui sia l’amministrazione a farsi carico della riproduzione, vale a dire l’esatto contrario di quanto accade oggi con il sistema dell’appalto a ditte private specializzate, che è divenuto un mezzo per generare nuovi introiti. Le ditte di riproduzione offrono comunque un servizio altamente qualificato per produrre, su richiesta, immagini di alta qualità ideali per le pubblicazioni più raffinate, che è giusto che si affianchi, ma senza sostituirsi, come oggi avviene, alla libera riproduzione con mezzo proprio.
Vi è il forte sospetto che dietro a simili motivazioni se ne celino altre più subdole, in particolare l’idea inconfessata che la proliferazione delle copie dei documenti, senza i limiti imposti da un tariffario che ne scoraggi la riproduzione, svilisca l’unicità dell’originale. In quest’ottica archivi e biblioteche rischiano di somigliare alle collezioni dei principi dell’evo moderno che limitavano o proibivano il disegno dei loro cimeli per imporne l’unicità. Sono tracce di una concezione proprietaria e patrimoniale dei beni culturali, che è l’esatto opposto della moderna nozione democratica di bene pubblico da cui è urgente invece oggi ripartire. La missione delle biblioteche e degli archivi è infatti sì quella di conservare, ma anche di garantire, agevolando le libere riproduzioni, la massima fruibilità dei documenti e dei loro contenuti a tutti quegli studiosi che, attraverso la ricerca, restituiscono un valore al materiale documentario, e quindi un senso alla loro stessa conservazione. È questo che indica il combinato degli artt. 9 e 33 della Costituzione. La carenza di risorse per gli archivi rimane un problema oggettivo che impone una riflessione attenta, ma la scelta di far gravare la spesa di gestione degli archivi sugli studiosi è un danno inaccettabile per chi ancora oggi si ostina a percorrere la strada impervia della ricerca storica. Vi è stato persino chi è s’è visto costretto a modificare il proprio progetto di tesi di laurea o di dottorato per i costi insostenibili richiesti dalla riproduzione del materiale documentario. La piena libertà della ricerca non è un lusso, ma un principio costituzionale sul quale non si può scendere a compromessi. È perciò auspicabile che la politica si ravveda e rivaluti le potenzialità della libera riproduzione, già intraviste nella prima formulazione dell’ArtBonus, come volàno per la ricerca storica, e rimuova così l’emendamento allineandosi alla prassi degli archivi nazionali di Parigi e Londra, dove la libera fotografia con mezzo proprio è già da tempo realtà.
di Mirco Modolo
fonte Il Giornale dell’Arte numero 345, settembre 2014
Il Sogno Infranto Delle Libere Riproduzioni in PDF
Codice dei beni culturali e del paesaggio
Articolo 108
Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione
1. I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto:
a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso;
b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni;
c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni;
d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonche’ dei benefici economici che ne derivano al richiedente.
2. I canoni e i corrispettivi sono corrisposti, di regola, in via anticipata.
3. Nessun canone e’ dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici per finalità di valorizzazione. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente.
4. Nei casi in cui dall’attività in concessione possa derivare un pregiudizio ai beni culturali, l’autorità che ha in consegna i beni determina l’importo della cauzione, costituita anche mediante fideiussione bancaria o assicurativa. Per gli stessi motivi, la cauzione e’ dovuta anche nei casi di esenzione dal pagamento dei canoni e corrispettivi.
5. La cauzione e’ restituita quando sia stato accertato che i beni in concessione non hanno subito danni e le spese sostenute sono state rimborsate.
6. Gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell’amministrazione concedente.
Costituzione italiana
Art. 9
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
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(segue discussione)
Le pèlerinage dans les religions d’Abraham
Jewish and Non-Jewish Cultures in Contact: New Research Perspectives, Ecole Normale Supérieure, 20-24 July 2014
I. Sabbatini, «In terram quam mostrabo». L’itinérance pieuse dans les religions d’Abraham.
22 July, Ecole Normale Supérieure, Salle des RÉSISTANTS, Main building, 1st floor,
Session 1: 9.00-10.30 Early Modern History. Travel and Cultural Interchange in Pre-Modern Jewry
Le pèlerinage dans les religions d’Abraham



La via Egnazia: ponti e muri tra Oriente e Occidente
Gli Stati o gli imperi in ascesa o all’apice della loro potenza costruiscono strade e ponti, mentre quelli in declino o in pericolo innalzano mura e barriere. Un viaggio lungo l’antica via Egnatia che collegava Italia e Grecia antica, proseguendo fino a Bisanzio e che ora dà il nome a un’autostrada
Chi frequenta la Grecia da molti anni non può non ricordarselo. Traversare il nord del Paese, dall’Egeo allo Ionio, era una piccola avventura: un saliscendi di sette, otto ore, tra giravolte e dure pendenze su una striscia d’asfalto intasata da camion e corriere arrancanti, che a tratti s’incanalavano in paesini pittoreschi e superavano passi montani vertiginosi. Alla fine si arrivava ad imbarcarsi per l’Italia dal porto di Igoumenitsa, confinata in un angolino là, sotto l’Albania, non lontano dalle coste pugliesi.
Ora, tutto questo è finito. Un solo breve tunnel rimaneva ancora incompiuto quest’estate lungo la nuovissima autostrada greca che, con un percorso di 670 km, permette di passare in un paio d’ore da un mare all’altro, e addirittura nella stessa mattinata di raggiungere i confini della Turchia europea. E poi, da lì, volendo, si prosegue per Istanbul, porta dell’Asia. E viceversa.
Il paradosso è che il suo tratto più orientale, quello che dalla cittadina di Alexandroupoli giunge al posto di confine greco-turco di Kipi, risulta spesso semivuoto. Conduce infatti non solo alla barriera tra due Stati i cui rapporti continuano a non essere facili, ma anche al limite estremo dell’Unione Europea, segnato dal tratto finale del fiume Evros . E’ proprio qui che il governo ellenico sta costruendo una barriera costituita da reticolati e da un profondo fossato. Lo scopo è porre argine al crescente flusso di migranti provenienti dai paesi asiatici o africani che passano attraverso la Turchia. Capita perfino di vederli, a volte, al calar del sole, marciare a piccoli gruppi in fila indiana lungo la corsia di emergenza dell’autostrada deserta.
L’autostrada Egnatia
Era così importante, l’ Egnatia , che fu la prima delle numerose strade che i Romani decisero di costruire fuori dalla nostra penisola. Si trattò, per quei tempi, di un’impresa straordinaria: traversare i Balcani da est a ovest a quella latitudine, infatti, è una sfida all’orografia. Già di per sé il termine ‘Balcani’ significa ‘monti’; ma per di più in queste regioni i rilievi, così come i principali fiumi, scendono da nord verso sud: e quindi l’ Egnatia doveva tagliarli, tutti. Solo l’organizzazione e i mezzi finanziari del più grande impero dell’antichità poterono realizzare quel percorso lastricato in pietra di 1.120 km, ben più lungo della odierna autostrada, l’ Eghnatìa Odòs , come la chiamano i greci.
Come è noto, i Romani erano grandi costruttori di strade; e lavorarono talmente bene, con in mente una prospettiva di durata nei secoli, che tratti dell’antico tracciato resistono ancora. Mi è capitato di ritrovarne in più punti. Come alle spalle dell’odierna Kavala, una cittadina macedone incastonata tra le montagne e affacciata sull’Egeo scintillante, con gli immancabili traghetti che salpano per le isole. E’ questo un tratto in forte pendenza, poiché la strada risaliva e poi scendeva per il passo che sovrasta la città provenendo dalla non lontana Filippi: sì, proprio quella della battaglia vinta da Ottaviano e Antonio contro gli uccisori di Cesare; e anche quella che ispirò le ‘Lettere ai Filippesi’ di S. Paolo – il quale come tanti si trovò a passarvi nel suo viaggio verso Roma.
L’antica via Egnatia , la strada bipolare
Anche l’asse viario moderno è un prodigio di ingegneria. Le semplici cifre bastano a dimostrarlo. Vi si contano 177 grandi ponti per un totale di 40 km, nonché 73 lunghe gallerie (la maggiore è lunga 4,8 km.). Specie nel tratto dell’Epiro, il 30% del percorso passa assai più in alto, oppure al di sotto, del livello suolo.
Oggi come allora – nel XXI secolo come nel II a.C. – un piccolo Stato da solo, con le sue limitate risorse, non ce l’avrebbe mai fatta. E così, dei circa 6 miliardi di euro di costo complessivi, la metà è venuta dai finanziamenti dell’Unione Europea: come non si stancano di ricordare lungo le corsie sospese tra le montagne i cartelli che i turisti scorrono con lo sguardo annoiato. Le imprese ciclopiche hanno sempre alle spalle ampie entità statali o, in alternativa, una grande unione di Stati: come quella costituita del nostro continente, almeno finché reggerà. Anche la moderna impresa, così come quella avviata dal console Gnaeus Egnatius dopo il 146 a.C., aveva una grandiosa ambizione: collegare in modo rapido e sicuro le due parti del mondo. La via Egnatia insomma era, ed è, per le sue dimensioni e i suoi costi, una strada il cui senso non può che essere bipolare. Allora i poli erano le teste politiche delle due parti dell’immenso impero: quello romano d’Occidente, con capitale Roma, e quello d’Oriente, con capitale Costantinopoli. E oggi?
La nuova via Egnatia, la strada sospesa
Oggi, questo superbo nastro d’asfalto rischia di diventare un magnifico ponte sospeso, cui manchino le campate finali: alle sue estremità non lo attendono infatti varchi spalancati, ma le indecisioni e le lentezze, le miopie e le dispute che dividono i governi della regione. Non si tratta solo degli alterni rapporti dell’Europa con la Turchia. Anche il tracciato occidentale dell’Egnatia, se lo si confronta con quello della strada romana, è rivelatore dell’attualità geopolitica. Infatti l’antica Via non partiva da Igoumenitsa, non attraversava l’Epiro meridionale: i Romani sapevano che il tratto di mare più breve tra Brindisi e i Balcani non era lì, ma più a nord, dove si apriva il porto di Apollonia; mentre ancor più a settentrione quello di Durazzo offriva alle spalle un facile accesso ai Balcani. E così essi la fecero partire da queste due città: che allora erano greche, abitate da Greci, mentre attualmente sono albanesi. Dopodiché, la Via Egnatia giungeva in Grecia, a Salonicco, attraversando il territorio della Repubblica di Macedonia o FYROM, a seconda dei punti di vista, dove toccava il lago di Ochrid ed Erakleia Lynkestis , l’odierna Bitola. Insomma, se si fossero rispettati la logica e il percorso originari, la nuova Egnazia avrebbe traversato oggi quattro stati (Albania, Macedonia/FYROM, Grecia e Turchia), non uno solo.
Comunque, era forse scontato che assieme ai fondi europei la Grecia incamerasse, per questa meritevole impresa, anche il nome della prestigiosa Via romana. Essere o non essere nell’Unione Europea: anche questo fa la differenza, specie nel campo delle infrastrutture.
L’antica Via di Solimano il Magnifico
Ma se nel suo primo tratto la moderna Egnatia ha mutato percorso, e se quello finale resta senza grandi sbocchi, che ne è di quello ancora successivo della antica Via romana, quello che arrivava fino alla imperiale Costantinopoli? Essa attraversava l’attuale confine greco-turco (quello che oggi si vorrebbe ‘fortificare’ con la barriera) poco più a sud della stazione doganale di Kipi, nei pressi dell’antica Traianoupolis : ed è anche lì per buoni tratti visibile, sebbene abbia perso il manto lapideo. Giunta sul Mar di Marmara, l’antica Via ne seguiva le coste fino a sbucare nella ‘Città’ per eccellenza attraverso la ‘Porta d’Oro’, aperta nelle maestose mura della capitale d’Oriente.
In effetti anche durante l’età dei Bizantini e degli Ottomani la via Egnazia continuò parzialmente a funzionare: ad essere percorsa da mercanti, eserciti, viandanti, predicatori, crociati, invasori, esploratori, migranti e fuggiaschi, in entrambe le direzioni. Ma poiché in quel lungo millennio Oriente e Occidente furono quasi sempre contrapposti, da ‘bipolare’ che era stata divenne ‘unipolare’. Il suo traffico, cioè, fluiva e rifluiva sempre partendo dalla capitale. In quei secoli erano le acque salate dell’Adriatico, non quelle dolci dell’Evros, a costituire un confine sensibile.
Gli imperatori cristiani e i padiscià musulmani continuarono quindi a restaurarla e ad utilizzarla. Ma mentre Bisanzio era in declino e la vedeva più come un possibile varco per gli invasori, l’impero ottomano dei secoli d’oro, specie al tempo di Solimano il Magnifico, la considerava una delle due ‘ali’ che dalla capitale permettevano di volare ai due estremi del mondo: più precisamente, l’ala occidentale, quella che la univa ai popoli sottomessi dei Balcani, e che avrebbe portato – si sperava, prima o poi – gli eserciti della mezzaluna a conquistare Vienna.
Il ponte in pietra con 28 archi
L’ho attraversato a piedi (fortunatamente è chiuso al traffico) nella sua ora più luminosa, con un sole a picco di fine agosto reso tollerabile dal vento fresco e vivace che qui soffia costantemente dal Mar Nero.
Così, ancor oggi gli abitanti utilizzano il ponte di Sinan, a preferenza del caotico passaggio automobilistico più a valle, per raggiungere le due parti in cui la cittadina è divisa dalla laguna. Anche l’impiegato in giacca e cravatta che lo percorre a passo veloce, col suo fascicolo gonfio di documenti biancheggianti sotto il braccio, lo sta usando per tornare in ufficio. Mi individua come straniero, forse per via della macchina fotografica, e decide, con la maniere gentili tipiche dei turchi dei piccoli centri, di farmi gli onori di casa. In breve, raggiungiamo assieme il Comune, dove lavora; lì vengo riempito di foto, poster, volumi illustrati su questo bellissimo e poco noto sobborgo di Istanbul.
Quando ci congediamo, riprendo a vagare un po’ stordito dal sole per il porto di Büyükçekmece: sono ormai le tre del pomeriggio e, anche a causa del ramadan, non ho bevuto né mangiato nulla. Dovrei provvedere a rifocillarmi, ma il mio occhio viene attratto dall’ingresso ombroso di una piccola libreria comunale, ancora aperta al pubblico. Decido di entrare lì: spero di trovarvi l’indicazione necessaria per concludere il mio viaggio lungo l’ Egnazia con un’escursione speciale.
Ponti o muri?
Gli Stati o gli imperi in ascesa o all’apice della loro potenza costruiscono strade e ponti, mentre quelli in declino o in pericolo innalzano mura e barriere. E io ho letto da qualche parte che un imperatore bizantino, mentre la pars occidentalis dell’impero romano crollava sotto i colpi delle invasioni, aveva voluto erigere una invalicabile barriera che separasse Costantinopoli dal resto dei Balcani. Non bastavano, no, le possenti e duplici mura teodosiane, che ancor oggi vediamo avvolgere la città. Egli volle dividere, con un vallo lungo 56 km., l’intera penisola alla cui estremità, sulle acque del Bosforo, sorgeva la capitale, dal resto del continente (oggi è detta penisola diÇatalça ). Il problema è che di questo muro quasi nessuno sa o ricorda più nulla. Tutti coloro che avevo interpellato non ne avevano mai sentito parlare, le carte anche dettagliate non ne segnalano i resti, né avevo scorto indicazioni stradali. Eppure, dopo il Vallo di Adriano in Britannia, questo dovette essere il più lungo muro continuo eretto in Europa dall’antica Roma!
Il Vallum Anastasianum ? Mai sentito
Saluto la bibliotecaria ringraziandola anche per due formidabili tè, densi quasi come il miele, che mi hanno dato la forza di proseguire; e mi avvio verso Selimbria. Oggi si chiama Silivri : è un’esplosione di vita, per quanto è movimentata, giovane e popolosa. Dalla sua acropoli si ammira metà del mar di Marmara. Non per nulla i Greci la fondarono ancor prima di Bisanzio. Nessuna traccia del muro, lì: ma, ammirando le sue rive e le sue acque, so già che l’indomani sarò su quelle opposte del Mar Nero.
E così il giorno dopo raggiungo con un amico turco il remoto villaggio di Karacaköy. Qui gli uomini della piazza sanno del muro, e ci danno le indicazioni giuste. Si trova a pochi chilometri, verso il mare. Ci avviamo in auto per un tratto di asfalto angusto e deserto e finalmente, alla nostra sinistra, messa in ombra dalla vegetazione, addirittura dagli alberi che le sono cresciuti sopra, ecco la barriera che doveva salvare Bisanzio. E’ in rovina, le radici delle piante ne fendono qua e là la cortina di pietre rettangolari, ma rivela ancora la sua passata imponenza. La Storia racconta però che ben presto il muro si rivelò inutile agli scopi per cui fu costruito. Gli invasori, alla fine, trovano sempre un punto da cui passare, poiché aspirazione al benessere e declino altrui li facilitano più di quanto le barriere non li ostacolino; e così fu abbandonato. I locali lo smantellarono per erigervi i loro edifici, e nessuno se ne interessò più.
Giunto in vista delle onde fredde e nervose del mar Nero, su cui si rispecchiano le nubi trascinate veloci dal vento, ripenso a tutti ponti, ai tratti di strade, ai passaggi e ai cavalcavia che ho visto in queste settimane di pellegrinaggio lungo l’ Egnazia , e li paragono a quei poveri resti. I secoli, i millenni, finiscono prima o poi col rendere superate e prive di senso le barriere. Ma gli uomini, a qualsiasi civiltà appartengano, ricostruiscono sempre, orgogliosi, i loro ponti e le loro vie. E questo qualcosa vorrà pur dire.