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I Re Magi e Marco Polo

I Magi, erano sacerdoti dell’antica religione persiana (probabilmente zoroastriani) cui tarde tradizioni greche attribuivano doti di astrologi e indovini. Il vangelo non dice il loro numero ma solo che, guidati da una stella, giunsero a Betlemme per onorare Gesù, portandogli in dono oro, incenso e mirra. La più tarda tradizione agiografica li chiamò “re” fissandone il numero a tre, in ragione del numero di doni che portavano, ma non mancano autori che parlano di due, quattro o sei Magi.

La narrazione di Marco Polo
De la grande provincia di Persia: de’ 3 Magi.
Persia si è una provincia grande e nobole certamente, ma ‘l presente l’ànno guasta li Tartari. In Persia è l[a] città ch’è chiamata Saba, da la quale si partiro li tre re ch’andaro adorare Dio quando nacque. In quella città son soppeliti gli tre Magi in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co’ capegli: l’uno ebbe nome Beltasar, l’altro Gaspar, lo terzo Melquior. Messer Marco dimandò piú volte in quella cittade di quegli 3 re: niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano 3 re soppelliti anticamente. Andando 3 giornate, trovaro uno castello chiamato Calasata, ciò è a dire in francesco ‘castello de li oratori del fuoco’; e è ben vero che quelli del castello adoran lo fuoco, e io vi dirò perché. Gli uomini di quello castello dicono che anticamente tre lo’ re di quella contrada andarono ad adorare un profeta, lo quale era nato, e portarono 3 oferte: oro per sapere s’era signore terreno, incenso per sapere s’era idio, mirra per sapere se era eternale. E quando furo ove Dio era nato, lo menore andò prima a vederlo, e parveli di sua forma e di suo tempo; e poscia ‘l mezzano e poscia il magiore: e a ciascheuno p[er] sé parve di sua forma e di suo tempo. E raportando ciascuno quello ch’avea veduto, molto si maravigliaro, e pensaro d’andare tutti insieme; e andando insieme, a tutti parve quello ch’era, cioè fanciullo di 13 die. Allora ofersero l’oro, lo ‘ncenso e la mirra, e lo fanciullo prese tutto; e lo fanciullo donò a li tre re uno bossolo chiuso. E li re si misoro per tornare in loro contrada.
De li tre Magi.
Quando li tre Magi ebbero cavalcato alquante giornate, volloro vedere quello che ‘l fanciullo avea donato loro. Aperso[r]o lo bossolo e quivi trovaro una pietra, la quale gli avea dato Idio in significanza che stessoro fermi ne la fede ch’aveano cominciato, come pietra. Quando videro la pietra, molto si maravigliaro, e gittaro questa pietra entro uno pozzo; gittata la pietra nel pozzo, uno fuoco discese da cielo ardendo, e gittòssi in quello pozzo. Quando li re videro questa meraviglia, pentérsi di ciò ch’aveano fatto; e presero di quello fuoco e portarone in loro contrada e puoserlo in una loro chiesa. E tutte volte lo fanno ardere e orano quello fuoco come dio; e tutti li sacrifici che fanno condisco di quello fuoco, e quando si spegne, vanno a l’orig[i]nale, che sempre sta aceso, né mai non l’accenderebboro se non di quello. Perciò adorano lo fuoco quegli di quella contrada;e tutti li sacrifici che fanno condisco di quello fuoco, e quando si spegne, vanno a l’orig[i]nale, che sempre sta aceso, né mai non l’accenderebboro se non di quello. Perciò adorano lo fuoco quegli di quella contrada; e tutto questo dissero a messer Marco Polo, e è veritade. L’uno delli re fu di Saba, l’altro de Iava, lo terzo del Castello.
(Marco Polo, Il Milione, a cura A. Lanza, Editori riuniti, Roma, 1981)
La narrazione del vangelo di Matteo
Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Matteo 2, 1-12 (Bibbia CEI)
La traslazione delle reliquie
Le reliquie dei Re Magi sono conservate a Colonia, nella cattedrale dei Santi Pietro e Maria, appositamente costruita per ospitarle. Giovanni di Hildesheim (†1375), teologo, maestro alla Sorbona e priore di Kassel, raccontò la storia delle reliquie nel Liber de trium regum corporibus Coloniam translatis. Le reliquie erano originariamente conservate nella basilica di Sant’Eustorgio a Milano dove le aveva volute trasportare lo stesso vescovo milanese. Eustorgio, con l’approvazione dell’imperatore Costante, aveva fatto giungere i resti dalla basilica di Santa Sofia a Costantinopoli dove erano stati portati da sant’Elena, che li aveva ritrovati durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa. Intorno ai resti Eustorgio aveva fatto costruire, verso l’anno 344, la basilica che porta il suo nome. Tutt’oggi, nel transetto destro, si trova la cappella dei Magi in cui è conservata una grande arca vuota che reca l’iscrizione Sepulcrum Trium Magorum. Quando il Barbarossa mise a sacco la città portò con sé le reliquie dei Re Magi e le donò all’arcivescovo di Colonia, Rainaldo di Dassel, che era in conflitto con il papa di Roma. Rainaldo di Dassel, nel 1164, trasferì i corpi attraverso Lombardia, Piemonte, Borgogna e Renania, fino a Colonia.

Il giardino del balsamo
Vangelo arabo dell’infanzia
Da qui si diressero alla (città del) famoso sicomoro, che oggi si chiama Matarea, e a Matarea il Signore Gesù fece sgorgare una fontana nella quale santa Maria lavò la sua tunica. E dal sudore del Signore Gesù, che essa fece lì gocciolare, si produsse in quella regione il balsamo. Vangelo dell’infanzia arabo siriaco, in I vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino, 1990, p. 127.

Il racconto di Leonardo Frescobaldi nel 1385
Questo luogo della Materia è quel luogo dove prima si riposò nostra Donna innanzi che entrasse nel Cairo. E ivi avendo sete, lo disse al suo fanciullino Cristo Gesù, ed egli col piede razzolò in terra, e ivi di subito nacque una grandissima fonte e copiosa di buona acqua. E quando si furono riposati, ella lavò colle sue santissime mani i pannicelli del fanciullo; e lavati che gli ebbe, gli tese a rasciugare in su certi arbuscellini di grandezza di mortine di due anni; le loro foglie sono come di basilico, e da quel punto in qua quegli arbuscelli sempre hanno menato e menano balsimo che più non ne nasce nel mondo (…).
Questo fattore [il turcimanno Elia n.d.r.] ci menò a vedere il giardino e come si coglie il balsimo, il quale si coglie in questo modo: che levano di quelle foglie che sono intorno al gambo come di basilico, e di quindi esce certe gocciuole bianche a modo di lattificio di fico, e con un poco di bambagia ricolgono questo liquore; e quando hanno inzuppata la bambagia, la premono colle dita in una ampoluzza, e penasi un gran pezzo ad averne un poco. In questo luogo stemo tutto questo dì, e per simonia n’ebbi tutto quello che si colse e parecchie altre ampolluzze, e così n’ebbe alcuno de’ compagni, ma minore quantità.
In questo giardino si è un fico di Faraone, il quale ha un ramo cavato, dove nostra Donna pose il fanciullo mentre ch’ella lavò i panni. E sappiate che per tutto questo paese per insino al Cairo non è altra acqua, e con questa innacquano tutta la contrada con certi anificii che fanno volgere a’ buoi; e mai non vogliono volgere dal sabato sera a vespro insino al lunedì mattina. In questo luogo recamo ogni nostro guernimento,salvo che acqua, per passare ‘l diserto, e quivi al tardi empiemo i nostri otri d’acqua e caricamo i nostri cammelli, mettendoci nel nome di Cristo per lo diserto, tenendo verso il mare Rosso per fare la via di Santa Caterina.
Il balsamo
Nicola di Mira, Santa Claus, Babbo Natale
Nato probabilmente a Pàtara di Licia, in Asia Minore (attuale Turchia), è poi eletto vescovo di Mira, nella stessa Licia. Un passionario del VI secolo afferma che ha subito le ultime persecuzioni antecedenti Costantino, e che è intervenuto nel 325 al Concilio di Nicea.
Nicola muore il 6 dicembre di un anno incerto e il suo culto si diffonde dapprima in Asia Minore: 25 chiese dedicate a lui a Costantinopoli nel VI secolo. La sua tomba, posta fuori dell’abitato di Mira, richiama pellegrinaggi. Moltissimi scritti in greco e in latino lo fanno via via conoscere nel mondo bizantino-slavo e in Occidente, cominciando da Roma e dal Sud d’Italia, soggetto a Bisanzio.
Oltre sette secoli dopo la sua morte, quando in Puglia è subentrato il dominio normanno, Nicola di Mira diventa Nicola di Bari. Sessantadue marinai baresi, sbarcati nell’Asia Minore (già soggetta ai Turchi) arrivano al sepolcro di Nicola e s’impadroniscono dei suoi resti, che il 9 maggio 1087 giungono a Bari.
Dopo la collocazione provvisoria in una chiesa cittadina, il 29 settembre 1089 esse trovano sistemazione definitiva nella cripta, già pronta, della basilica che si sta innalzando in suo onore. E’ il Papa in persona, Urbano II, a deporle sotto l’altare. Nel 1098 lo stesso Urbano II presiede nella basilica un concilio di vescovi, tra i quali alcuni “greci” dell’Italia settentrionale (è già avvenuto lo scisma d’Oriente). Nella cripta c’è anche una cappella orientale, dove i cristiani ancora “separati” dal 1054 possono celebrare la loro liturgia.
Nell’iconografia San Nicola è facilmente riconoscibile perché tiene in mano tre sacchetti (talvolta riassunti in uno solo) di monete d’oro, spesso resi più visibili sotto forma di tre palle d’oro. Racconta la leggenda che nella città dove si trovava il vescovo Nicola, un padre, non avendo i soldi per costituire la dote alle sue tre figlie, avesse deciso di mandarle a prostituirsi. Nicola, venutone a conoscenza, fornì tre sacchietti di monete d’oro che costituirono quindi la dote delle ragazze.
Il suo culto (patrono dei naviganti, delle fanciulle e degli scolari) raggiunse il culmine verso la fine del Medioevo, e le sue leggende furono celebrate in pitture e in sacre rappresentazioni. Nell’Europa centro-settentrionale e orientale la sua figura corrisponde a quella di Babbo Natale: per la sua festa (6 dicembre) si scambiano doni e, fin dal XIII secolo, si eleggeva in quel giorno il “vescovo dei fanciulli”. Con la Riforma, questi usi furono per lo più trasferiti al Natale e il nome Sanctus Nicolaus si corruppe in Santa Claus.
Prima della conversione al cristianesimo, il folklore tedesco narrava che Odino ogni anno tenesse una grande battuta di caccia nel periodo del solstizio invernale accompagnato dagli altri dei e dai guerrieri caduti.
La tradizione voleva che i bambini lasciassero i propri stivali nei pressi del caminetto, riempendoli di carote, paglia o zucchero per sfamare il cavallo volante del dio. In cambio, Odino avrebbe sostituito il cibo con regali o dolciumi. Questa pratica è sopravvissuta in Belgio e Paesi Bassi anche in epoca cristiana, associata alla figura di san Nicola.
I bambini, ancor oggi, appendono al caminetto le loro scarpe piene di paglia in una notte d’inverno, perché vengano riempite di dolci e regali da san Nicola. Anche nell’aspetto, quello di vecchio barbuto dall’aria misteriosa, Odino era simile a san Nicola.
La tradizione germanica arrivò negli Stati Uniti attraverso le colonie olandesi di New Amsterdam (rinominata dagli inglesi in New York) prima della conquista britannica del XVII secolo.
Un’altra tradizione folklorica germanica racconta le vicende di un sant’uomo alle prese con un demone che uccideva nei sogni. La leggenda narra di un mostro che si insinuava nelle case attraverso la canna fumaria durante la notte, aggredendo e uccidendo i bambini.
Il sant’uomo cattura il demone imprigionandolo con dei ferri magici (o benedetti). Obbligato ad obbedire agli ordini del santo, il demone viene costretto a passare di casa in casa per fare ammenda portando dei doni ai bambini.





Il testo della leggenda di san Nicola in italiano
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Scarica i testi delle fonti agiografiche tradotti in italiano
Calendario Palestino Georgiano
Teodoro di Myra al concilio Niceno II (787)
Teodoro Studita – Inno a San Nicola
Legenda Aurea traduzione C. Lisi
Link alle fonti agiografiche in greco e latino
Cartoline e stampe vintage

Siti consulati
http://www.treccani.it/enciclopedia/nicola-di-mira-santo/
http://www.historyextra.com/feature/festive-features
http://www.stnicholascenter.org/pages/home/
Danza macabra

Testo:
Io sont la morte che porto corona / Sonte signora de ognia persona / Et cossì son fiera e dura / Che trapaso le porte et ultra le mura / Et son quela che fa tremar el mondo / Revolzendo mia falze atondo atondo.
Ov’io tocco col mio strale / Sapienza, beleza forteza niente vale. / Non è signor, madona nè vassallo / Bisogna che lor entri in questo ballo / Mia figura o peccator contemplarai / Sinche a mi tu diverrai.
Non ofender a Dio per tal sorte / Che al transire non temi la morte, / Che più oltre no me impazo in be’ nè in male, / Che l’anima lasso al giudice eternale. / E come tu avrai lavorato / Lassù hanc sarai pagato.

Testo integrale della danza macabra di Pinzolo XVI secolo
Io sont la morte che porto corona / Sonte signora de ognia persona / Et cossì son fiera e dura / Che trapaso le porte et ultra le mura / Et son quela che fa tremar el mondo / Revolzendo mia falze atondo atondo.
Ov’io tocco col mio strale / Sapienza, beleza forteza niente vale. / Non è signor, madona nè vassallo / Bisogna che lor entri in questo ballo / Mia figura o peccator contemplarai / Sinche a mi tu diverrai.
Non ofender a Dio per tal sorte / Che al transire non temi la morte, / Che più oltre no me impazo in be’ nè in male, / Che l’anima lasso al giudice eternale. / E come tu avrai lavorato / Lassù hanc sarai pagato.
O peccator più no peccar no più / Che ‘l tempo fuge et tu no te n’ avedi / Dela tua morte che certeza ai tu ? / Tu sei forse alo extremo et no lo credi / De ricorri col core al bon Jesu / Et del tuo fallo perdonanza chiedi.
Vedi che in croce la sua testa inchina / Per abrazar l’anima tua meschina / O peccatore pensa de costei / La me à morto mi che son signor di ley.
O sumo pontifice de la cristiana fede / Christo è morto come se vede / a ben che tu abia de san Piero al manto / acceptar bisogna de la morte il guanto.
In questo ballo ti cone intrare / Li antecessor seguire et li succesor lasare, / Poi che ‘l nostro prim parente Adam è morto / Sì che a te cardinale no le fazo torto.
Morte cossì fu ordinata / In ogni persona far la intrata / Sì che episcopo mio jocondo / È giunto il tempo de abandonar el mondo.
O Sacerdote mio riverendo / Danzar teco io me intendo / A ben che di Christo sei vicario / Mai la morte fa divario.
Buon partito pilgiasti o patre spirituale / A fuzer del mondo el pericoloso strale / Per l’anima tua può esser alla sicura / Ma contra di me non avrai scriptura.
O cesario imperator vedi che li altri jace / Che a creatura umana la morte non à pace. / Tu sei signor de gente e de paesi o corona regale / Ne altro teco porti che il bene el male.
In pace portarai gentil regina / Che ho per comandamento di non cambiar farina. / O duca signor gentile / Gionta a te son col bref sottile.
Non ti vale scientia ne dotrina / Contra de la morte non val medicina. / O tu homo gagliardo e forte / Niente vale l’arme tue contra la morte.
O tu ricco nel numero deli avari / Che in tuo cambio la morte non vuol danari. / De le vostre zoventù fidar no te vole / Però la morte chi lei vole tole.
Non dimandar misericordia o poveretto zoppo / A la morte, che pietà non li dà intopo. / Per fuzer li piazer mondani monica facta sei / Ma da la sicura morte scapar no poi da lei.
Non giova ponpe o belese / Che morte te farà puzar e perdere le treze. / Credi tu vecchia el mondo abbandonare / Che no pe(s?)a… cu(elo?)… ch (morte?) fa fare.
O fantolino de prima etade / Come sei igenerato tu sei in libertade. / Fate bene tanto che siete in vita / Che come lombra tornerete in sepoltura / De li nostri deliti penitenza fate / Presto…
Come avrete notato Io sont la morte che porto corona è l’incipit della canzone di Branduardi Ballo In Fa Diesis Minore. L’operazione è stata di fondere il testo con una melodia di provenienza diversa: Schiarazula marazula.
Schiarazula marazule da: Il primo libro de’ balli accomodati per cantar et sonar d’ogni sorte de instromenti di Giorgio Mainerio (1585ca-1582) Parmeggiano Maestro di Capella della S. Chiesa d’Aquilegia fu stampato da Angelo Gardano a Venezia nel 1578.
Partitura di Schiarazula marazula in PDF
Le parole della canzone conosciuta come Schiarazula marazula sono state composte nella seconda metà del Novecento dal poeta friulano Domenico Zannier, ignorando il testo originale che pare fosse citato in una lettera di denuncia all’inquisizione del 1624 che indicava come donne e uomini di Palazzolo eseguissero questa danza.
Scjaraçule Maraçule
la lusigne e la craçule, la piçule si niçule di polvar a si tacule. O scjaraçule maraçule cu la rucule e la cocule, la fantate je une trapule il fantat un trapulon. |
Bastone e finocchio,
la lucciola e la raganella, la piccola si dondola di polvere si macchia. Bastone e finocchio, con la rucola e la noce, la ragazza è una bugiarda il ragazzo un bugiardone |
Ballo In Fa Diesis Minore
Buffalmacco
Gennaio 20, 2016 / Leave a comment
Durante il cannoneggiamento alleato per liberare Pisa, il 27 luglio 1944 uno spezzone incendiario cade sul Camposanto provocando la distruzione della copertura in legno e piombo. È impossibile limitare l’estensione dell’incendio: gli affreschi del ciclo del “Trionfo della morte” vengono irrimediabilmente danneggiati. Nell’aprile del 2014 sono state ricollocate le Storie dei Santi Padri. Il 2 gennaio 2016 è iniziata la ricollocazione dell’affresco dell’Inferno.
Aniconismo e iconoclastia
Riguardo alle recenti questioni sull’islam e le immagini si tende spesso a parlare di iconoclastia ma questo è profondamente errato e genera confusione. Bisognerebbe infatti parlare di aniconismo. C’è una differenza sostanziale tra iconococlastia e aniconismo, la stessa che passa tra distruggere un’immagine e scegliere una forma d’espressione non-figurativa.
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Queste sono le definizioni di Aniconismo e Iconoclastia (Treccani):
Iconoclostia fu la dottrina e l’azione che nell’Impero bizantino, tra VII e IX secolo, avversò il culto religioso e l’uso delle immagini sacre, dando origine a una serie di contrasti religiosi e politici che provocarono la distruzione di un notevole patrimonio di arte sacra.
Aniconismo è il divieto di raffigurazione del volto umano e divino come precetto di alcune religioni. Esso è norma fondamentale dell’antico ebraismo e del giudaismo medievale e moderno. Appare anche nell’Islam, principalmente per quanto riguarda il volto di Maometto e di Alì.
Per intenderci la distruzione dei Buddha di Bamijan (2001) da parte dei Talebani è stato un gesto iconoclasta mentre l’islam in sè è tendenzialmente aniconico, non iconoclasta.
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Quelle che seguono, invece, sono brevi trattazioni su Aniconismo e Iconoclastia (Treccani):
Iconoclastia:
La lotta contro le immagini cominciò con le disposizioni prese nel 726 dall’imperatore Leone III Isaurico, mosso sia da considerazioni di ordine pratico immediato (togliere un argomento all’incalzante propaganda musulmana che accusava di idolatria i cristiani) sia dalla preoccupazione della crescente influenza sulle masse popolari dei monasteri e dei monaci, presso i quali si trovavano immagini particolarmente e fanaticamente venerate. Alle disposizioni aderirono alcuni vescovi, mentre il patriarca di Costantinopoli resistette e fu perciò rimosso (729). Stessa sorte toccò ai patriarchi di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme. I papi Gregorio II e Gregorio III protestarono, e quest’ultimo fece dichiarare la legittimità del culto delle immagini nel sinodo romano del 731. In risposta, Leone III confiscò le rendite della Chiesa romana nei territori bizantini dell’Italia e ne sottopose le diocesi al patriarcato di Costantinopoli. Costantino V Copronimo, successore di Leone III, fu dapprima più prudente, ma, rafforzatosi sul trono, anch’egli fece proclamare il divieto delle immagini da un concilio ecumenico nel 754 (tenutosi nel palazzo imperiale di Hieria, nella periferia asiatica di Costantinopoli). Ma il popolo e i monaci non si sottomisero, nonostante le misure violente dell’imperatore (distruzione delle immagini e delle reliquie e imposizione di rinunciare a esse, con giuramento, 764). Mitigò alquanto la persecuzione Leone IV; successivamente l’imperatrice Irene, madre e reggente del giovane Costantino VI (780-798), si rivolse al papa Adriano I (785) chiedendo la convocazione di un concilio che a Nicea (787) definì la dottrina ortodossa riguardo le immagini. Tuttavia l’iconoclastia non terminò: Leone V l’Armeno, nell’813, riprese a perseguitare il culto delle immagini; e queste rimasero proibite sotto gli imperatori Michele II e Teofilo; solo con l’imperatrice Teodora, deposto il patriarca iconoclasta Giovanni I, si ristabilì l’ortodossia (843) e si cominciò a celebrare, nella Chiesa bizantina, la ‘festa dell’ortodossia’.
Aniconismo:
Dalla metà dell’VIII secolo, e forse anche prima, l’aniconismo era stato formalmente proclamato come dottrina dominante della fede, con deroghe occasionali, come nei bagni. Tuttavia, perlomeno nei primi secoli, l’aniconismo era relativamente raro e non si tramutò in un’effettiva distruzione delle immagini come si verificò per altre religioni. Un’apparente eccezione è quella del cosiddetto editto di Yazīd II, del 723, il quale avrebbe condotto a consistenti alterazioni, nei mosaici cristiani in Siria, Palestina e Giordania. Ma sussiste molta incertezza sull’effettiva esistenza di quell’editto. Altre motivazioni, interne e di origine cristiana, potrebbero spiegare, in maniera migliore di quanto farebbe un ordine del califfo omayyade, la rimozione di raffigurazioni dai mosaici pavimentali delle chiese di villaggi e di piccole città. Esempi di una reale e sistematica iconoclastia si verificarono molto più spesso alle frontiere del crescente impero islamico, specialmente in Asia centrale, dove erano connessi piuttosto alla lotta al paganesimo. Il rifiuto della rappresentazione di esseri viventi è dovuto al fatto che, per il loro nesso con la vita, avrebbero potuto facilmente essere considerate idoli, come era avvenuto nel caso del paganesimo arabo.

Di seguito potete leggere uno stralcio da un articolo pubblicato sulla rivista Diritto e questioni pubbliche (Università degli studi di Palermo) che definisce la questione dell’aniconismo:
«L’Arabia preislamica pullulava d’idoli e immagini, sotto forma di statue o pitture; con l’Islam, pur non essendovi un espresso divieto nella rivelazione del Corano, le rappresentazioni vennero sempre meno utilizzate. Un’intera civiltà, senza un’imposizione diretta, accettò, quasi con sentimento collettivo, di rinunciare all’immagine.
Quando Maometto entrò alla Mecca gli idoli presenti nella Ka’ba vennero distrutti; bisogna ricordare, però, che venne salvata l’immagine della Vergine col Bambino, andato distrutto in un successivo incendio.
Maometto stesso aveva salvato quindi un’immagine sacra e non aveva vietato l’uso dell’immagine, ne aveva semmai sconsigliato l’uso nei luoghi di preghiera e di raccoglimento, perché non vi fossero distrazioni durante le orazioni. Ma la distruzione degli idoli, è bene non dimenticarlo, si ricollega all’unicità di Dio e alla difesa di tale credo.
Certe posizioni riflettono l’attitudine spontanea dei musulmani a proteggere l’assoluta trascendenza divina dalle tendenze antropomorfe o idolatre, in modo tale, che ne risulti un divieto di fatto, anche se non giuridicamente fondato. L’idea di fondo di questa concezione è che l’immagine rinvii a una realtà troppo sacra per essere materializzata; l’arte non potrà fare a meno della calligrafia e i versetti coranici prenderanno la forma di un animale, di un uomo, di una barca o di un edificio. (…)
Il principale oppositore delle rappresentazioni umane fu lo shāfi’īta Al- Nawawī del XIII secolo, secondo il quale, in base ad un hadīth, bisognava evitare le rappresentazioni che portassero ombra, la quale darebbe maggior risalto alle forme del corpo; questa è un’interpretazione restrittiva che proibirebbe di fatto la statuaria, di cui, infatti, non possediamo grandi esempi artistici. Nel 1898 però furono scoperti gli affreschi di Qusayr ‘Amrā risalenti al periodo ommaiade. Questi non erano un caso eccezionale, ma si inserivano in un repertorio artistico comune del tempo, e mettevano di fatto in crisi le tesi contrarie alle immagini avanzate sino a quel momento. Ali Enani sostiene che lo stesso Corano contenga il divieto: traduce infatti ansāb (Sura V,92) che comunemente significa idoli con bilder, ovvero ritratti. Questa, però, tra le posizioni degli studiosi musulmani, è tra le più estreme; altri si interrogano se la proibizione si debba riferire ad alcune forme di arti figurative o se la si debba considerare assoluta. I modernisti che si richiamano a Mohammed Abduh, ritengono che l’Islam sia stato contrario alle rappresentazioni umane, fino a quando potevano essere di appoggio all’idolatria o alla diffusione di qualche malcostume: il divieto per quanto riconosciuto dagli ulemā (giuristi), spesso non veniva osservato a causa dello scarso zelo religioso, come nel periodo ommaiade, o per l’opposizione delle tradizioni artistiche come avvenne in Persia. Con lo sviluppo, in ambito bizantino, della reazione iconoclasta, che raggiunse il suo apice durante VIII secolo, periodo di formazione del diritto musulmano, si vennero a creare le condizioni per una diffusione e affermazione di alcuni hadīth che limitavano la produzione figurativa. Pur tuttavia il sistema giuridico era ancora in costruzione e gli Ommaiadi ebbero ampio spazio per i propri progetti edili e di abbellimento delle proprie corti, poiché il divieto non costituiva ancora un valore normativo.
Quindi non nel Corano si trovano divieti espliciti, ma è negli hadīth che è contenuto il divieto dato agli uomini di cancellare con una rasatura perfetta i tratti primigeni del volto di Adamo30 e di riprodurre raffigurazioni naturalistiche, per non mettersi in competizione con Dio, l’unico che può realizzare opere dotate di vita. La “fabbricazione” di Adamo non è imitabile e gli esseri più vicini a Dio non hanno la “ricetta” relativa».
(A. Lombardo, Le immagini nel mondo musulmano. Quale diritto?)
Uno stralcio dalle disposizioni del Secondo concilio di Nicea (787)
«Alcuni, dunque, incuranti di questo dono, come se avessero ricevuto le ali dal nemico ingannatore, hanno deviato dalla retta ragione opponendosi alla tradizione della chiesa cattolica, non hanno più raggiunto la conoscenza della verità. E, come dice il proverbio, sono andati errando per i viottoli, del proprio campo e hanno riempito le loro mani di sterilità; hanno tentato, infatti, di screditare le immagini dei sacri monumenti dedicati a Dio; sacerdoti, certo, di nome, ma non nella sostanza. Di questi il Signore dice cosi nella profezia: Molti Pastori hanno devastato la mia vigna; hanno contaminato la mia parte, seguendo, infatti, uomini scellerati, e trascinati dalle loro passioni, hanno accusato la santa chiesa, sposata a Cristo Dio, e non distinguendo il sacro dal profano, hanno messo sullo stesso piano le immagini di Dio e dei suoi santi e le statue degli idoli diabolici. (…)
Noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che orali. Una di queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini, che giova senz’altro a confermare la vera e non fantastica incarnazione del Verbo di Dio, e ha una simile utilità per noi infatti, le cose, che hanno fra loro un rapporto di somiglianza, hanno anche senza dubbio un rapporto scambievole di significato.
In tal modo, procedendo sulla via regia, seguendo in tutto e per tutto l’ispirato insegnamento dei nostri santi padri e la tradizione della chiesa cattolica riconosciamo, infatti, che lo Spirito santo abita in essa noi definiamo con ogni accuratezza e diligenza che, a somiglianza della preziosa e vivificante Croce, le venerande e sante immagini sia dipinte che in mosaico, di qualsiasi altra materia adatta, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, nelle sacre suppellettili e nelle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della immacolata Signora nostra, la santa madre di Dio, degli angeli degni di onore, di tutti i santi e pii uomini. Infatti, quanto più continuamente essi vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di latria, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi, com’era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta; e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto. (…)
Chi, perciò, oserà pensare o insegnare diversamente, o, conformemente agli empi eretici, o oserà impugnare le tradizioni ecclesiastiche, o inventare delle novità, o gettar via qualche cosa di ciò che è consacrato a Dio, nella chiesa, come il Vangelo, l’immagine della croce, immagini dipinte, o le sante reliquie dei martiri, o pensare con astuti raggiri di sovvertire qualcuna delle legittime tradizioni della chiesa cattolica; o anche di servirsi dei vasi sacri come di vasi comuni, o dei venerandi monasteri (come di luoghi profani), in questo caso, quelli che sono vescovi o chierici siano deposti, i monaci e i laici, vengano esclusi dalla comunione».
Ecco infine dei materiali su un documento storico poco conosciuto: i Libri Carolini (Treccani).
I Libri carolini sono una polemica, assai aspra, contro il secondo concilio di Nicea (VII ecumenico; 787) che riconobbe il culto delle immagini. Ma la polemica è fondata sopra l’imperfetta traduzione latina degli Atti del Concilio (fu poi rifatta da Anastasio bibliotecario), che rendeva molto infelicemente proskynesis (prosternazione) con l’ambiguo termine adoratio, e su altri equivoci (Pincherle). L’opera doveva confutare le disposizioni sul culto delle immagini formulate in ventidue canoni disciplinari dal concilio di Nicea del 787. Incerti sono gli artefici e la data della stesura dei Libri Carolini, posti più o meno direttamente in relazione con il concilio di Francoforte del 794, presieduto dallo stesso imperatore, che deliberò la condanna dei canoni niceni. I Libri Carolini prefigurano la condanna dei canoni niceni giudicandoli non scevri da tendenze all’iconolatria; nel complesso, stigmatizzano come peccato qualunque forma di culto delle immagini, ma insieme ne affermano la liceità del possesso, prendendo chiaramente le distanze dalle posizioni degli iconoclasti. Le immagini sono oggetti materiali, manufatti estranei alla sfera del sacro: la parola divina non è rivelata in esse, ma va cercata nel Vecchio e nel Nuovo Testamento “non in picturis, sed in Scripturis” (Réfice).

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Alcuni link utili
Francesco Arduini, La disputa iconoclasta Indagine sulle ragioni in InStoria
Andrea Lombardo, Le immagini nel mondo musulmano. Quale diritto? in Diritto e questioni pubbliche
Vito Augugliaro, I Libri Carolini sive Caroli Magni Capitulare de imaginibus di Teodulfo d’Orléans in Spolia
Disposizioni del secondo concilio di Nicea 787, Mansi, Concilia, Tomo XII.
Libri Carolini sive Capitulare de imaginibus , Bibliothèque nationale de France, Bibliothèque de l’Arsenal, Ms-663 (IX-X secolo)
Enluminure en Islam sito della mostra della Bibliothèque nationale de France
Jami’ al-Tawarikh (Storia del mondo), di Rashid al-Din, Persia, 1307 ca. (una delle opere dove si può vedere l’immagine di Maometto).
Arazzo di Bayeux
Ottobre 14, 2014 / Leave a comment
La battaglia di Hastings ebbe luogo il 14 ottobre 1066
Ramadan, digiuno e festa
Giugno 29, 2014 / Leave a comment

Ramadan è il nono mese dell’anno lunare musulmano. Una prescrizione coranica stabilisce che in questo mese, nel quale avvenne la prima rivelazione, i musulmani debbano quotidianamente osservare, dall’aurora al tramonto, l’astinenza totale da cibi e bevande e dai rapporti sessuali (più tardi anche dal fumare). Le notti sono dedicate a pratiche devozionali e a festeggiamenti. La festività del piccolo bairam (in arabo al-‛īd aṣ–ṣaghīr “la festa piccola” o ‛īd al–fiṭr “la festa della rottura del digiuno”), ricorrente nel primo giorno di shawwāl, decimo mese dell’anno lunare musulmano, segna la fine del ramadan. (Treccani)
San Giovanni Battista negli Acta Sanctorum
Giugno 24, 2014 / Leave a comment

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San Giovanni negli Acta Sanctorum (parte 1) Download
San Giovanni negli Acta Sanctorum (parte 1) Download .
«Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei. All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta, e scrisse: “Giovanni è il suo nome”. Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. (…) Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele». (Luca 1:57-65, 80) La festa della Natività di San Giovanni Battista era celebrata il 24 giugno fin dai tempi di Sant’Agostino (354-430). La data venne determinata in relazione alla data di nascita di Gesù, fissata al 25 dicembre: quella di Giovanni doveva essere celebrata sei mesi prima, secondo quanto annunciò l’arcangelo Gabriele a Maria.
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San Giovanni elemosiniere
Giugno 24, 2014 / Leave a comment
Giovanni l’Elemosiniere (gr. ᾿Ελεήμων, propr. “il Misericordioso”), santo. Patriarca di Alessandria d’Egitto (n. Amatunte, Cipro – m. ivi 619 circa). Inviato ad Alessandria dall’imperatore Eraclio, dopo l’uccisione di Foca (610), combatté il monofisismo, la simonia e altri abusi del clero; si dedicò a grandi opere di beneficenza soccorrendo e visitando i poveri: fu per questo chiamato “elemosiniere”. Festa, 23 gennaio (presso i Greci, 12 novembre). E’ patrono dei cavalieri ospitalieri.

https://www.academia.edu/7439227/Legenda_aurea_ed._G._P._Maggioni_De_sancto_Iohanne_elemosinario