Ogni tanto, quando sono in giro per altri motivi, mi piace
approfittare dell’occasione per vedere monumenti, piazze, edifici, affreschi,
sculture per il puro gusto di riprenderci contatto. Qualcosa tra la flânerie,
la scoperta, la visita e lo studio. È andata così che ho portato mio marito a
vedere la botola dell’inferno nella chiesa di Sant’Agostino, a Lucca, solo per
trovare la scusa di ripercorrere questa vecchia leggenda.
San’Agostino fu ricostruita nel XIV secolo in posizione addossata ai resti delle mura romane. L’interno è seicentesco e nella cappella laterale destra campeggia sull’altare l’immagine della Madonna del Sasso. L’opera, secondo Isa Belli Barsali[1], non è di particolare pregio ma presenta sulla spalla destra un segno che può far pensare a un buco. Su questo dettaglio la religiosità popolare ha costruito la storia del sasso lanciato in spregio alla Madonna da un uomo che non aveva visto esaudite le proprie preghiere.
Anonimo, Madonna del Sasso, chiesa di Sant’Agostino, Lucca, ca. XII sec.
Non esiste un vero e proprio fondamento agiografico, il primo che ne riferisce è l’erudito Daniele De Nobili (1582 – 1648) raccontando di una tradizione iniziata nel ‘400 e primariamente diffusa per trasmissione orale. Tra le versioni a stampa, una delle più antiche è quella di Cesare Franciotti: (1557 – 1627), che racconta la leggenda così:
In quella parte dei muri della Città, dove è hora la chiesa di S. Agostino, e già quella di S. Salvatore in muro, trovandosi dipinta pur’ una sacra Imagine di lei col Bambino in braccio, et accadendo che ivi per contra uno scelerato, et empio giocatore, per collera entrato in disperatione, tirò empiamente un sasso verso la detta Imagine, la percosse nella spalla, d’onde miracolosamente uscì sangue, di cui anco si vedono nella Imagine i segni, et le stille: fù da pia mano con bambagia raccolta quella parte, che cadè abbasso, et fino ad hoggi si conserva in vaso decente, e si mostra a chi vuole vederlo. Seguì però subito il castigo nella persona del sacrilego giocatore, per che la terra in quell’istesso luogo apertasi (come anco hoggi si vede) vivo lo divorò rimanendo aperta per ammaestramento de’ fedeli, et per segno della Divina giustitia[2].
Alla leggenda fu poi aggiunto il dettaglio che l’uomo scellerato era un soldato e anche oggi si può vedere la botola che lo inghiottì protetta da un pannello di ferro. Sopra, in perfetta coincidenza, è posto il dipinto che raffigura l’uomo inghiottito dalla voragine da cui fuoriescono fiamme mentre soldati e cittadini lucchese assistono all’evento[.
Giacinto Gimignani, Miracolo della Madonna del Sasso, chiesa di Sant’Agostino, Lucca, ca. 1648.
Sotto il dipinto e sopra la botola è posta una lastra di marmo che porta incisa la memoria di questo miracolo: Proluat ut culpam dat virgo / sanguinis undam / at cadit ignorans impius / esse piam (per lavare la colpa, la Vergine emette il fiotto di sangue, ma l’empio cade ignorando la sua clemenza). Niente fa pensare che si tratti di qualcosa di più di una leggenda popolare ma è bello ricordarla.
[1] Isa Belli Barsali; Lucca : guida alla città,
M. Pacini Fazzi, Lucca, 1988, p. 72.
[2] Cesare Franciotti, Historie delle miracolose imagini, e delle vite de’ Santi, i corpi de’ quali sono nella città di Lucca, appresso Ottaviano Guidoboni, Lucca, 1613, p. 494.
L’istruzione universitaria italiana offre molti percorsi post lauream eccellenti nelle discipline umanistiche: in Storia, Archivistica, Archeologia e Storia dell’Arte. Nonostante la ricchezza e la proliferazione di percorsi specifici quali master e scuole di specializzazione manca ancora, però, un’offerta rivolta a coloro che, provvisti di un titolo di laurea magistrale in discipline umanistiche o architettoniche, intendano ampliare il proprio bagaglio di conoscenze alla metodologia della ricerca storica e all’utilizzo e alla consapevolezza delle fonti documentarie, artistiche e archeologiche.
Per tali motivi, dopo un complesso lavoro scientifico di collazione tra i vari percorsi e curricula dei master esistenti in Italia, LUMSA e Accademia Maria Luisa di Borbone hanno pensato ad un nuovo modo di “conoscere” la documentazione presente nei nostri ricchissimi archivi. È nato così il master biennale di 2° Livello in Analisi delle Fonti e Metodologia della Ricerca Storica, che mira a fornire un approccio completo alla metodologia indispensabile a guidare coloro che saranno interessati nel mondo della ricerca. L’idea è quella di introdurre il laureato nell’ambiente della ricerca attraverso insegnamenti specifici e specialistici di Storia, dal Medioevo all’Età Contemporanea, arricchendo il percorso con Storia della Chiesa, Storia degli ordini cavallereschi e Storia delle dinastie.
Il percorso è stato poi arricchito con la conoscenza approfondita dell’Archivistica e pensato come cantiere di esperienze seminariali di stampo teorico e pratico. Uno stage e un elaborato finale concluderanno il master. In definitiva, tale itinerario formativo si propone come orientamento al mondo del lavoro e della ricerca ma con nuovi approcci in particolare nei confronti delle discipline storico-documentarie. Tra gli sbocchi occupazionali sarà possibile ottenere crediti formativi universitari utili per l’abilitazione alle varie classi di concorso per l’insegnamento nella scuola di primo e secondo grado, nonché costituire un titolo di specializzazione per concorsi pubblici.
Coloro che concluderanno il percorso, inoltre, otterranno titoli e conoscenze utili per diventare direttori, dirigenti, funzionari e dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in particolare per gli Archivi di Stato, per le Università, per enti pubblici e privati di natura economica, scolastica, documentaristica e di ricerca, enti locali come Comuni e Fondazioni, personale preposto a servizi statistici, a biblioteche, a mezzi di diffusione telematica della documentazione, nonché a ruoli di dirigenza di opere di restauro architettonico per i quali sia prevista non solo la laurea in Architettura, ma anche un titolo specialistico di conoscenza della storia e delle fonti per una corretta ricostruzione “storica” del bene culturale sul quale si lavora. Possibilità di sbocco nella varie soprintendenze archivistiche e bibliografiche, per i beni artistici e architettonici e paesaggistici.
LUMSA e Accademia Maria Luisa di Borbone, inoltre, per permettere un’ampia partecipazione al master, hanno bandito anche due borse di studio a totale copertura delle quote di partecipazione ai corsi. Le iscrizioni terminano il 20 settembre 2018.
Santa Gertrude che gira il fuso con gatto. Ore di Maastricht, Paesi Bassi (Liegi), inizi XIV secolo, Stowe MS 17, c. 34r
Questa figura femminile che lavora insieme al felino che le tiene il fuso è Santa Gertrude protettrice dei gatti. Nata nel 626, alla morte del padre si fa monaca con la madre Itta e la sorella Begga. La madre trasforma il castello di famiglia in un monastero misto e Gertrude ne diventa la badessa, subito dopo di lei. Gertrude cerca un’approfondita conoscenza delle Sacre Scritture così chiama dall’Irlanda monaci dotti nelle Scritture e manda gente a Roma per rifornire la comunità di libri liturgici. I suoi resti sono sepolti nella chiesa di San Pietro a Nivelles, che prende il nome di Chiesa di Santa Gertrude nel X secolo. Una leggenda del XV secolo considera la sua intercessione efficace contro le invasioni di ratti e topi. Nell’iconografia medievale, la santa è già associata a ratti e topi che si arrampicano lungo il suo vestito o lungo il bastone. La sua complicità con i gatti sarebbe l’origine del suo potere di intercessione per far fuggire i roditori. Secondo la tradizione invocare Santa Gertrude serve anche per guarire o recuperare i gatti persi. La donna morì il 17 Marzo 659 e il suo corpo venne deposto in una cappella che poi diventerà chiesa e basilica.
Bassorilievo raffigurante Santa Gertrude e topi o topi a Utrecht
Statua di Santa Gertrude, Collegiata di Santa Gertrude, Nivelles
Collegiata del convento di Santa Gertrude a Nivelles
Santa Gertrude di Nivelles negli Acta Sanctorum:
Vita sanctae Geretrudis, in Monumenta Germaniae historica
Bibliografia.: Vita, in Acta Sanctorum, marzo, II, p. 592; ediz. critica di B. Krusch, in Monum. Germ. Hist., Script. Rerum Meroving., II (1888), p. 447 segg.; cfr. J. Ghesquière, Acta Sanct. Belgii, III, Bruxelles 1785, p. 141 segg.
I Re Magi in viaggio scolpiti nella facciata del Duomo di Fidenza; sopra al bassorilievo i tre nomi: Caspar, Baltasar e Melchior.
I Magi, erano sacerdoti dell’antica religione persiana (probabilmente zoroastriani) cui tarde tradizioni greche attribuivano doti di astrologi e indovini. Il vangelo non dice il loro numero ma solo che, guidati da una stella, giunsero a Betlemme per onorare Gesù, portandogli in dono oro, incenso e mirra. La più tarda tradizione agiografica li chiamò “re” fissandone il numero a tre, in ragione del numero di doni che portavano, ma non mancano autori che parlano di due, quattro o sei Magi.
Viaggio dei Re Magi (con peccato originale). Bonanno Pisano , formella del portale del duomo di Pisa, 1180.
La narrazione di Marco Polo
De la grande provincia di Persia: de’ 3 Magi.
Persia si è una provincia grande e nobole certamente, ma ‘l presente l’ànno guasta li Tartari. In Persia è l[a] città ch’è chiamata Saba, da la quale si partiro li tre re ch’andaro adorare Dio quando nacque. In quella città son soppeliti gli tre Magi in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co’ capegli: l’uno ebbe nome Beltasar, l’altro Gaspar, lo terzo Melquior. Messer Marco dimandò piú volte in quella cittade di quegli 3 re: niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano 3 re soppelliti anticamente. Andando 3 giornate, trovaro uno castello chiamato Calasata, ciò è a dire in francesco ‘castello de li oratori del fuoco’; e è ben vero che quelli del castello adoran lo fuoco, e io vi dirò perché. Gli uomini di quello castello dicono che anticamente tre lo’ re di quella contrada andarono ad adorare un profeta, lo quale era nato, e portarono 3 oferte: oro per sapere s’era signore terreno, incenso per sapere s’era idio, mirra per sapere se era eternale. E quando furo ove Dio era nato, lo menore andò prima a vederlo, e parveli di sua forma e di suo tempo; e poscia ‘l mezzano e poscia il magiore: e a ciascheuno p[er] sé parve di sua forma e di suo tempo. E raportando ciascuno quello ch’avea veduto, molto si maravigliaro, e pensaro d’andare tutti insieme; e andando insieme, a tutti parve quello ch’era, cioè fanciullo di 13 die. Allora ofersero l’oro, lo ‘ncenso e la mirra, e lo fanciullo prese tutto; e lo fanciullo donò a li tre re uno bossolo chiuso. E li re si misoro per tornare in loro contrada.
De li tre Magi.
Quando li tre Magi ebbero cavalcato alquante giornate, volloro vedere quello che ‘l fanciullo avea donato loro. Aperso[r]o lo bossolo e quivi trovaro una pietra, la quale gli avea dato Idio in significanza che stessoro fermi ne la fede ch’aveano cominciato, come pietra. Quando videro la pietra, molto si maravigliaro, e gittaro questa pietra entro uno pozzo; gittata la pietra nel pozzo, uno fuoco discese da cielo ardendo, e gittòssi in quello pozzo. Quando li re videro questa meraviglia, pentérsi di ciò ch’aveano fatto; e presero di quello fuoco e portarone in loro contrada e puoserlo in una loro chiesa. E tutte volte lo fanno ardere e orano quello fuoco come dio; e tutti li sacrifici che fanno condisco di quello fuoco, e quando si spegne, vanno a l’orig[i]nale, che sempre sta aceso, né mai non l’accenderebboro se non di quello. Perciò adorano lo fuoco quegli di quella contrada;e tutti li sacrifici che fanno condisco di quello fuoco, e quando si spegne, vanno a l’orig[i]nale, che sempre sta aceso, né mai non l’accenderebboro se non di quello. Perciò adorano lo fuoco quegli di quella contrada; e tutto questo dissero a messer Marco Polo, e è veritade. L’uno delli re fu di Saba, l’altro de Iava, lo terzo del Castello.
(Marco Polo, Il Milione,a cura A. Lanza, Editori riuniti, Roma, 1981)
Il sogno dei Magi, Anonimo lombardo sec. XIV, Como, Sant’Abbondio, Storie della vita di Cristo, affreschi dell’abside
L’incontro con Erode, Anonimo lombardo sec. XIV, Como, Sant’Abbondio, Storie della vita di Cristo, affreschi dell’abside
Adorazione, Anonimo lombardo sec. XIV, Como, Sant’Abbondio, Storie della vita di Cristo, affreschi dell’abside
La narrazione del vangelo di Matteo
Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Matteo 2, 1-12 (Bibbia CEI)
Il sogno dei Re Magi, Taymouth Hours, Inghilterra, XIV sec . British Library, Yates Thompson MS 13.
L’adorazione dei Magi – Evangeliario Vaticano Latino 39, sec. XIII – Biblioteca Apostolica Vaticana
I tre Magi di ritorno nel loro paese d’origine, Lezionario di Spira, 1200 ca., Bruchsal Codex, Karlsruhe, Landesbibliothek (segnalazione di O. Ciprotti).
Il re mago Melchiorre. Particolare dell’affresco della Cappella dei Magi, Benozzo Gozzoli, 1459 ca. Palazzo Medici Riccardi, Firenze
Il re mago Gaspare. Particolare dell’affresco della Cappella dei Magi, Benozzo Gozzoli, 1459 ca. Palazzo Medici Riccardi, Firenze (le figure ritraggono Lorenzo il Magnifico, seguito da suo padre Piero e suo nonno Cosimo il Vecchio; dietro di loro il corteo dei fiorentini illustri)
Il re mago Baldassarre. Particolare dell’affresco della Cappella dei Magi, Benozzo Gozzoli, 1459 ca. Palazzo Medici Riccardi, Firenze (la figura ritrae Giovanni VIII Paleologo imperatore bizantino che partecipò al Concilio di Ferrara e Firenze per la riunificazione della Chiesa d’Oriente e d’Occidente)
Benozzo Gozzoli, Cappella dei Magi, 1459 – Palazzo Medici Riccardi, Firenze.
Benozzo Gozzoli, Cappella dei Magi, 1459 – Palazzo Medici Riccardi, Firenze.
Benozzo Gozzoli, Cappella dei Magi, 1459 – Palazzo Medici Riccardi, Firenze.
Benozzo Gozzoli, Cappella dei Magi, 1459 – Palazzo Medici Riccardi, Firenze.
La traslazione delle reliquie
Le reliquie dei Re Magi sono conservate a Colonia, nella cattedrale dei Santi Pietro e Maria, appositamente costruita per ospitarle. Giovanni di Hildesheim (†1375), teologo, maestro alla Sorbona e priore di Kassel, raccontò la storia delle reliquie nel Liber de trium regum corporibus Coloniam translatis. Le reliquie erano originariamente conservate nella basilica di Sant’Eustorgio a Milano dove le aveva volute trasportare lo stesso vescovo milanese. Eustorgio, con l’approvazione dell’imperatore Costante, aveva fatto giungere i resti dalla basilica di Santa Sofia a Costantinopoli dove erano stati portati da sant’Elena, che li aveva ritrovati durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa. Intorno ai resti Eustorgio aveva fatto costruire, verso l’anno 344, la basilica che porta il suo nome. Tutt’oggi, nel transetto destro, si trova la cappella dei Magi in cui è conservata una grande arca vuota che reca l’iscrizione Sepulcrum Trium Magorum. Quando il Barbarossa mise a sacco la città portò con sé le reliquie dei Re Magi e le donò all’arcivescovo di Colonia, Rainaldo di Dassel, che era in conflitto con il papa di Roma. Rainaldo di Dassel, nel 1164, trasferì i corpi attraverso Lombardia, Piemonte, Borgogna e Renania, fino a Colonia.
Adorazione dei Magi, capsella dei Santi Quirico e Giulietta, marmo, V sec d.c., da San Giovanni Battista, Ravenna, Museo Arcivescovile
Il Sogno dei Magi, capitello della chiesa di Saint Lazare – Autun (segnalazione di R. Massagli)
Adorazione dei Magi, Sarcofago di Isacio (Esarca di Ravenna, 620-637), San Vitale – Ravenna (segnalazione di B. Giardina)
Adorazione dei Magi, rilievo frammentario, inizio sec. XIII – Scultore antelamico – Castello Sforzesco – Milano (segnalazione di S. Viotti)
Adorazione dei Magi – Polittico in marmo sopra l’altare della cappella dei Magi – Sant’Eustorgio – Milano
Cappella dei Magi – Transetto di Sat’Eustorgio – Milano
Arca dei Magi – Capella dei Magi – Sant’Eustorgio – Milano
Arca dei Magi (Dreikönigenschrein) – Duomo di Colonia
Arca dei Magi (Dreikönigenschrein) – Duomo di Colonia
Adorazione dei Magi – Dettaglio dell’Arca dei Magi (Dreikönigenschrein) – Duomo di Colonia
Lavorando sull’odeporica (diari di viaggio e di pellegrinaggio) si incontrano spesso leggende apocrife con sviluppi e tradizioni proprie. Una delle più gentili e piene di tenerezza quotidiana è quella del giardino del balsamo, nell’oasi di Matarea, oggi Matarieh, sobborgo del Cairo.
L’episodio che molti viaggiatori del pieno e tardo Medioevo narrano è riferito alla vicenda della fuga in Egitto. Giuseppe, come riporta il vangelo di Matteo, viene avvertito di portare in salvo il bambino e la madre per sottrarli alla persecuzione di Erode il Grande, re della Giudea, allora sotto il protettorato romano. Il resto proviene dal vangelo arabo dell’infanzia, facente parte della serie degli apocrifi. I fuggiaschi incontrano l’oasi di Matarea dove il bambino fa sgorgare una sorgente. La madre lava la sua camicia in quell’acqua e dove cadono le gocce dei panni stesi ad asciugare nasce in quel giardino il balsamo. La leggenda è risalente al XIII secolo e può essere un’interpolazione dell’apocrifo (Craveri).
La Fuga in Egitto di Giotto e bottega nel transetto destro della basilica inferiore di Assisi
Vangelo di Matteo
Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode sta per cercare il bambino per farlo morire». Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre, e si ritirò in Egitto. Là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: «Fuori d’Egitto chiamai mio figlio» (Es 1, 15). Mt 2, 13-15
Vangelo arabo dell’infanzia
Da qui si diressero alla (città del) famoso sicomoro, che oggi si chiama Matarea, e a Matarea il Signore Gesù fece sgorgare una fontana nella quale santa Maria lavò la sua tunica. E dal sudore del Signore Gesù, che essa fece lì gocciolare, si produsse in quella regione il balsamo. Vangelo dell’infanzia arabo siriaco, in I vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino, 1990, p. 127.
Laurenziana, Ms. 387, c. 5r
Il racconto di Leonardo Frescobaldi nel 1385
Questo luogo della Materia è quel luogo dove prima si riposò nostra Donna innanzi che entrasse nel Cairo. E ivi avendo sete, lo disse al suo fanciullino Cristo Gesù, ed egli col piede razzolò in terra, e ivi di subito nacque una grandissima fonte e copiosa di buona acqua. E quando si furono riposati, ella lavò colle sue santissime mani i pannicelli del fanciullo; e lavati che gli ebbe, gli tese a rasciugare in su certi arbuscellini di grandezza di mortine di due anni; le loro foglie sono come di basilico, e da quel punto in qua quegli arbuscelli sempre hanno menato e menano balsimo che più non ne nasce nel mondo (…).
Questo fattore [il turcimanno Elia n.d.r.] ci menò a vedere il giardino e come si coglie il balsimo, il quale si coglie in questo modo: che levano di quelle foglie che sono intorno al gambo come di basilico, e di quindi esce certe gocciuole bianche a modo di lattificio di fico, e con un poco di bambagia ricolgono questo liquore; e quando hanno inzuppata la bambagia, la premono colle dita in una ampoluzza, e penasi un gran pezzo ad averne un poco. In questo luogo stemo tutto questo dì, e per simonia n’ebbi tutto quello che si colse e parecchie altre ampolluzze, e così n’ebbe alcuno de’ compagni, ma minore quantità.
In questo giardino si è un fico di Faraone, il quale ha un ramo cavato, dove nostra Donna pose il fanciullo mentre ch’ella lavò i panni. E sappiate che per tutto questo paese per insino al Cairo non è altra acqua, e con questa innacquano tutta la contrada con certi anificii che fanno volgere a’ buoi; e mai non vogliono volgere dal sabato sera a vespro insino al lunedì mattina. In questo luogo recamo ogni nostro guernimento,salvo che acqua, per passare ‘l diserto, e quivi al tardi empiemo i nostri otri d’acqua e caricamo i nostri cammelli, mettendoci nel nome di Cristo per lo diserto, tenendo verso il mare Rosso per fare la via di Santa Caterina.
Leonardo Frescobaldi, Viaggio in Terrasanta (1385), in Pellegrini scrittori: viaggiatori toscani del Trecento in Terrasanta, a cura di Antonio Lanza e Marcellina Troncarelli, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990.
Il racconto di Marco di Bartolomeo Rustici
Inverso levante e tramontanaIn Egitto vi sta una villa acasata, chiamasi la Mattalia, nella quale quando la vergine Maria madre di Cristo fugiva in Egitto per la persecuzione di Erode col suo figliuolo santissimo Iesù Cristo, insieme col vechierello Giusepo andando di drieto all’asino. E in quelo luogo le venne grande sete, lei subito il guardando in faccia i·suo santo figliuolo, dicendo: «Io ho sete»; di onde lei beve Gioseppe, e poi in questa acqua lei lavò gli panni al suo figliuolo. Lavato ch’ebe gli panni, quante gocciole d’acqua cade da quelli panni di Cristo tanti albori mi nascerono, e quelli fanno il balsimo. E avisandovi che i·niuna parte del mondo si truova balsimo acetto che in questo luogo.
Marco di Bartolomeo Rustici, Dimostrazione dell’andata e viaggio al Santo Sepolcro e al Monte Sinai, (1442-1457), a cura di K. Olive e N. Newbigin, in Codice Rustici, vol. 2, Firenze, Olschki, 2015, p. 222.
Historia Plantarum, XIV sec., Biblioteca Casanatense di Roma, Ms. 459, c. 33v
Il balsamo
“Il balsamo si trova presso Babilonia in un certo campo in cui vi sono sette fonti. Se si trasferisce altrove non fa né fiori né frutti. In estate i suoi rami si incidono con un coltello non tropo profondamente per far fuoriuscire il succo. Le gocce si raccolgono in vasi di vetro sospesi in corrispondenza delle incisioni. Il succo ha virtù energica, ma è molto costoso”.
Historia Plantarum, a cura di V. Segre Rutz, Cosimo Panini Editore.
Nato probabilmente a Pàtara di Licia, in Asia Minore (attuale Turchia), è poi eletto vescovo di Mira, nella stessa Licia. Un passionario del VI secolo afferma che ha subito le ultime persecuzioni antecedenti Costantino, e che è intervenuto nel 325 al Concilio di Nicea.
Nicola muore il 6 dicembre di un anno incerto e il suo culto si diffonde dapprima in Asia Minore: 25 chiese dedicate a lui a Costantinopoli nel VI secolo. La sua tomba, posta fuori dell’abitato di Mira, richiama pellegrinaggi. Moltissimi scritti in greco e in latino lo fanno via via conoscere nel mondo bizantino-slavo e in Occidente, cominciando da Roma e dal Sud d’Italia, soggetto a Bisanzio.
Oltre sette secoli dopo la sua morte, quando in Puglia è subentrato il dominio normanno, Nicola di Mira diventa Nicola di Bari. Sessantadue marinai baresi, sbarcati nell’Asia Minore (già soggetta ai Turchi) arrivano al sepolcro di Nicola e s’impadroniscono dei suoi resti, che il 9 maggio 1087 giungono a Bari.
Dopo la collocazione provvisoria in una chiesa cittadina, il 29 settembre 1089 esse trovano sistemazione definitiva nella cripta, già pronta, della basilica che si sta innalzando in suo onore. E’ il Papa in persona, Urbano II, a deporle sotto l’altare. Nel 1098 lo stesso Urbano II presiede nella basilica un concilio di vescovi, tra i quali alcuni “greci” dell’Italia settentrionale (è già avvenuto lo scisma d’Oriente). Nella cripta c’è anche una cappella orientale, dove i cristiani ancora “separati” dal 1054 possono celebrare la loro liturgia.
Nell’iconografia San Nicola è facilmente riconoscibile perché tiene in mano tre sacchetti (talvolta riassunti in uno solo) di monete d’oro, spesso resi più visibili sotto forma di tre palle d’oro. Racconta la leggenda che nella città dove si trovava il vescovo Nicola, un padre, non avendo i soldi per costituire la dote alle sue tre figlie, avesse deciso di mandarle a prostituirsi. Nicola, venutone a conoscenza, fornì tre sacchietti di monete d’oro che costituirono quindi la dote delle ragazze.
Il suo culto (patrono dei naviganti, delle fanciulle e degli scolari) raggiunse il culmine verso la fine del Medioevo, e le sue leggende furono celebrate in pitture e in sacre rappresentazioni. Nell’Europa centro-settentrionale e orientale la sua figura corrisponde a quella di Babbo Natale: per la sua festa (6 dicembre) si scambiano doni e, fin dal XIII secolo, si eleggeva in quel giorno il “vescovo dei fanciulli”. Con la Riforma, questi usi furono per lo più trasferiti al Natale e il nome Sanctus Nicolaus si corruppe in Santa Claus.
Prima della conversione al cristianesimo, il folklore tedesco narrava che Odino ogni anno tenesse una grande battuta di caccia nel periodo del solstizio invernale accompagnato dagli altri dei e dai guerrieri caduti.
La tradizione voleva che i bambini lasciassero i propri stivali nei pressi del caminetto, riempendoli di carote, paglia o zucchero per sfamare il cavallo volante del dio. In cambio, Odino avrebbe sostituito il cibo con regali o dolciumi. Questa pratica è sopravvissuta in Belgio e Paesi Bassi anche in epoca cristiana, associata alla figura di san Nicola.
I bambini, ancor oggi, appendono al caminetto le loro scarpe piene di paglia in una notte d’inverno, perché vengano riempite di dolci e regali da san Nicola. Anche nell’aspetto, quello di vecchio barbuto dall’aria misteriosa, Odino era simile a san Nicola.
La tradizione germanica arrivò negli Stati Uniti attraverso le colonie olandesi di New Amsterdam (rinominata dagli inglesi in New York) prima della conquista britannica del XVII secolo.
Un’altra tradizione folklorica germanica racconta le vicende di un sant’uomo alle prese con un demone che uccideva nei sogni. La leggenda narra di un mostro che si insinuava nelle case attraverso la canna fumaria durante la notte, aggredendo e uccidendo i bambini.
Il sant’uomo cattura il demone imprigionandolo con dei ferri magici (o benedetti). Obbligato ad obbedire agli ordini del santo, il demone viene costretto a passare di casa in casa per fare ammenda portando dei doni ai bambini.
San Nicola resuscita tre fanciulli messi in salamoia, Gentile da Fabriano, 1425. Storie di S. Nicola di Bari, Musei vaticani
San Nicola dona la dote alle fanciulle povere, Gentile da Fabriano, 1425. Storie di S. Nicola di Bari, Musei vaticani
San Nicola Salva una nave dalla tempesta, Gentile da Fabriano, 1425. Storie di S. Nicola di Bari, Musei vaticani
San Nicola calma la tempesta, Bicci di Lorenzo (1373-1452), Ashmolean Museum, Oxford, Predella d’altare dipinta per San Niccolò in Cataggio, Firenze. La chiesa è stata distrutta nel 1787
La carità di san Nicola, Ambrogio Lorenzetti (1290-1348), Louvre
Basilica di San Nicola, Bari, Italia (XI secolo) – Foto: Centro Studi Nicolaiani
Cripta della basilica di San Nicola, Bari, Italia – Foto: Centro Studi Nicolaiani
Tomba del santo nella cripta della basilica di San Nicola, Bari, Italia
Tomba del santo nella cripta della basilica di San Nicola, Bari, Italia – Foto: Centro Studi Nicolaiani
Icona bizantina, XIV secolo. Tomba del santo nella cripta della basilica di San Nicola, Bari, Italia – Foto: Centro Studi Nicolaiani
Bottiglia di manna. Basilica di San Nicola, Bari, Italia, 2003
Il testo della leggenda di san Nicola in latino
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Jacobi a Voragine, Legenda Aurea: Vulgo Historia Lombardica Dicta, a cura di J. G. T. Grasse, Lipsia, Librariae Arnoldianae, 1850
Il testo della leggenda di san Nicola in italiano
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,1999
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Pinzolo, Chiesa di San Vigilio. La morte e le parole che rivolge agli uomini. Simone Baschenis, Danza Macabra, 1539
Testo:
Io sont la morte che porto corona / Sonte signora de ognia persona / Et cossì son fiera e dura / Che trapaso le porte et ultra le mura / Et son quela che fa tremar el mondo / Revolzendo mia falze atondo atondo.
Ov’io tocco col mio strale / Sapienza, beleza forteza niente vale. / Non è signor, madona nè vassallo / Bisogna che lor entri in questo ballo / Mia figura o peccator contemplarai / Sinche a mi tu diverrai.
Non ofender a Dio per tal sorte / Che al transire non temi la morte, / Che più oltre no me impazo in be’ nè in male, / Che l’anima lasso al giudice eternale. / E come tu avrai lavorato / Lassù hanc sarai pagato.
Chiesa di Pinzolo con affreschi
La morte suona la danza
1) Gesù crocifisso con il petto passato da una freccia della morte. 2) Il Papa condotto al ballo da uno scheletro
1) Uno scheletro abbraccia il cardinale. Segue un vescovo vestito degli abiti pontificali. 2) Uno scheletro porta una clessidra con l’iscrizione “ala hora tertia” e conduce un sacerdote. 3) Uno scheletro si tira dietro un frate francescano.
1) Uno scheletro porta una tabella il motto “pensa la fine” e abbraccia l’imperatore. 2) Uno scheletro porta un cartiglio col motto “mors est ultima finis” e abbraccia un re. 3) Uno scheletro porta un cartiglio con la sentenza “memorare novissima tua et in aeternum non peccabis” e invita alla danza una regina. 4) Uno scheletro che porta una traversa con la scritta “Memento homo qui cinis es et in cinerem reverteris” fa danzare un duca.
1) Uno scheletro porta un cartiglio il cui motto non è più leggibile “Est comune mori “, afferra un medico vestito. 2) Uno scheletro spinge avanti un guerriero. 3) Uno scheletro si tira dietro un ricco che offre un bacile di monete d’oro. Al di sopra si legge il cartiglio “O dives dives, non longo tempores vives. Fac bene dum vivis si post mortem vivere velis”. 4) Un giovane elegante è accompagnato da uno scheletro che porta una traversa col motto “semper transire paratus”. 5) Uno scheletro accompagna un mendicante amputato e porta un cartiglio con i versi alterati del Petrarca “Tuti torniamo ala nostra madre antiqua Che apena el nostro nome se ritrova”. 6) Uno scheletro si tira dietro una badessa. Sopra si legge una traversa col motto “Est nostrae sortis transire per hostia mortis”. 7) Uno scheletro tiene una gentildonna. Il cartiglio è illeggibile.
1) Uno scheletro si trascina dietro una vecchia e porta un cartiglio col motto “Omnia fert aetas perficit omnia tempus”. 2) Un piccolo scheletro fa danzare un bambino nudo. In mezzo è posta un’asta a sonagli con due cartigli “Dum tempus habemus operemur bonum” e “A far bene non dimora che in breve tempo passa lora”. 3) uno scheletro alato colpisce con le frecce i gruppi fin qui esposti. 4) L’Arcangelo Michele con la bilancia e la spada sguainata. Uno scudo pendente dall’alto contiene l’iscrizione: “Arcangelo Michel de lanime difensore intercede pro nobis al Creatore”.
Un angelo sostiene un velo su cui è scritto : “Morte struzer non pol chi sempre vive”. 5) Il diavolo con un libro aperto, nel quale stanno scritti i sette peccati capitali e sopra l’iscrizione “Io seguito la morte e questo mio guardeano, d’onde è scripto, li mali oprator che meno al inferno”.
Testo integrale della danza macabra di Pinzolo XVI secolo
Io sont la morte che porto corona / Sonte signora de ognia persona / Et cossì son fiera e dura / Che trapaso le porte et ultra le mura / Et son quela che fa tremar el mondo / Revolzendo mia falze atondo atondo.
Ov’io tocco col mio strale / Sapienza, beleza forteza niente vale. / Non è signor, madona nè vassallo / Bisogna che lor entri in questo ballo / Mia figura o peccator contemplarai / Sinche a mi tu diverrai.
Non ofender a Dio per tal sorte / Che al transire non temi la morte, / Che più oltre no me impazo in be’ nè in male, / Che l’anima lasso al giudice eternale. / E come tu avrai lavorato / Lassù hanc sarai pagato.
O peccator più no peccar no più / Che ‘l tempo fuge et tu no te n’ avedi / Dela tua morte che certeza ai tu ? / Tu sei forse alo extremo et no lo credi / De ricorri col core al bon Jesu / Et del tuo fallo perdonanza chiedi.
Vedi che in croce la sua testa inchina / Per abrazar l’anima tua meschina / O peccatore pensa de costei / La me à morto mi che son signor di ley.
O sumo pontifice de la cristiana fede / Christo è morto come se vede / a ben che tu abia de san Piero al manto / acceptar bisogna de la morte il guanto.
In questo ballo ti cone intrare / Li antecessor seguire et li succesor lasare, / Poi che ‘l nostro prim parente Adam è morto / Sì che a te cardinale no le fazo torto.
Morte cossì fu ordinata / In ogni persona far la intrata / Sì che episcopo mio jocondo / È giunto il tempo de abandonar el mondo.
O Sacerdote mio riverendo / Danzar teco io me intendo / A ben che di Christo sei vicario / Mai la morte fa divario.
Buon partito pilgiasti o patre spirituale / A fuzer del mondo el pericoloso strale / Per l’anima tua può esser alla sicura / Ma contra di me non avrai scriptura.
O cesario imperator vedi che li altri jace / Che a creatura umana la morte non à pace. / Tu sei signor de gente e de paesi o corona regale / Ne altro teco porti che il bene el male.
In pace portarai gentil regina / Che ho per comandamento di non cambiar farina. / O duca signor gentile / Gionta a te son col bref sottile.
Non ti vale scientia ne dotrina / Contra de la morte non val medicina. / O tu homo gagliardo e forte / Niente vale l’arme tue contra la morte.
O tu ricco nel numero deli avari / Che in tuo cambio la morte non vuol danari. / De le vostre zoventù fidar no te vole / Però la morte chi lei vole tole.
Non dimandar misericordia o poveretto zoppo / A la morte, che pietà non li dà intopo. / Per fuzer li piazer mondani monica facta sei / Ma da la sicura morte scapar no poi da lei.
Non giova ponpe o belese / Che morte te farà puzar e perdere le treze. / Credi tu vecchia el mondo abbandonare / Che no pe(s?)a… cu(elo?)… ch (morte?) fa fare.
O fantolino de prima etade / Come sei igenerato tu sei in libertade. / Fate bene tanto che siete in vita / Che come lombra tornerete in sepoltura / De li nostri deliti penitenza fate / Presto…
Come avrete notato Io sont la morte che porto corona è l’incipit della canzone di Branduardi Ballo In Fa Diesis Minore. L’operazione è stata di fondere il testo con una melodia di provenienza diversa: Schiarazula marazula.
Schiarazula marazule da: Il primo libro de’ balli accomodati per cantar et sonar d’ogni sorte de instromenti di Giorgio Mainerio (1585ca-1582) Parmeggiano Maestro di Capella della S. Chiesa d’Aquilegia fu stampato da Angelo Gardano a Venezia nel 1578.
Le parole della canzone conosciuta come Schiarazula marazula sono state composte nella seconda metà del Novecento dal poeta friulano Domenico Zannier, ignorando il testo originale che pare fosse citato in una lettera di denuncia all’inquisizione del 1624 che indicava come donne e uomini di Palazzolo eseguissero questa danza.
Scjaraçule Maraçule
la lusigne e la craçule,
la piçule si niçule
di polvara si tacule.
O scjaraçule maraçule
cu la rucule e la cocule,
la fantate je une trapule
il fantat un trapulon.
Bastone e finocchio,
la lucciola e la raganella,
la piccola si dondola
di polvere si macchia.
Bastone e finocchio,
con la rucola e la noce,
la ragazza è una bugiarda
il ragazzo un bugiardone
Ballo In Fa Diesis Minore
Sono io la morte e porto corona / Io son di tutti voi signora e padrona / E così sono crudele, così forte sono e dura / Che non mi fermeranno le tue mura
Sono io la morte e porto corona / Io son di tutti voi signora e padrona / E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare / E dell’oscura morte al passo andare
Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo / Posa la falce e danza tondo a tondo / Il giro di una danza e poi un altro ancora / E tu del tempo non sei più signora
Non ne ho mai sentito il suono, se non in occasioni didattiche, ma mia madre mi ha sempre raccontato di questa strana cosa che era l’inibizione delle campane nella Settimana Santa. Durante il periodo che precede la Pasqua, in particolare dopo i riti della coena domini (parzialmente riformati da Papa Francesco I), il suono delle campane era ed è inibito in quanto facente parte di un sistema liturgico ben preciso. La campana tutt’oggi è soggetta ai riti della devozione pasquale e in alcune zone, ad esempio, la Domenica delle Palme si cambia il vecchio ramo di ulivo benedetto applicato ai ceppi con il nuovo. In particolare le corde vengono legate ai battagli e le campane da quel momento tacciono. In assenza di campane diventa così necessario un sostituto che consiste in una scatola sonora o più in generale in un oggetto sonoro povero.
In molte parti d’Italia esso non si usa più ma essi erano una vera e propria alternativa, prendevano nomi diversi ed erano utilizzati per segnalare le funzioni liturgiche. Questi crepitacoli prendevano le forme e i nomi di tràccola, raganella, battola in toscana, in sicilia tràccula.Troccole o traccola secondo il DEI deriva dal latino trochus ossia ruota di ferro usata dai ragazzi per divertirsi. In napoletano sono attestate le forme tròcula, battola, raganella. In calabrese toccara. In friulano scraçulon. Taulittas omatraccain sardo.Nel trevigiano esiste il rebegon. Nel ticinesela tarlaca. Per altre forme consultare questo link. Le traccole sono composte di una tavola di legno su cui sono installate delle maniglie di metallo. Agitando la traccola le maniglie metalliche percuotono la parte in legno producendo il suono. In altro tipo di traccola è invece quella con impugnatura a bastone, in cui il suono è ottenuto facendo ruotare la parte superiore dello strumento. Grazie al movimento un lembo di legno batte su di ruota dentata producendo il suono.
Nella gallery e nei video si possono vedere alcuni esempi di crepitacoli.
Se qualcuno ne vuole segnalare altri, lasci il link nei commenti.
Necessita un’integrazione a questo post perché stanno arrivando altri contributi.
Graziano Sbrana segnala che nel pisano si chiama tabella ed era una grossa tavola che aveva sulle due facce dei battenti in metallo che suonavano per scotimento. Dal rumore sgraziato e continuo, deriva, rivolto a chi parla troppo e in modo fastidioso, il seguente modo di dire: ” ma ti ‘heti un po’, se’ peggio della tabella der giovedì santo!”. Questo mi ha fatto ricordare che la mia mamma, cresciuta nella campagna lucchese, usava dire di qualcuno che parlava troppo e in modo fastidioso: “lellì o lullì è una traccola”.
Monica Chiantini segnala che nel Chianti fiorentino si chiamano raganelle, perché il suono prodotto è assimilabile a quello del gracidare della rana. Ma da anche indicazioni sull’etimo. Gabriella Piccinni segnala che a Siena lo strumento si chiama raganella.
Angela Amadei mi segnala che a Crasciana (Bagni di Lucca, Lucca) e si chiama mulinettoBruno Micheletti mi ha mandato le foto dello squatrascione e della giracola di Casabasciana (Bagni di Lucca, Lucca). Sotto potete sentire la registrazione del suono dello squatrascione.
Squatrascione di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Squatrascione di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Squatrascione di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Suono dello squatrascione di Casabasciana
Giracola di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Giracola di Casabasciana (Bagni di Lucca) Lucca
Vincenzo Valenti segnala la trucculiata di Misilmeri, Palermo.
Lucia Costa segnala che nelle valli imperiesi, in mancanza di campane si usa il suono cupo delle conchiglie da segnalazione marina. Nell’imperiese in alcuni paesi, soparattutto a Ceriana, al posto delle conchiglie si usano corni fatti con corteccia di castagno fresca. Durante la Messa cantata della domenica di Pasqua, il suono dei corni è alternato a quello delle tabulae tavolette di legno, su cui battendo un bastone di ferro si produce un particolare suono cupo.
Non è chiaro se il presepe di Greccio si possa considerare il primo mai realizzato: in effetti esistono raffigurazioni della Natività risalenti a prima del IV secolo. Di sicuro il presepe di Greccio è quello più noto ma ciò che pochi sanno è che si tratta di un presepe senza Sacra Famiglia. Secondo la leggenda, nel Natale 1223 dopo il rientro dalla Terra Santa, Francesco d’Assisi fece erigere una mangiatoia e vi portò un asino ed un bue viventi, ma senza la Sacra Famiglia. Fu solo la parola di Francesco a rendere viva la presenza di Gesù. E del resto tutto ciò è estremamente coerente con l’idea del potere del Verbo che spesso si dimentica.
Il racconto evangelico della natività
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. (Lc 2, 1-7)
Tommaso da Celano (†1265)
È degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore. C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme. Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.
[…] e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria.
Vita prima di Tommaso da Celano, cap. XXX, 84-86.
Presepio
di Chiara Frugoni
Avvenire 10-12-2006
Greccio è famosa soprattutto per la rappresentazione del Natale istituita da Francesco nel 1223. Per questo chiese aiuto a un amico, Giovanni, a cui spiegò che avrebbe voluto che il sacerdote celebrasse la messa all’aperto, nella notte stellata, per richiamare «il ricordo di quel Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo… come fu adagiato in una greppia, quando lo misero sul fieno tra il bue e l’asino». Chiese all’amico di fargli trovare la greppia e il fieno; chiese il bue e l’asino, ricordati soltanto dai Vangeli apocrifi (cioè quelli che la Chiesa non ritenne ispirati da Dio). Sorprendentemente però «dimenticò» i protagonisti principali: la Madonna e il Bambino. Non chiese alcun bambino, reale o in immagine, mentre già ai suoi tempi si usava, a Natale, mettere sull’altare una tavola dipinta che rappresentasse la Natività; spesso sacerdoti o ragazzi, debitamente addobbati, si trasformavano in attori, permettendo al pubblico di seguire gli eventi di quella notte straordinaria.
Fu soltanto l’eccellente capacità oratoria di Francesco, che suscitò in un astante una visione, a colmare il vuoto della mangiatoia. A quell’uomo pio «sembrò che il Bambinello giacesse privo di vita nella mangiatoia, e che Francesco gli si avvicinasse e lo destasse da quella specie di sonno profondo». Tommaso da Celano commenta: «per i meriti del santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria».
Con quell’insolita rappresentazione e con la sua predica Francesco lanciò un messaggio preciso (nel 1220 il santo per molti mesi si era trattenuto in Terra Santa, dove si combatteva la quinta crociata): era inutile passare il mare in armi e uccidere in nome della fede. L’importante, per un vero cristiano, era avere Betlemme nel cuore, come appunto in maniera illuminante aveva scritto Tommaso da Celano: per effetto della predica di Francesco «Greccio è di venuta come una nuova Betlemme».
Visti in questa prospettiva acquistano allora un preciso significato quelli che, in un primo momento, potevano sembrare elementi di contorno: il bue, l’asino e il fieno. Infatti in tanti commenti dei Padri della Chiesa (ad esempio Agostino e Gregorio Magno) il bue rappresenta gli ebrei, l’asino i pagani e il fieno l’ostia consacrata. Lo riassume mirabilmente Valafrido Strabone: «Cristo fu adagiato nella mangiatoia perché il corpo di Cristo è posto sull’altare». Il bue e l’asino significano gli ebrei e i pagani che verranno a comunicarsi all’altare.
Il Dio che prospetta Francesco non è il Dio soltanto dei cristiani, ma un Dio creatore di tutto, nei cui piani sono compresi perciò anche gli «infedeli», un Dio che non giudica e non condanna, ma accoglie e redime. A Greccio il Bambino nasce di nuovo attraverso la parola trascinante del santo e l’emozione dei presenti; Betlemme è a Greccio e ovunque nella sorprendente soluzione escogitata da Francesco in risposta al bisogno di liberare con un pellegrinaggio armato i luoghi dell’esperienza terrena di Cristo, propagandato allora dalla Chiesa. La pace fu il punto centrale del progetto di Francesco, instancabilmente ricercata per tutta la vita, pace che coincide con l’essenza stessa del Natale: «Pace in terra agli uomini di buona volontà», annunciano gli angeli nella notte santa (Lc 2,14).
Giotto, La leggenda del presepe di Greccio. Storie di San Francesco, Basilica superiore di Assisi, 1295 – 1299
Anche facendo a meno di risalire fino alla matrice romantica del revival del medioevo, è evidente a tutti che il tema della parastoria medievale è nell’aria da tempo. In questi ultimi anni si sono moltiplicate a dismisura le manifestazioni a tema medievale e le loro modalità hanno dato qualche motivo di perplessità agli studiosi. Per me che mi occupo di mobilità delle persone, di letteratura di viaggio medievale e del fenomeno del pellegrinaggio, il campanello d’allarme è suonato con il giubileo del 2000. La ricorrenza ha portato in auge una grande passione per la via Francigena e le cifre di coloro che ne intraprendono il percorso sono in costante crescita. La passione dei nuovi romei è senza dubbio genuina ma talvolta anche ingenua e soprattutto ha prodotto una quantità di risultati che non sempre sono stati all’altezza di una dignitosa divulgazione. Spesso è successo anzi il contrario e la spinta entusiastica alla valorizzazione ha seguito più la logica del trekking che della storia, ignorando le basi di una ricerca scientifica fatta di bibliografia, di documenti d’archivio, di fonti letterarie, di testimonianze archeologiche e di critica delle fonti. In parole povere non basta un cartello per stabilire un’evidenza storica e questo vale come regola generale per qualsiasi fenomeno che rientri nel campo della storia.
Mi è capitato di assistere a una discussione su un social network riguardo l’attendibilità di un certo abito “medievale”. Uso questo esempio non per stigmatizzare un fenomeno ma solo per focalizzare alcune delle idee che sto rimuginando da tempo. Chiunque sia intellettualmente onesto dovrà riconoscere i limiti del suo sapere dunque, per prima cosa, ho dovuto ammettere a me stessa che riguardo all’abbigliamento medievale ne so poco. O almeno ne so poco rispetto agli standard che dovrebbe avere una buona conoscenza del fenomeno. Come molti storici, ho osservato una quantità di miniature e di affreschi ma so che questo non basta a fare di me un’esperta dell’abbigliamento medievale. La maggior parte degli storici medievali diranno la stessa cosa nella consapevolezza di quanto sia delicato il percorso per arrivare a formulare un’ipotesi attendibile. Ora, se gli stessi storici si muovono così cautamente su terreni che comunque praticano tutti i giorni, perché un appassionato, una guida turistica, un rievocatore, un creatore di costumi dovrebbero essere esentati dalla prudenza?
In occasione di quello scambio mi sono sentita di fare un invito ai rievocatori e agli appassionati. Siccome esistono gli studiosi del costume ed esistono pure gli strumenti adeguati alla ricerca, sarebbe importate che anche gli appassionati definissero un metodo di lavoro, una bibliografia, una riflessione sui riferimenti iconografici e una collaborazione con specialisti dei vari settori. Tutto questo per garantire ciò che si definisce un approccio filologico.
Con mia sorpresa ne è nata una piccola ma interessante discussione sui dipinti come fonte per la storia del costume fino ad arrivare a discutere, per esempio, dell’affidabilità di opere realizzate molto tempo dopo l’evento rappresentato. Al di là del caso specifico, questo mi ha fatto pensare che ci siano dei margini di confronto e che alla fine anche gli appassionati di storia medievale si stiano orientando verso un approccio più attento.
Per mia diretta esperienza posso dire che in molte feste medievali si vedono cose assai imbarazzanti, ben al di là del caso di alcune improbabili pietanze. Certe sbavature sono anche più dannose del servire piatti con mais e patata perché sono più difficili da individuare e non vengono immediatamente percepite come errori. È evidente che sarebbe bene fare chiarezza nel settore ma sarebbe importante anche relazionarsi con gli studiosi che si occupano di uno specifico argomento, sia esso il costume, il castello, la via pellegrinaggio, la stregoneria o quant’altro.
Spesso chi ricostruisce abiti o contesti medievali si attiene ad affreschi e miniature. Quello che però viene ignorato è che leggere una miniatura o un affresco – così come una fonte letteraria, un documento, un edificio – non è un’operazione così immediata come potrebbe sembrare. Senza una lettura critica delle fonti non è così automatico capire cosa si sta leggendo. Negli affreschi e nelle miniature sono, sì, rappresentati gli stili di vita ma anche gli ibridi tra umani e animali. E di quelli pare non vi sia proprio certezza.
Un’avvertenza: il dossier che troverete a seguire è uno work in progress. Se volete segnalare ulteriori letture lasciate le indicazioni nei commenti e saranno integrate nel testo. Buona lettura.
Franco Cardini, “I cento volti del Medioevo“– Festival del Medioevo 2015
Umberto Eco, Dieci modi di sognare il medioevo ne Il sogno del Medioevo. Il revival del Medioevo nelle culture contemporanee, «Quaderni medievali», 1986, n. 21.
2002. L’editore barese Adda pubblica il volume “Castel del Monte. Un castello medievale”, da me curato.
Reazioni le più diverse: positive da parte degli storici e degli studiosi che hanno un approccio storico alla castellologia; negative da parte degli esoterici più fantasiosi e degli “storici della domenica”.
Tra gli interventi positivi anche la recensione del noto critico Pietro Marino, su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8 novembre 2002.
Tra le reazioni negative, la risposta a Marino e alle tesi del volume contenuta in un intervento su quel giornale il 23 novembre, a firma di Nedim Vlora, docente di geografia presso l’ateneo barese, ed esperto di astroarcheologia, menhir, piramide di Cheope, geroglifici, e naturalmente Federico II e Castel del Monte.
All’articolo di Vlora decise di rispondere, anche perché direttamente chiamato in causa, il grande medievista Giosuè Musca: una risposta, pubblicata il 28 novembre, nello stile sapientemente caustico di Musca, che ironizzò anche, documenti alla mano, su alcune delle tante teorie fantasiose che i cultori di Castel del Monte non-è-un-castello-e-chissà-che-diavolo-è avevano seminato (e continuano a seminare) nella vasta prateria in cui, ai piedi del castello, pascolano a centinaia bufale e stereotipi.
Ai tanti amici che da tempo mi chiedono di leggere quell’articolo di Musca, oggi posso rispondere positivamente: ne voglio ringraziare anche a nome loro l’amico Giuseppe Conte (che, tra l’altro, al medioevo alchemico ha dedicato un godibile romanzo, “L’alchimista e l’albero della vita”), per averlo cercato e quindi per avermene inviato una copia leggibile.
Raffaele Licinio: Mai confondere la divulgazione storica con la promozione turistica
Non smette di far discutere Splendori di Puglia, ovvero le due puntate di Ulisse, trasmissione televisiva di Alberto Angela, dedicate alla Puglia.
La prima, andata in onda sabato scorso, era dedicata in particolare alla Puglia Settentrionale e Centrale. Il post di Lettere Meridiane in cui lamentavo la scarsa attenzione prestata da Alberto Angela a Foggia e alla Capitanata ha suscitato un nugolo di commenti, e cercherò per quanto possibile di darne conto, perché hanno il pregio di rappresentare una riflessione collettiva su un tema – l’immagine e la promozione del territorio foggiano – che rappresenta una sorta di buco nero nell’opinione pubblica provinciale.
Tra i commenti che mi hanno più colpito, c’è quello di Raffaele Licinio, grande medievista e docente di storia medievale, che riflette sulla linea di demarcazione tra la divulgazione scientifica e la promozione territoriale. La riflessione di Licinio trae origine proprio dal post di Lettere Meridiane. Ecco cosa scrive il professore:
Mai confondere la divulgazione storica (per esempio, tanti programmi di RaiStoria) con la promozione turistica: sono due attività pienamente legittime, ma da tenere distinte.
A proposito della puntata sulla Puglia di “Ulisse”, leggo nel blog “Lettere Meridiane” dell’amico Geppe Inserraalcune osservazioni che mi sembrano equilibrate. E ci trovo questo riferimento:
«In un comunicato stampa diffuso dal GAL “Colline Ioniche” si apprende che la visita di Ulisse al Quartiere delle Ceramiche “è stata promossa da Pugliapromozione (l’agenzia di marketing territoriale della Regione Puglia, n.d.r.) con il contributo del GAL Colline Joniche e del Consorzio dei Ceramisti che hanno coordinato l’accoglienza e la visita della troupe televisiva. L’attività rientra in un progetto per la documentazione e la valorizzazione del secolare patrimonio della produzione delle cosiddette “ceramiche d’uso”».
Sana e corretta divulgazione storica rispetto alle culture territoriali, allora, o promozione turistica determinata da altri interessi di valorizzazione? Io non ho dubbi: la storia non si divulga in funzione del marketing.
In precedenza, sollecitato da alcuni amici che gli chiedevano un parere sulla trasmissione, Licinio aveva dedicato uno specifico post a Splendori di Puglia:
Qualche amico/a mi chiede un giudizio sulla trasmissione di Angela “Ulisse – Il piacere della scoperta – Splendori di Puglia”, trasmessa ieri 10 ottobre su Rai3.
Non l’ho vista mentre veniva trasmessa, ma ho potuto vederla con calma stamattina grazie al link che mi hanno fornito.
In breve, un programma un po’ superficiale, mediocre, con qualche aspetto positivo, specialmente sul piano visivo, con diversi stereotipi, e con qualche svarione grave: non li enumero perché non voglio apparire il supercritico scontento che aggrotta sempre il sopracciglio, ma francamente, a proposito della nascita del Petruzzelli, sentire che nel 1894 Bari aveva 800.000 (ottocentomila) abitanti, è una di quelle cose che ti fanno rimpiangere Kazzinger, che almeno fa ridere di suo.
Questo è quello che penso. Liberi gli altri di pensarla in maniera diversa. Ma al primo che mi scrive tra i commenti che l’importante nella buona divulgazione di massa non è quello che si dice, ma il fatto che si dica qualcosa, gli strappo i neuroni residui e me li mangio crudi (alla barese, anzi, alla pugliese maniera).
di Raffaele Licinio in «Quaderni medievali», 43 (1997).
L’Italia è paese dai molti castelli, oltre 20.000, secondo l’Istituto italiano dei castelli. Fortezza, maniero, forte, rocca, casaforte, palazzo fortificato; castello-fortezza, castello-residenza, castello-palazzo, rocca-castello, palazzo-reggia, castello-mastio; in altura, in pianura, costiero, esterno o interno all’insediamento; strategico-militare, residenziale, difensivo, rappresentativo: innumerevoli le classificazioni tipologiche possibili, per forma, struttura, utilizzo, funzioni militari, funzioni politiche, stato di conservazione… Castelli pubblici e castelli privati; castelli feudali, castelli comunali e castelli regi; castelli in rovina e castelli visitabili; castelli saldamente impiantati nel tempo storico, e castelli senza cronologia, rivisitati dall’immaginazione, rifondati come simboli di un Medioevo metaforico. Castelli reali, castelli immaginari, e da qualche anno anche castelli virtuali; fortificazioni in pietra del sistema castellare, e tecnologiche fortificazioni del sistema binario; castelli immobili e saldi, che cedono solo a lunghi e faticosi assedi, e castelli che si spostano e si aprono con la pressione di un dito su un mouse; castelli insomma che mutano di segno, attraversando e superando antiche tipologie. Esploriamone gli esempi più recenti, quelli più vistosi perché toccati dall’autostrada della divulgazione ed esplicitamente indirizzati ai non specialisti, per costruire un percorso di lettura che in qualche punto possa anche incrociare il sentiero della didattica.
Cominciamo dai Castelli d’Italia e i più grandi d’Europa. Storia. Miti. Leggende, Hobby & Work Italiana Editrice: 75 castelli italiani e 25 europei, presentati in 100 fascicoli (più o meno a scadenza settimanale), ognuno di 20 pagine più 4 di copertina, da raccogliere in 9 volumi. Ogni fascicolo comprende 3 sezioni: la monografia del singolo castello, cui sono dedicate 12 pagine; il Repertorio generale di tutti i castelli e le fortificazioni esistenti in Italia, nell’inserto di 8 pagine centrali; la Storia dell’architettura difensiva in Italia, dalle prime fortificazioni di età preistorica fino a quelle costruite durante la seconda guerra mondiale, nella terza e quarta pagina di copertina. Ad alcuni castelli viene poi allegata una videocassetta, 13 in totale. Un’opera di eccezionale impegno per la Hobby & Work, recita la locandina pubblicitaria; ma anche, non si può negarlo, per l’acquirente e per il rilegatore: 4 volumi, con le monografie castellari, 300 pagine ciascuno, saranno formati dalle 12 pagine esterne di ogni fascicolo; altri 4 di Repertorio, 200 pagine ciascuno, formati dalle 8 pagine centrali; il nono infine, la Storia dell’architettura difensiva, 198 pagine, formato dalle ultime due pagine di copertina. Totale: 2.198 pagine complessive.
I conti tornano, sulla carta. Nella realtà si complicano, e saranno problemi per il nostro rilegatore, dal momento che qualche fascicolo risulta stampato con un’impaginazione sbagliata, che non consente di staccare come blocco autonomo le pagine dell’inserto centrale, oppure con numeri di pagina errati (in un’opera di queste proporzioni errori del genere possono accadere; devono necessariamente accadere?), compromettendo in entrambi i casi la sequenzialità delle sezioni e la stessa rilegatura. L’editore, cosparso il capo di cenere, in un caso ha provveduto a ristampare il fascicolo (il numero 3), distribuendolo gratuitamente con un altro fascicolo (il numero 16: l’acquirente occasionale si è così ritrovato con due fascicoli al prezzo di uno; ringraziamenti vivissimi); in un altro caso (fascicolo numero 5) ha solo ristampato su adesivi i numeri corretti di pagina, inserendoli in un successivo fascicolo (ancora il numero 16), informando il lettore dei due inconvenienti e dei relativi provvedimenti correttivi solo nei fascicoli 6 e 13 (e ovviamente nel 16, con le istruzioni del caso: Hobby, Work & do-it-yourself). Aggiungiamoci la ristampa di qualche pagina (la 311, fascicolo 34) in cui il discorso si conclude senza completare la frase, privando tutto il periodo di un senso compiuto (del quartino in ristampa si dà però notizia solo nel fascicolo n. 46, avvertendo che lo si allegherà al n. 48). Per il futuro, chi vivrà vedrà. Si arriverà all’ultimo fascicolo stremati, ma con la non magra consolazione di disporre di un’opera «completa e unica» nel suo genere. Completa? Diciamo unica.
Ogni monografia dovrebbe contenere in genere una sintetica storia delle vicende che hanno interessato il castello, dalla fondazione allo stato e alla destinazione attuali, con particolare rilievo a personaggi, episodi e leggende; un’analisi della tipologia architettonica e delle funzioni del castello; una descrizione del territorio in cui esso sorge; riferimenti alle testimonianze storico-artistiche; una documentazione cartografica e soprattutto fotografica; la storia, a grandi linee, della dinastia o delle famiglie che ne sono state proprietarie; un quadro della vita quotidiana, degli usi e dei costumi, con la dodicesima pagina (Oltre il castello) sempre dedicata ad altre strutture visitabili, torri, chiese, monumenti, della località e del suo territorio. […]
Il risultato dell’aggregazione per aree e regioni parla da sé: nessuna monografia è stata sin qui pubblicata, o annunciata nel piano complessivo dell’opera, per i castelli del Molise e della Sardegna, e per alcune regioni, prime fra tutte la Basilicata, la Calabria, la Valle d’Aosta, il Piemonte, scompaiono strutture monumentali e di rilevanza storica indiscutibile. E si ignorano criteri e motivazioni delle scelte compiute. Più che una scelta, sembra funzionare una sorta di feroce decastellamento; decastellamento totale in alcune regioni, selvaggio in altre, parziale in quasi tutte. Paese dai molti castelli, l’Italia diventa così paese dai troppi castelli. […]
Prima e più di ogni altro elemento, sono i sottotitoli di ogni monografia ad anticipare e indicare, nella loro necessaria sinteticità, il carattere bozzettistico, enfatico e spesso oleografico dei testi. Per alcune strutture il sottotitolo richiama dati storici, come per la Rocca Malatestiana di Cesena («Contesa da Guelfi e Ghibellini») e per i castelli di Lucera («Sulle tracce di Federico II»), Otranto («Testimone dell’assedio musulmano»), Caserta Vecchia («Metà longobardo metà svevo»), o architettonici, come per la fortezza di Sansepolcro («Quattro puntoni a forma di cuore»), la rocca di Sassocorvaro («Una testuggine fra le colline del Montefeltro»), la Rocca Roveresca di Senigallia («Siglata dal Pontelli e dal Laurana»). Per altre sottolinea funzioni strategico-militari, come per la fortezza di Palmanova («Piazzaforte ideale della Serenissima»), il castello di Andora («Palazzo-recinto dei Clavesana»), il forte di San Leo («Inespugnabile guardiano del Montefeltro»), la rocca di Spoleto («Chiave militare per lo Stato Pontificio»); o evidenzia la funzione residenziale, come per la Rocca Sanvitale di Fontanellato («Residenza dei signori di Fontanellato»), la reggia di Caserta («La grande residenza dei Borbone»), il castello di Serralunga d’Alba («Nelle terre del Barolo la dimora dei Falletti»); o semplicemente segnala l’ubicazione, come per il castello di Cherasco («Affacciato su uno sperone di tufo»), la rocca di Angera («Specchiata sul Lago Maggiore»), la rocca di Dozza («Nel cuore della Romagna imolese»), il Castello di Lombardia di Enna («Nel cuore della Sicilia»).
Abbondano in compenso gli stereotipi di ogni genere, gli slogan da dépliant turistico, le frasi ad effetto: così per il castello di Fénis («Fra santi e filosofi in Valle d’Aosta»), la rocca di Castell’Arquato («Un tuffo nel Medioevo»), il Castello Malaspina di Fosdinovo («Leggende e misteri rivivono a Fosdinovo»), Castel Coira («Raro esempio di cultura cavalleresca»), il castello di Portovenere («Affacciato sul golfo dei poeti»), il Castello Caetani di Sermoneta («Il fascino del Medioevo a Sermoneta»), il Palazzo dei Normanni di Palermo («Suggestioni d’Oriente a Palermo»), il Castello Maniace di Siracusa («Documento di pietra della storia di Siracusa»), e via dicendo.
La ricerca del facile effetto (inimitabile il sottotitolo relativo al castello di Pacentro, «Piccola Manhattan d’Abruzzo»: la spiegazione, non chiarita nel testo, è reperibile solo in una didascalia), la cifra stilistica tendente alla retorica, la magniloquenza, l’uso costante di aggettivi ridondanti, fanno velo nel testo di molte monografie all’informazione storica, a volte piegandola ad esigenze bozzettistiche, altre volte deformandola. Prevale ovunque la grandiosità, la bellezza, l’eccezionalità, la magnificenza, la monumentalità: tra esaltazioni e suggestioni, la monografia si trasforma in oleografia, confinando il castello nello spazio di una romantica cartolina illustrata. Ecco la rocca di Sassocorvaro, «emblematica, organica, macchinosa, suggestiva, magica, simbolica,… senza dubbio fra i casi più affascinanti e particolari» (n. 46, p. 409). Il castello di Sanssouci («Il trionfo della fantasia», magnifica il sottotitolo) «è una fabbrica di inimmaginabile tripudio», dove «c’era un momento in cui la musica prendeva il sopravvento sul fruscio degli alberi e il cinguettio degli uccelli. Era quando nel tardo meriggio partiva il “la” di soavi armonie che si spandevano nell’aria» (n. 47, pp. 133 e 141). Nelle Langhe, «un luogo mitico» in cui «converge un immaginario quantomai sfaccettato cresciuto sui tasselli dei ricordi di un’Italia in gran parte scomparsa», in un paesaggio dall’«armonia che non è stata violentata in alcun modo», dove dei colori «in cartellone c’è l’intero arcobaleno», e in autunno «anche i profumi concorrono all’irruzione dei ricordi su per la provinciale», il castello di Serralunga d’Alba è un «singolare gigante che sembra voglia sfidare il cielo e insieme le leggi della fisica» (n. 58, pp. 517-519). Intanto, presso la rocca di Dozza, «l’ala della storia volava bassa sull’Italia dei Comuni quando Federico Barbarossa concepì il sogno feudale di un grande impero» (n. 50, p. 446). Mentre nella Napoli angioina «le caratteristiche che spinsero il re Carlo I a scegliere di costruire in questo luogo il suo castello, sono i motivi per cui Castel Nuovo, o Maschio Angioino che dir si voglia, è stato ed è il “centro storico” di Napoli. Detto questo, però, non è detto nulla. La posizione di Castel Nuovo è, in una parola, bellissima» (n. 10, p. 87).
Sul piano dell’informazione storica i testi delle monografie risultano disomogenei e diseguali: alcuni sono attenti alla storiografia più recente, altri raccolgono a piene mani dati trasmessi dalla tradizione ma smentiti dalle ricerche degli specialisti; alcuni collocano la struttura castellare in un contesto storico più generale, altri puntano alla valorizzazione dei personaggi e degli elementi leggendari o di costume. L’attenzione del lettore, quando catturata, non sempre è soddisfatta; in nessun caso viene fornita una pur minima informazione bibliografica, nella presunzione che la divulgazione di massa non ne abbia bisogno o non ne faccia richiesta. Si rafforza in questo modo una catena di trasmissione culturale che non propone la verifica, trasmette certezze. Senza verifiche, si finisce per credere che Corradino di Svevia non sia mai stato processato, condannato a morte e giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1269, ma sia morto nel Lazio, come dichiara la monografia su Castel Coira trattando di Mainardo II, tra 1258 e 1295 signore del Tirolo, che dopo sette anni di cattività, «una volta libero, sposa Elisabetta di Wittelsbach, la vedova dell’imperatore Corrado IV di Hohenstaufen (madre di Corradino, morto a Torre Astura, presso Anzio)» (n. 54, p. 483). Si accredita la tesi che vuole Federico II di Svevia anche architetto e progettista castellare, come suggerito nel fascicolo sul castello di Prato, «esempio di quel “classicismo eclettico” che segna le architetture volute (e spesso disegnate) dall’imperatore» (n. 42, p. 379): quale prova fondata abbiamo, diretta o indiretta, di un solo disegno o schizzo castellare federiciano? Si ritiene «tra le più attendibili», scrivendo di Castel del Monte, una datata tesi che ne faceva «risalire l’origine a una primitiva costruzione romana» (n. 3, p. 32). E il castello di Bari, che sappiamo innalzato ex novo dal re normanno Ruggero II dopo il giugno 1132, finisce per essere retrodatato di secoli, giacché «i primi a mettervi mano furono addirittura i Romani» (n. 8, p. 62), oppure, a scelta, solo di qualche decennio, perché fu «Roberto il Guiscardo… a dare l’avvio all’attuale struttura» (p. 63). Su Ruggero II nemmeno un cenno: e un castello reale, quello ruggeriano, clona due castelli immaginari, quello romano e quello guiscardiano.
Chiediamo lumi alla videocassetta allegata al fascicolo, Bari. Il Castello Svevo. Il pretesto per mettere in scena e spettacolarizzare le vicende del castello è dato dall’incontro di una guida con una coppia di giovani turisti. La guida inizia a parlare della struttura, precisando che non sono molti i documenti disponibili. «Ma possibile che pagine di storia come quelle dei castelli non abbiano riscontri attendibili?», domanda la ragazza. E la guida: «No, esageri, forse gli impianti storici [?] sono gli unici accertati. È comunque sicuro che il castello di Bari è stato edificato nel 1131 per volere di Ruggero il Normanno, anche se altri studiosi sostengono che sia sorto da precedenti fortificazioni». Mistero su come abbia fatto questo Ruggero a costruirsi il castello in una città che nel 1131 è ancora in mano alle forze autonomistiche locali, guidate dal principe Grimoaldo. Interviene un altro personaggio per aggiungere, saccente, che il castello subì i primi danni nel 1137, «ad opera dell’imperatore Lottario». È vero, consente la guida, «ma in seguito fu distrutto quando i Baresi si sollevarono a favore dell’imperatore Manuele». Quanti imperatori, e di quali imperi? Il saccente riprende: «E fu quella la causa che provocò la reazione di Guglielmo I». Ragazza: «Una battaglia?». Guida: «Una battaglia combattuta dai Baresi, che fece incavolare Guglielmo I». E con una meditata riflessione del turista, «Eh, anche i nobili talvolta s’incavolano!», si passa al primo episodio storico, la sollevazione dei Baresi: una scena in cui 5 (cinque) popolani, tre uomini e due donne, stazionano presso l’ingresso (attuale) del castello, le donne divertite, gli uomini che spingono senza troppo impegno una trave, a mo’ di ariete, sul portone chiuso. Sugli spalti, tranquilla, passeggia una sentinella in abiti senza tempo. Più in là, un ferocissimo quasi-duello tra due personaggi, il re normanno Guglielmo I (sarà poi detto il Malo), e un barese che la retrocopertina della videocassetta assicura chiamarsi Licinio (Licinio?). «È finita per te, Malo [Malo?], lascia il castello e cedi le armi all’imperatore», minaccia il Barese. E il sovrano: «Brutto servo traditore, la città, il castello sono miei». No, rivendica l’altro, «la città e il castello sono dei Baresi», dimenticando che i Baresi non accettavano la presenza del castello proprio perché simbolo del potere regio. E mentre fuori la folla (?) grida «A morte il Malo!», «Via, lascia il castello!», Guglielmo filosofeggia: «Ma quale città? Non esiste una città. Io la distruggerò. E se non ci sarà più Bari, non ci saranno più Baresi». Lasciamo perdere il resto, compreso quel personaggio, il buffone-omosessuale, che dopo aver infastidito a lungo i duellanti, e mentre re Guglielmo sta intimando agli abitanti di abbandonare la città, urla alla folla un penoso «Via, via… Vogliamo restare soli…». La spettacolarizzazione ha le sue esigenze, e allora passi per Guglielmo chiamato familiarmente Malo (non lo avranno confuso con Melo da Bari?) e per tutto il resto: ma il castello non è più in piedi, è stato già ridotto in rovina dai Baresi quando il re ordina di distruggere la città; la sua decisione è appunto una reazione al comportamento dei rivoltosi. Nella storia che ci racconta il filmato, un castello immaginario è invece diventato reale.
E passiamo al secondo episodio, in cui è di scena Federico II, che nel 1233 provvede a restaurare e ristrutturare l’impianto castellare normanno. Quando la guida pronuncia il nome dello Svevo, la turista ha un sussulto: «Ma chi, il grande imperatore? L’uomo delle crociate?». Sì, conferma la guida, un personaggio su cui «hanno fatto e fanno convegni, dibattiti, hanno fatto dei film. La storia ne parla. E ne parlano le raccolte enciclopediche della Hobby & Work», e intanto la telecamera indugia sul cortile rinascimentale. Raccolte enciclopediche, convegni, dibattiti, saggi, ricerche storiche: vediamo come ne utilizzano i risultati gli strumenti di divulgazione. La coppia di turisti e la guida, cui si è unito un frate francescano, giungono presso la lapide che ricorda la presunta visita di Francesco d’Assisi nel castello barese, dove avrebbe incontrato Federico II, il quale per verificarne la santità lo avrebbe fatto tentare da una donna. Un episodio leggendario? Forse, ipotizza con sguardo complice la guida, anche se «io personalmente lo credo possibile», poiché i due personaggi «avevano in comune l’amore per la natura e per gli animali». E potrebbe bastare, se la guida non avesse voglia di far notare la sua preparazione. Sì, pontifica, la visita deve esserci stata senz’altro: a quel tempo «Federico era molto giovane, era il 1120 [in pratica, uno spermatozoo imperiale], altri testi dicono il 1122. Pare che l’imperatore, avendo letto alcuni scritti del fraticello d’Assisi sulla natura e sugli animali, volesse approfondire il rapporto e la conoscenza con Francesco, e addirittura averlo alla sua corte. Chissà. Questo però non lo sapremo mai». In compenso, ecco una scoperta di un certo peso e dai chiari risvolti didattici, abbiamo appreso che si può leggere e scrivere ancor prima di nascere.
Sorvoliamo sulle scene successive, in cui un Federico nerissimo di capelli e un Francesco in rigorosa divisa francescana si scambiano riflessioni di portata cosmica e sguardi assenti, e mentre i due si confrontano sull’universo e sulla storia da manuali, una bionda fanciulla si sforza invano di tentare Francesco (a mo’ di Sharon Stone nel film Basic Instinct). e sorvoliamo anche sul terzo e ultimo episodio, che rappresenta Bona Sforza già regina e vedova (ma qui, stranamente, ancora molto giovane), impegnata a farsi corteggiare e nel contempo a dare istruzioni sulla ristrutturazione del castello, mentre sugli spalti continua a passeggiare, tranquilla nel suo sereno distacco dal mondo, la sentinella dagli abiti senza tempo. Ma, chiede la turista, «era davvero bella la regina Bona Sforza?». «Certo – mente senza nemmeno saperlo la guida – una donna affascinante… che aveva molti corteggiatori»; anzi, lo ammette poi la stessa Bona, «ero più bella al ritorno [dalla Polonia] che prima di sposarmi». La scena torna infine ai nostri giorni; la visita al castello sta per concludersi, ma la guida riesce ancora a fornire qualche altra notizia, collocando re Ferdinando II nel secolo XIII. Ai due giovani turisti non rimane che ringraziarla, con la promessa di tornare a Bari per approfondire la storia del castello: dopo quelle informazioni, è il minimo che si possa augurar loro.
Val la pena a questo punto visionare un’altra videocassetta. Per rimanere nell’età di Federico II scegliamo quella su Catania. Il Castello Ursino. Anche qui, con una breve storia del castello, tre episodi. All’inizio la voce narrante dedica qualche minuto alla storia del castello, facendone risalire la progettazione «ai primi anni del Duecento», ovvero al 1209, quando il giovane Federico viaggiando per la Sicilia visita per la prima volta Catania. Ma nell’isola un vero e proprio programma castellare, si precisa, viene messo a punto dopo il 1231, dopo «le Constitutiones Melfitane» (attenzione: la voce pronuncia esattamente constitutiones); sicché il castello fu edificato a Catania tra 1239 e 1250, «su disegno prepòritusedificiorum Riccardo da Lentini, che ne diresse i lavori». Disegnoprepòritus? Andiamo avanti. Nel primo episodio, proprio Riccardo si presenta al cospetto di Federico II con un masso di lava in mano: un modo brillante per evidenziare il materiale con cui fu costruito il castello. In nome delle necessità della divulgazione e della teatralizzazione tutto è possibile: superfluo allora protestare per un Federico rappresentato anche qui con capelli nerissimi (perché siciliano, o per irreperibilità di una parrucca?), per l’abbigliamento dei personaggi, per l’elmo del soldato di guardia, per i rotoli di carta velina, dal vago sapore attuale, disposti sul tavolo da progettista dell’imperatore. È comunque difficile accettare il dialogo che segue, con Riccardo che motiva allo Svevo la sospensione dei lavori nel cantiere castellare. I popolani, che l’architetto osa paragonare all’imperatore in quanto, secondo natura, «esseri intelligenti: pensano come me, come voi, Maestà», «non conoscono, non possono capire le vostre grandi opere, la Costituzione siciliana, il “Liber Augustalis”, un grande trattato giuridico». Ieratico, Federico gli risponde che solo la storia, non il popolo, potrà giudicare la sua grandezza, il suo «contributo all’umanità»: «Sapete, sto scrivendo un trattato di ornitologia, De arte venerandi cum avibus…». Date queste premesse, non ci si stupisce di sentir dire che l’astensione delle maestranze non è assenteismo, né congiura, né ricatto. Di più, giura Riccardo: «Uno sciopero, una questione sindacale, un nuovo modo per ottenere quello che loro pensano sia giusto». «Non avevo mai sentito di questa forma eversiva di solidarietà – ammette Federico mordicchiandosi le auguste dita – È un precedente pericoloso e assurdo». Già. Qui fuori, continua Riccardo, ci sono tre loro esponenti che aspettano di essere ricevuti: «Sappiate che i tre sono rappresentanti dei popolani, dei contadini e delle maestranze edili». «Fateli entrare». Sorpresa: entrano un uomo e due donne (il giorno era forse l’8 marzo). E che cosa chiedono? «Un atto di umanità e di democrazia». «Ma è ridicolo», reagisce Federico. Siamo d’accordo con lui.
Dopo una descrizione storico-architettonica del castello che nella sua brevità trova il modo di trattare della «tipologia dei castrum» federiciani e di quella «del palarium», consoliamoci con il secondo episodio, la tenera storia d’amore tra Martino di Montblanch e sua cugina, la regina Maria, promessa invece a Galeazzo Visconti. Una telenovela ambientata nella seconda metà del secolo XIV, talmente densa e palpitante di passioni da far passare in secondo piano gli anacronismi storici qui seminati con sapienza. Rimane la curiosità di saperne di più sull’illustrazione a stampa che a un certo punto si lascia intravvedere tra le pagine di un volumone rilegato che, semichiuso, è nelle mani del reggente del regno, Artale, per tutta la durata di una scena; e c’è qualche sottile, metaforica ironia (che, inesperti come siamo di divulgazione di massa, non siamo in grado di cogliere), nel fatto che sia proprio il reggente a reggere il libro?
Nel dubbio, lasciamoci alle spalle il prevedibile happy end tra Maria e Martino, e sull’ultimo episodio, la leggenda della dama bianca, limitiamoci a una sola considerazione. Qui una fanciulla appare in sogno al conte Ruggero ogni notte, vestita sempre di bianco: innamoràtosene, Ruggero potrà averla solo uccidendo il gigante Ursino, che dal castello insidia la fanciulla. Il gigante, naturalmente, nell’immaginario collettivo è lo stesso castello. E ci sembra che nel filmato l’identificazione sia colta. Una caduta di tono, se mai, è nella scena del duello tra il conte e il gigante, che usano le spade come se non le avessero mai viste prima, e poi nella sequenza finale, fantozziana senza volerlo: 1) sulle ali della musica, il conte corre verso la dama bianca da destra verso sinistra; 2) la dama bianca corre verso il conte da sinistra verso destra; 3) il conte correndo allarga le braccia; 4) la dama correndo allarga le braccia; 5) a quella velocità, i due si mancheranno, o si scontreranno?
E si potrebbe continuare a imparare visionando le altre videocassette. Quella, ad esempio, che riporta sulla copertina il titolo Il castello di Marostica, e presenta invece come titolo del filmato Marostica. «La città murata» (così, quella su Il castello Vecchio di Caserta s’intitola nel filmato Caserta. La torre dei falchi); o quella su Cesena. La Rocca Malatestiana, che vede scorrere prima del titolo l’istruttiva avvertenza che «la Rocca, fino a qualche tempo fà era adibita a carcere»; o infine quella su Mantova. Il castello di San Giorgio, in cui un gruppo di giovani turisti in visita castellare, giunto in una camera da letto, si lascia andare a osservazioni di robusta valenza pedagogica. Un giovane: «Se questo letto potesse parlare, ragazzi, i racconti erotici…». Una ragazza, con la «giraffa» del sonoro in presa diretta che le volteggia visibile sul capo, gli obietta: «Ma dai, non essere blasfemo, stai parlando dei nobili… I nobili non ce l’hanno, il sesso». E mentre la «giraffa» scompare (per la vergogna?), un altro giovane precisa: «Ma che dici, ce l’hanno piccolo, ma ce l’hanno…».
Al di là delle diverse vicende narrate e dei singoli episodi rappresentati, al di là degli stessi anacronismi e degli errori storici, sintattici e grammaticali, il filo rosso che collega anche questi strumenti di divulgazione è la concezione romantica del castello medievale, popolato da nobili e giullari, da cavalieri generosi e dame affascinanti, ricco in ogni pietra e in ogni stanza di fascino e di mistero, luogo di duelli, di oscure trame, d’inconfessabili passioni e di dolcissimi ma sempre contrastati amori: «Siete un poeta», dichiara a Vieri da Vallonara, nel filmato su Marostica, la timida ma passionale Lionora Parisino. «E voi siete la mia poesia», le risponde Vieri, prima di contenderne la mano al rivale Rinaldo d’Angerano. Ancora un contrasto d’amore: ma dopo il solito quasi-duello con le spade, si approda qui ad un altro tipo di sfida: la partita «al nobil ziogo degli scacchi». Il gioco, altro elemento in cui s’incardina l’immagine tradizionale del castello. Anzi, tutto è gioco, il castello, i personaggi, le vicende; ha ragione allora Caterina Visconti, sempre nel filmato su Marostica, a sostenere che «il Rinascimento no xè un’epoca, ma un temperamento»: il Rinascimento, il Medioevo, la storia.
Divertirsi e imparare. Ne parla anche l’editoriale del primo numero della nuova rivista mensile, «Medioevo», edita da De Agostini-Rizzoli Periodici e diretta da Jean-Claude Maire Vigueur. Pubblicizzata sulla stampa con efficaci inserzioni, distribuita nelle edicole, e dunque scegliendo la grande divulgazione, in edicola già da gennaio 1997 (ma il numero 1 è datato febbraio), «Medioevo» aspira a ritagliarsi la sua fetta di mercato sfidando la concorrenza di una rivista del calibro di «Storia e Dossier», giunta al dodicesimo anno di vita. Generalista quest’ultima, specializzata su un periodo specifico l’altra. È prematuro far confronti (né si potrebbe evitare di allargarli alle riviste divulgative d’oltralpe, prima fra tutte, in ogni senso, «L’Histoire»), ma sin d’ora si può rilevare in «Medioevo», dalla sottotestata «Un passato da riscoprire», come dall’editoriale di Maire Vigueur («Perché è un passato da riscoprire»), l’ambizioso progetto di tenere insieme, e di renderle fruibili didatticamente e sul piano della divulgazione, sia la ricerca di identità che la valorizzazione delle eredità storiche, sia la storia come ricerca che la storia come narrazione: «Non è detto… che ci si diverta solo con il racconto e che si impari solo con l’approfondimento analitico. Da quando è nata, la storiografia ha sempre cercato di perseguire questo doppio obiettivo. Non vediamo ragioni per cambiare strada».
Non c’è ragione per cambiar strada: in una realizzazione grafica che appare incisiva, gradevole e ricca di illustrazioni (sempre corredate da didascalie), non sono pochi gli articoli all’altezza delle dichiarazioni programmatiche (per far dei nomi, almeno quelli a firma di Giuliana Albini e Anna Benvenuti), e comunque più numerosi degli articoli troppo generici o con qualche inesattezza. Sui castelli scrivono Sandro Carocci, Nel segno del potere. Il castello, un’invenzione del Medioevo, e Minna Conti, La Puglia di Federico II. Sei castelli per un re. Il primo articolo si fa notare anche per la capacità di impostare il tema e spiegare il ruolo del castello all’interno del più vasto fenomeno dell’incastellamento, letto correttamente non solo in chiave strategico-militare, ma anche in rapporto all’organizzazione del territorio, ai rapporti di potere, al popolamento, alle forme degli insediamenti e al paesaggio economico e sociale. Un articolo divulgativo ben scritto, chiaro, utile, in cui sarebbe stato opportuno, tra i tanti riquadri esplicativi, inserirne un altro con qualche indicazione bibliografica, per consentire ulteriori approfondimenti: ma questa è una carenza che si avverte in tutti gli articoli del primo numero.
Con uno stile di scrittura altrettanto semplice ed efficace, il secondo articolo (firmato da quella stessa Minna Conti cui dobbiamo i fascicoli più convincenti dei Castelli della Hobby & Work) traccia un itinerario che dal Gargano alle Murge baresi, con le caratteristiche soprattutto strutturali di sei castelli pugliesi legati agli interventi di Federico II, Lucera, Monte Sant’Angelo, Barletta, Gravina, Castel del Monte e Bari, illustra possibili mete escursionistiche, alla scoperta di specialità gastronomiche attribuite alla tradizione locale. Un opportuno riquadro indica come e quando visitare i castelli (e qui, in piena autonomia, il visitatore potrà scoprire la relatività dei concetti di apertura e di orario). Le notizie storiche fornite dall’itinerario sono sostanzialmente corrette (anche se, nel riquadro che le è dedicato, la Lucera saracena viene definita, inestirpabile stereotipo, «città araba»), e si avverte la preoccupazione di far distinguere al visitatore, castello per castello, quanto è attribuibile all’età sveva, dalle preesistenze o dalle modifiche successive. L’articolo, riccamente illustrato, si fa leggere con attenzione e con piacere. Ma non si può evitare di osservare che nelle righe finali, a proposito del ripetersi «ossessivo» del numero otto nella struttura di Castel del Monte, una chiusura che vuol essere ad effetto, rinunciando ad ogni ironia, cede all’agguato della tentazione esoterica, e rischia di vanificare la credibilità (didattica, divulgativa, scientifica) dell’intero articolo: «Castel del Monte e Federico II. Morto il 13 dicembre 1250. Milleduecentocinquanta: uno, due, cinque, zero. Se tirate le somme, di nuovo otto. Difficile non provare una sottile inquietudine» (p. 29).
Sottile inquietudine? Di più, di più: difficile non sentirsi scorrere un brivido lungo la schiena, un brivido che freddo risale su su sino al cervello, quando si entri, con Federico II, nella misteriosa dimensione, simbolica e politica, dell’otto continuo (altri la chiamano, più prosaicamente, estrazione dell’otto): lo Svevo nasce, com’è noto, il giorno 26, cioè 2 più 6 = otto. Giorno, mese e anno di nascita: 26.12.1194: 26+12+1194 = 1232; sommiamo 1, 2, 3, 2 = otto. La battaglia di Bouvines (otto lettere!), che gli spiana la strada verso il trono, è del 1214: sommiamo 1, 2, 1, 4 = otto… Il 29.9.1227 papa Gregorio IX scomunica Federico per la prima volta: 20 (29-9) meno 12 (1+2+2+7) = otto. Lo scomunica poi per la seconda volta il 20.3.1239: 23 (20+3) meno 15 (1+2+3+9) = otto. La terza scomunica viene lanciata da Innocenzo IV il giorno 17 (1+7: otto!); più esattamente, il 17.7.1245: e dunque 6 (1-7) più 7 = 13; 1245 meno 13 = 1232, ovvero (1+2+3+2) ancora otto. Non basta? Federico è sconfitto dai Comuni presso Parma il 18.2.1248: 1248 meno 16 (18-2) = 1232, dunque otto. L’«ossessione» dell’otto può continuare sino alla paranoia: anche Federico contiene otto lettere, come secundus, castello, ottagono… e avanti così, sino alle otto lettere del nome di chi sta scrivendo. Difficile, a questo punto, non provare una sottile esaltazione.
Ormai esperti di numerologia ed esoterismo, possiamo gustarci meglio i castelli virtuali presentati in alcuni cd-rom multimediali di recente pubblicazione. Il primo, L’età dei castelli, è edito dalla Parsec. Qui ci accoglie un testo iniziale in lettere gotiche che, letto con vibrante partecipazione da una tenebrosa voce narrante, può essere considerato una sorta di manifesto ideologico del Medioevo che ci attende: «Lontano, nella notte buia in cui nacque il nostro tempo, c’è un lampo di fuochi accesi tra le tende chiare e i fasci alti di picchi, e ci par vedere un luccichio di corazze e udir voci d’uomini che parlan di donne, di bottino, d’onore. Lontano, all’ombra di torri merlate, v’è un risonar di zoccoli su un ponte levatoio, e l’affrettato aprir le porte a un cavaliere che reca messaggi da oltre le colline. Lontano, tra suoni di pifferi e tamburi, fra note di mandòle e canti, ci par udir risa di fanciulle e rumor di corse tra i cortili di una nobil dimora. Venite, dunque, a ritrovar le tracce di questo passato. Entriamo nell’età dei castelli». È un Medioevo totale, un Medioevo full-time, quello che ci accoglie: nei testi, nella grafica, nei personaggi, nelle voci, nelle musiche, nelle atmosfere. E nei castelli.
Nella scena iniziale basterà cliccare con il cursore del mouse sui battenti della porta in basso, perché questa si apra (per uscire, occorre invece servirsi del «nero rapace che volteggia in alto»), e scricchiolando ci introduca nella seconda scena, quella di base. Qui, in primo piano un cavaliere; dietro di lui il «castello della conoscenza»; sullo sfondo sei sagome castellari: tre possibili percorsi, da seguire con l’ausilio di una «Guida all’uso» di facile utilizzo. Cliccando sul cavaliere ci vengono presentati sei personaggi, ognuno dei quali racconta il suo personale Medioevo: la dama («pegno e strumento di concordia…; passato è ahimé il buon tempo antico»); il menestrello (canta «le donne, i cavalier, l’arme, gli amori e le audaci imprese», e conduce «i vostri pensieri raccolti a navigar per le soavi aere della poesia»); il paggio («assistente di tornei, servitore fedele nelle cerimonie… testimone di cupe trame e messaggero segreto e fidato»); l’abate («alla ricerca di Dio nella preghiera e nella solitudine, eppur così avvezzo alle cose e alle contese del mondo… Sulle spalle, quante trame che hanno ordito la storia di questi nostri anni così splendidi, così terribili, così bui, così affascinanti»); il matematico-filosofo («nella speculazione sta il mio piacere, vera felicità che per contemplazione della verità s’acquista. Il vizio di queste generazioni è che considerano accettabili solo le scoperte fatte dagli antichi e dagli altri»); il cavaliere («in un tempo corrusco, in cui incursioni e furia di barbari e tiranni si scatenano contro le genti, in un tempo in cui il mondo, la cultura, la civiltà subiscon assedi da ogni luogo, in quel tempo il cavaliere corre l’avventura»).
Il «castello della conoscenza» è lo scrigno dei tesori più nobili e preziosi, l’arca del sapere, un castello immaginario che può esistere solo come castello virtuale: «Quando tu sarai giunto costì, veder potrai armi, gioielli, costumi di questo nostro tempo, ed udir le molte cose che raccontar se ne possono», toccando «la fiera armatura, o il monile che scintilla, o la dama dalla lunga veste». Il libro aperto sul leggio consente invece di leggere e ascoltare «le pagine tra le più belle che di lettere e di poesia furon composte ai tempi nostri». Toccando l’organistrum poggiato ai piedi di una colonna, si possono ascoltare musiche medievali. «E se tocchi la clessidra ove la sabbia scorre, conoscere potrai fatti ed opre, cattedrali e battaglie, grandi guerre e scritti di genio, che disegnaron la storia di questo nostro tempo». Quale tempo? Dal 1000 al 1500. Il Medioevo, questo Medioevo dei castelli, non ha dubbi nel periodizzarsi e nel definirsi. Tutto sommato, meglio così: dimezzando il periodo, si dimezza anche la percentuale di errori; peccato che poi finisca dimezzata anche l’incolpevole quarta crociata che, pur presentata dopo la seconda e la terza, e pur inserita in corrispondenza del 1204, quando «Venezia diventa padrona di tutto il Mediterraneo orientale», viene qui appunto retrocessa a «seconda crociata».
Il percorso tra i sei castelli ci conduce, nell’ordine, dalla rocca di Torchiara a quella di Bracciano, da Castel del Monte alla rocca di Gradara, da Castel Coira al maniero di Fénis. Entrati in un castello, se ne potrà uscire passando solo al successivo o al precedente (oltre che a quello della conoscenza), oppure scegliendo di tornare alla scena di base. Per ogni castello troviamo un grande riquadro destinato alle immagini, sempre accompagnate o spiegate da una voce narrante; in basso, accanto al portale di uscita, un cavaliere sull’arcione, che permette di visualizzare un particolare evento della storia di quel castello, «una battaglia, un trionfo, una giostra, una zuffa per gioco, un magico correr del tempo sulle torri»; un libro semiaperto, che se toccato fa comparire una pergamena con il testo (stampabile) del racconto e un utile glossario dei termini; un giovane con il liuto, che introduce ad una leggenda legata al castello; le frecce per procedere in avanti o a ritroso; e una «rosa magica» che fa apparire dalle quinte sulla destra tre dei sei personaggi che abbiamo già incontrato, ognuno dei quali narra dalla sua particolare angolazione un aspetto della storia della fortezza.
I tre personaggi si combinano in modo diverso per ogni struttura, «ché ogni castello è un mondo ove differenti vicende son trascorse». Notato di sfuggita che è certamente significativo il modo differente in cui sono stati scelti e aggregati, castello dopo castello, i tre personaggi (quello sempre presente è il cavaliere, seguito a ruota dalla dama, assente solo da Castel del Monte), e preso atto della cospicua mole di informazioni di ogni tipo presentate nell’opera, va aggiunto che ogni castello è qui l’occasione per valorizzare un segmento particolare del Medioevo immaginato e rappresentato dalla cultura di massa. La rocca «altera e felice» di Torchiara, «una geometrica macchina da guerra che ardita s’erge contro ogni nemico», è in primo luogo «il nido d’amore» che protegge l’illecita passione di due amanti, poi raffigurati negli affreschi che ornano le pareti e la volta della grande sala d’oro: Pier Maria de’ Rossi, condottiero degli Sforza, e Bianca Pellegrino. Il «fortilizio grandemente suggestivo» di Bracciano, dove si respira «quell’aria di intrigo, delitto, amore, tradimento, congiura e odio che fa della nostra un’epoca di indomite passioni», racconta le alterne vicende dello scontro tra papato e Impero, tra la famiglia dei Borgia e quella degli Orsini. Della storia di un’altra famiglia, i Malatesta, è testimone la rocca di Gradara, dove «un amore non permesso si mutò in sventura»: è la storia di Francesca, moglie del signore di Gradara Gianciotto, e del fratello di quest’ultimo, Paolo, che «tra letture cortesi di Lancillotto e Ginevra, s’abbandonano al sentimento così a lungo represso e inconfessato». C’è poi la mole massiccia di Castel Coira, dove si stabiliscono alla fine del Duecento i signori di Matsch, «valenti condottieri e capaci uomini d’arme», e agli inizi del Cinquecento i conti Trapp, che lo trasformano in stupefacente dimora rinascimentale, di cui ci vengono descritti con ricchezza di particolari ambienti e arredi. Così anche per il maniero di Fénis, dove si è ospiti del signore di Challant, Aimone, «signore accorto e illuminato… ma non già portentoso meditatore. Le lettere non son materia in cui egli sia ferrato; preferisce piuttosto le buone cavalcate e le partite di caccia».
E con la caccia giungiamo inevitabilmente a Castel del Monte e all’«ingegno che l’ispirò e lo volle, Federico II Svevo, imperatore e stupore del mondo». Questa architettura «mirabile, dettata dal moto del sole», ci spiega il matematico-filosofo, è «monumento alla conoscenza e ai misteri iniziatici». Segue una particolareggiata esposizione della tesi detta dello gnomone: «Se infatti alla latitudine di Castel del Monte, e non altrove, ponete un bastone a perpendicolo un’ora prima e un’ora dopo mezzodì nei giorni in cui corron gli equinozi, l’angolo racchiuso tra le due ombre è di 45 gradi», e via dicendo. Davvero solo alla latitudine di Castel del Monte? Non anche a quella di Andria, dov’era un’altra frequentata residenza castellare federiciana, o a quella del fortilizio del Garagnone, sulla Murgia, a qualche chilometro di distanza da Castel del Monte? Evitiamo di sottilizzare troppo, in questa sede. Accontentiamoci di apprendere che quanto «di esoterico v’è nel castello, manifesto a pochi, è reso parte integrante della sua architettura», senza interrogarci se e quanto sia possibile addirittura divulgare i «misteri iniziatici» di un «monumento alla conoscenza». Per questa via, ogni castello reale può diventare immaginario.
Va meglio con la pur enfatica narrazione del cavaliere su Federico II e la caccia, praticata presso il «castello ch’è perla prediletta dell’illuminato sovrano», «nelle boscose selve intorno, e per le forre basse levigate dal vento». Lo sguardo di Federico è qui «ghiaccio e intenso, e i passi forti e calmi. Il suo lungo mantello struscia la pietra rossa delle porte, e al suo passaggio si fan da parte i servitori». E sembra andar meglio anche con il racconto del menestrello, che canta da par suo la vita quotidiana nel «magico anello ottagono», e il lavoro delle maestranze nel cantiere castellare, e l’apporto degli artisti e degli scultori. Il colpo basso ci raggiunge perciò senza preavviso, quando ci dice che «da quell’affaccio, ove il pensiero spazia meglio sull’orizzonte largo, e dalla spianata del castello, Federico spesso prende appunti per uno scritto sulla caccia e sui falconi: “De ars venandi cum avibus”». E cascano le braccia. Anche perché qui, a proposito dell’edificazione di Castel del Monte, il menestrello ci parla del mandato imperiale datato «il 29 di gennaio, sembrami dell’anno domini 1240, da quel di Gubbio… al fin che il castro in Santa Maria del Monte sia presto e di buona lena compiuto e rifinito», mentre in precedenza, dall’opzione-clessidra contenuta nel «castello della conoscenza», avevamo appreso che «ad Andria Federico II fa erigere il suo Castel del Monte in stile gotico-classicheggiante» nel 1250. Insomma, prima del 1240 o nel 1250?
Giriamo la questione ad un cd-rom che si definisce «multimediale educational-storico monotematico», e garantisce di saper coniugare «il rigore scientifico della ricerca storica con il fascino dell’interattività ipertestuale», Federico II l’imperatore illuminato, allegato al periodico culturale «Interactive Explora», novembre 1996 (che pubblica anche un breve ma intenso Profilo di Federico II, autonomo rispetto ai testi del cd-rom). Le credenziali sono di tutto rispetto: il cd-rom, veniamo informati in apertura, dedicato a padre Angelo Arpa, ideatore del «Progetto Europa», è stato prodotto dalla Fondazione Europa e Comunità mondiale, e realizzato con il patrocinio del Comitato italiano per le celebrazioni dell’VIII centenario della nascita di Federico II. Dal fondo nero del video che simula gli spazi siderali, ci viene subito incontro ruotando un Castel del Monte tridimensionale, che si avvicina sino a risucchiarci nel suo interno (e l’impatto visivo è di grande effetto), depositandoci di fronte ad una mappa generale, punto di partenza per un itinerario che si snoda lungo decine di argomenti e approfondimenti, cronologie, filmati e centinaia di immagini che «scorrono in sincrono con un commento audio a più voci impreziosito da musiche originali».
La mappa generale presenta in alto tre piantine dell’ottagono castellare, che riproducono rispettivamente il piano terra (formato da una sala ottagonale centrale e da otto salette trapezoidali laterali), il primo piano (che ha a sua volta una sala ottagonale e otto salette trapezoidali), e le otto torri. Sotto ogni piantina è disposta una pergamena con l’elenco degli argomenti illustrati all’interno di quel livello. Il piano terra, intitolato «Trama storica», contiene nove argomenti, in corrispondenza dei nove ambienti del piano: al primo, «Il protagonista», è dedicata la sala centrale; agli altri otto (da «L’eredità normanna», a «La successione») le salette laterali. Analogamente nel primo piano, intitolato «Stato e cultura», la sala ottagonale è dedicata al primo argomento, «Il politico e l’intellettuale», mentre le salette laterali contengono gli altri otto (da «Il re e l’imperatore» a «La vita di corte»). Ogni argomento di questi due piani prevede a sua volta sottoargomenti e ulteriori approfondimenti. Solo otto, uno per ogni torre ottagonale, sono invece gli argomenti della pergamena dell’ultimo livello, intitolato «Antologia», raccolta di curiosità e notizie di diverso genere, da «Profezie e leggende» a «Medioevo in cucina». Si può ora scegliere di stabilire autonomamente il percorso, oppure di affidarsi ad una lunga «visita guidata» in cui tappe e argomenti già prefissati si succedono automaticamente, o ancora di usufruire di una «visita virtuale» che ci mostra in formato tridimensionale i diversi ambienti del castello, dal piano terra alle torri: non nudi e spogli come oggi si presentano, ma come forse sarebbero apparsi agli occhi di un visitatore medievale.
Per ricchezza della grafica, per qualità delle immagini, dei filmati e del sonoro, per capacità di elaborazione e realizzazione tecnica, il cd-rom raggiunge la spettacolarità promessa (ma su questo piano L’età dei castelli è imbattibile). Anche se imprecisioni e limiti non mancano, dall’assenza di didascalie per le tante immagini offerte, a qualche errore seminato distrattamente qua e là. Stupisce ad esempio sentir narrare dalla voce del commentatore, nella quarta sala del piano terra, «Il regno di Sicilia», terzo sottoargomento, «La rivalsa», che giunto Federico II a Roma, «il 22 novembre del 1120 papa Onorio III lo incoronava imperatore». Oppure, sempre a proposito della corona, apprendere dalla sua biografia che Federico «ancora bambino venne allevato da papa Innocenzo III che, opponendolo ad Ottone di Brunswick, lo incoronò imperatore nel 1220», cioè quattro anni dopo essere morto. Ma qui, in un castello virtuale, anche i papi sono virtuali.
Entriamo nella quarta torre dell’«Antologia», dedicata ai castelli. C’è un non breve filmato commentato da uno speaker: scorrono, in sincronia con la voce, le immagini di alcuni dei castelli federiciani. Castel del Monte, innanzi tutto, certo «la più famosa di tutte le costruzioni federiciane», un edificio «concepito come casino di caccia e costruito tra il 1240 e il 1250». Nell’arco di un decennio, in modo da accogliere un po’ tutte le ipotesi: quella che vuole il castello completato nel 1240, quella che nel 1240 lo ritiene iniziato, quella che propone il 1250 come anno dell’ultimazione dei lavori… Tra i castelli di Puglia, ricordati ancora quello di Oria, «uno dei primi fatti riedificare da Federico», e quello di Bari, «edificato verso il 1130 da Ruggero II» (anno più, anno meno). Tra i castelli di Sicilia, citati solo il Castello Ursino di Catania e Castel Maniace di Siracusa, che «prende il nome dal generale bizantino Giorgio Maniace, che nel 1308 conquistò la città siciliana per breve tempo»: breve la conquista, ma assai lunga, quasi tre secoli, l’esistenza del Maniace, peraltro già testimoniato in Sicilia nel 1038. Ma quanti castelli ha realmente costruito nel regno, lo Svevo? Ce lo spiega la voce narrante: «La fama di Federico gran costruttore di castelli deriva probabilmente da un documento redatto tra il 1241 e il 1246, pervenutoci attraverso versioni angioine, lo Statutum de reparationem castrorum»… Ben detto: se in un Castel del Monte virtuale sono virtuali anche i papi, perché non dovrebbe essere virtuale il latino?
Rimaniamo in ambito federiciano e ancora a Castel del Monte con un altro cd-rom divulgativo, Federico II. Sole del mondo che illuminava le genti, edito nel 1996 da Artemis-Comunicazioni multimediali. Caricato il cd-rom, dopo la schermata del titolo (in cui ogni cinque secondi attraversano lo schermo in fila indiana, da sinistra a destra, cinque uccelli acquatici stridenti), si entra nel quadro di base: musica in sottofondo; a sinistra la pianta ottagonale di Castel del Monte; a destra l’imperatore a cavallo con un falcone; sullo sfondo il castello; in basso a sinistra il portale d’uscita (e ogni cinque secondi attraversano lo schermo, ma da destra a sinistra, i soliti uccelli stridenti: dopo un po’, ci si augura vivamente che il falcone si lanci a ghermirli e li elimini definitivamente). In basso la scritta «Cerca aiuto nel sole». Toccando il sole al centro dell’ottagono si entra nella guida, che dispone di quattro opzioni: come sfogliare il libro multimediale; la stampa dei testi; gli autori; la bibliografia (ma è costituita solo da undici titoli). Ciascuna delle otto sale dell’ottagono conduce ad un particolare capitolo: si va dalla «Galleria del tempo» della prima sala, ai «Personaggi» dell’ultima. Ogni capitolo, a sua volta, è diviso in paragrafi.
Nel quinto paragrafo, «Apulia luce degli occhi nostri», della sesta sala (dedicata ad «Architetti ed arte») ci appare una cartina della Puglia e della Basilicata con la localizzazione di 14 castelli «federiciani»: Monte Sant’Angelo, Castel Fiorentino, Lucera, Foggia, Barletta, Trani, Castel del Monte, Gravina, Bari, Gioia del Colle, Brindisi, Melfi, Palazzo San Gervasio e Lagopesole. Basterà sfiorare ogni castello con il cursore, perché si manifestino il nome e un’immagine della struttura; se invece si clicca sul castello, si accede alla «pagina» che gli è dedicata, con la possibilità di visualizzare immagini, filmati, testi con informazioni storiche, e di ascoltare musiche medievali. Se i dati storici forniti appaiono per lo più corretti, le immagini sono invece un po’ il punto debole di questi castelli virtuali. Intanto, perché non sempre si riferiscono ad elementi castellari di età federiciana: è una scelta possibile, forse necessaria, ma da indicare, specialmente quando si fa divulgazione. Sicché del castrum di Lucera ci vengono mostrate le mura e una delle torri angioine, invece dei resti del palazzo federiciano, e non c’è didascalia che ne dia conto; e di quello di Bari la foto ritrae uno dei maestosi baluardi angolari a lancia di età aragonese-sforzesca, e anche qui manca la didascalia esplicativa. Le immagini possono essere ingrandite: ma in quella di Palazzo San Gervasio la struttura castellare rimane indistinguibile; e può accadere che, ingrandendo un’immagine, ne venga fuori un’altra del tutto diversa, come per Lucera (e per l’immagine della cattedrale di Trani che è nella cartina degli edifici sacri dello stesso paragrafo). Sfasature sono anche nei filmati (qui previsti solo per tre castelli), con immagini poco nitide e ripetute: quello sul castello di Bari insiste sulle parti aragonesi e sforzesche, mentre la voce narrante descrive gli ambienti normanni e svevi.
A Castel del Monte si può giungere anche dalla settima sala dell’ottagono, articolata in cinque paragrafi. Nel primo, sulla genesi dell’edificio (con un filmato che, come gli altri, si apre con riprese aeree ed ha immagini non sempre a fuoco), la data di edificazione del castello viene posta «prima del 1240», citando il mandato imperiale del 29 gennaio 1240, ma si dà conto dell’esistenza di una diversa interpretazione, che vuole solo sollecitato in quella data l’avvio dei lavori. Meno problematiche le affermazioni del secondo paragrafo, sulla progettazione e destinazione dell’opera: «Si può affermare con certezza che Castel del Monte non è una fortezza militare», perché «sono assenti il ponte levatoio, il fossato», e via dicendo (sicché si è legittimati a credere che non si dà castello senza fossato e ponte levatoio), e poi perché «non è strategicamente collocato su passaggi obbligati» (sicché si deve ritenere che la via Traiana non fosse un percorso strategicamente rilevante, e che nessun rapporto, nemmeno visivo, legasse quel castello agli altri disposti nel raggio di qualche chilometro). E dopo un terzo paragrafo che ne descrive l’architettura, e prima dell’ultimo, che ne riprende la tesi dell’«affascinante isolamento», il quarto paragrafo, su geometria e simbologia dell’edificio, ci ripropone come scontata un’interpretazione che è stata formulata come ipotesi, e come pienamente decifrabile una struttura che, insanabile contraddizione, si pretende ancora inconoscibile per le sue connessioni e i suoi risvolti esoterici, «un mistero singolare nella storia dell’architettura». Mistero da cui rispunta trionfale, c’era da scommetterci, il numero otto, «che si trova ripetuto quasi ossessivamente in ogni struttura della fortezza» (come, fortezza? Non era stato affermato «con certezza che Castel del Monte non è una fortezza»?). Mistero dopo mistero, brivido dopo brivido, torniamo a sprofondare nell’ignoto: «è curioso osservare che la somma delle cifre dell’anno della morte [di Federico II], 1250, sia proprio pari a otto».
Qualcuno deve aver scritto che il Medioevo virtuale è una dimensione ai confini della realtà storica, così come il Medioevo storico è in realtà una dimensione virtuale. Il nostro itinerario fra i castelli ne è una conferma. I castelli medievali ci rappresentano, ci somigliano. Allora perché non provare a costruircelo direttamente e su misura, il nostro personale castello? Perché non disegnarlo, progettarlo, costruirlo secondo il nostro gusto e la nostra sensibilità, scegliendo forma e funzioni, materiali e strutture, mastio e ingresso, mura e tetti, torri quadre e tonde, torrette e merli, sale e scale, pozzo e cortile, alloggi per la guarnigione e stalle… Impossibile? Non ad un recente cd-rom della Tecniche Nuove Multimedia, Viaggio nel Medioevo. Castelli, dame, cavalieri e battaglie da costruire e da inventare, tra gli strumenti multimediali sin qui trattati forse il più utile, anche didatticamente, un cd-rom progettato per costruire castelli da stampare o realizzare su carta o altri materiali, «con forme e complessità diverse, dando vita ad un gioco infinito». Si dimostra così, finalmente, che anche un castello virtuale può diventare reale.
BIBLIOGRAFIA
Castelli d’Italia e i più grandi d’Europa. Storia. Miti. Leggende, pubblicazione settimanale, Hobby & Work Italiana Editrice S.r.l., Redazione Grandi opere. Progetto e realizzazione editoriale: Editing & Packagers Associati, Axioma S.r.l. Direzione generale: Bepi G. Marzulli. Coordinamento redazionale: Marina De Giorgi. Segreteria di redazione: Franca Lombardo. Progetto grafico: Andrea Mattone. Realizzazione grafica e impaginazione: Luca Marzulli, Simona Petrella. Illustrazioni e cartografia: Laura Federici. Gouaches: Laura Federici. Testi del Repertorio generale: Tiberia de Matteis. Testi della Storia dell’architettura difensiva: Lorella Cecilia, Giovanna Quattrocchi.
Testi delle monografie castellari (sino a gennaio 1997): Minna Conti: fascicoli n. 22, Castello di Fosdinovo; n. 28, Rocca di Spoleto; n. 30, Castello di Gaeta e Forte Michelangelo di Civitavecchia; n. 33, Forlì, Rocca di Ravaldino; n. 36, Siracusa, Castello Maniace; n. 38, Castello di Grinzane Cavour; n. 41, Lucera, Fortezza Angioina; n. 44, Castello di Lagopesole; n. 46, Rocca di Sassocorvaro; n. 49, Genova, Castello D’Albertis; n. 53, Rocca d’Angera; n. 55, Scozia, Castello di Glamis; n. 57, Assisi, Rocca Maggiore e Rocca di Narni; n. 59, Germania, Castello di Nymphenburg; n. 61, Rocca di Castell’Arquato; n. 62, Enna, Castello di Lombardia; n. 64, Marostica, Castello Inferiore; n. 65, Castel Gavone e castello di Andora; n. 66, Palazzina di caccia di Stupinigi; n. 67, Inghilterra, Castello di Warwick; n. 69, Senigallia, Rocca Roveresca.
Marina De Giorgi: fascicolo n. 1, Mantova, San Giorgio.
Tiziana Gazzini: fascicoli n. 2, Sermoneta, Castello Caetani; n. 6, Volterra, Fortezza Medicea; n. 9, Forte di San Leo; n. 12, Castello di Portovenere; n. 14, Castello di Issogne; n. 17, Castello di Otranto; n. 19, Romania, Castello di Bran; n. 21, Merano, Castello Principesco; n. 25, Trieste, Castello Miramare; n. 26, Napoli, Castel Sant’Elmo; n. 29, Ferrara, Castello Estense; n. 32, Verona, Castelvecchio e Castel San Pietro; n. 34, Fontanellato, Rocca San Vitale; n. 37, Roma, Castel Sant’Angelo; n. 40, Castello dell’Aquila; n. 42, Prato, Castello Imperatore; n. 48, Caserta, Reggia e Castello; n. 52, Nettuno, Forte San Gallo; n. 54, Castel Coira.
Roretta Giordano: fascicoli n. 3, Andria, Castel del Monte; n. 5, Castello di Fénis; n. 8, Bari, Castello Svevo; n. 10, Napoli, Castel Nuovo; n. 13, Firenze, Fortezza da Basso; n. 16, Cesena, Rocca Malatestiana; n. 18, Sansepolcro, Fortezza Medicea; n. 24, Catania, Castello Ursino; n. 27, Germania, Castello di Charlottenburg; n. 45, Castello di Cherasco; n. 47, Germania, Castello di Sanssouci; n. 50, Rocca di Dozza; n. 56, Fortezza di Palmanova; n. 58, Castello di Serralunga d’Alba; n. 60, Castello di Pacentro; n. 68, Palermo, Palazzo dei Normanni.
Piero Poggio: fascicoli n. 4, Valle della Loira, Castel Chambord; n. 7, Austria, Castello di Schönbrunn; n. 11, Spagna, Alcázar di Segovia; n. 15, Danimarca, Castello di Kronborg; n. 20, Milano, Castello Sforzesco; n. 23, Germania, I castelli del Reno; n. 31, Scozia, Castello di Edimburgo; n. 35, Germania, Castello di Neuschwanstein; n. 39, Inghilterra, Castello di Windsor; n. 43, Francia, Castello di Chenonceau; n. 51, Francia, Castelli di Angers e Cheverny; n. 63, Austria, Castello di Hohensalzburg; n. 70, Urbino, Palazzo Ducale.
Le videocassette, realizzate tutte su testi, sceneggiatura e dialoghi di Gian Giuseppe Viggi e con la regia di Giuseppe Viggi, voce narrante di Romano Malaspina, sono allegate ai fascicoli n. 1, Mantova; n. 2, Sermoneta; n. 8, Bari; n. 16, Cesena; n. 24, Catania; n. 32, Verona; n. 40, L’Aquila; n. 48, Caserta Vecchia; n. 56, Palmanova; n. 64, Marostica. Le ultime 3 videocassette sono annunciate con i fascicoli n. 72, Trento; n. 80, Fano; n. 88, Bolzano.
«Medioevo. Un passato da riscoprire», anno I, n. 1, febbraio 1997, edizioni De Agostini-Rizzoli periodici. Direttore responsabile: Luca Grandori. Direttore scientifico: Jean-Claude Maire Vigueur. Redazione: Valeria Lembo. Ricerca iconografica: Lorella Cecilia. Segreteria di redazione: Maria Luisa Bandini. Progetto grafico: Alberto Saracco. Realizzazione grafica: Tonino Carnale/Editing Technology.
L’età dei castelli, cd-rom edito da Parsec S.r.l., ottobre 1995. Regia, grafica, design dell’inter-faccia, sviluppo software, progetto editoriale, elaborazione delle immagini, produzione video, postproduzione video e audio: Parsec. Testi e ricerche storiche e letterarie: Parsec. Ha collaborato alla redazione Carla Scarsi. Voci dei personaggi: l’abate, Carlo Cataneo; il cavaliere, Massimo Antonio Rossi; la dama, Maddalena Vadacca; il matematico-filosofo, Riccardo Rovatti; il menestrello, Natale Ciravolo; il paggio, Roberto Trapani. Musiche: prodotte dal Centro Italiano Musica Antica.
Federico II l’imperatore illuminato, cd-rom allegato a «Interactive Explora. Periodico multimediale di cultura, scienza e civiltà», I, numero 4, novembre 1996. Una produzione della Fondazione Europa e Comunità mondiale, realizzata con il patrocinio del Comitato italiano per le celebrazioni dell’VIII centenario della nascita di Federico II. Ideazione e direzione artistica: Gino Capone. Direzione tecnica: Luigi Loreti. Consulenza progettazione e realizzazione: Renato Angelelli. Ricerca storica e testi: Agenzia del tempo, Elisa Bizzarri, Annalisa Zanuttini, Marco Zuccari. Ricerca iconografica: Agenzia del tempo, Francesca Donati. Coordinamento redazionale: Isabella Sermonti. Grafica e Progetto tridimensionale: Roberta Fiorani. Musiche originali: Nicolò Iucolano. Musiche realizzate da: Fabio Massimo Colasanti. Tecnico Audio: Mauro Antonioni. Voci: Augusto Zucchi, Walter Tocci. Il Profilo di Federico II pubblicato alle pp. 5-10 del periodico, autonomo rispetto ai testi del cd-rom, è di Girolamo Arnaldi.
Federico II. Sole del mondo che illuminava le genti, cd-rom edito da Artemis-Comunicazioni multimediali, 1996. Ideazione, progetto generale, impostazione grafica, audio e video: Fabrizio Antonio Recchia. Progetto e realizzazione software: Ninni Ermito.Elaborazione testi: Angelamaria Nitti. Voce recitante: Paolo Zoboli. Riprese aeree: Piero Aloisio. Composizione delle musiche originali e consulenza audio: Francesco Sgobba Palazzi. Canto Gregoriano eseguito dal Coro Monastico «Abbazia Madonna della Scala» di Noci (Ba), diretto da P. Anselmo Susca.
Viaggio nel Medioevo. Castelli, dame, cavalieri e battaglie da costruire e da inventare, cd-rom della Multimedia Tecniche Nuove S.p.A., 1997 (senza ulteriori indicazioni).
Se voi chiedete ad un bambino come si immagina un castello, lui vi risponderà che in un castello ci sono alte torri, un ponte levatoio attraverso il quale si supera un fossato pieno d’acqua e animali feroci, le insegne di un conte o di un barone. All’interno del castello ci sono grandi sale arredate con dipinti, opere d’arte, quadri, tendaggi, camini enormi.
Se andate su un qualsiasi manuale di storia delle scuole medie e vi soffermate a guardare le pagine dedicate alla vita nel medioevo troverete un castello che domina un piccolo borgo. Il castello è circondato da un fossato pieno d’acqua, è dotato di un ponte levatoio, alte torri dalle quali controllare il territorio circostante.
Quando un turista porta la sua famiglia in visita ad un castello non si aspetta di trovare altro che un ponte levatoio, un fossato, alte torri ecc. ecc.
Per non parlare del cinema da quello a fumetti a quello di fanta-storia come nella saga dello ‘Hobbit’, ma anche quelli che derivano dalla saga di ‘Artù’, dove i castelli sono su erti monti, con torri altissime che attirano fulmini dal cielo.
L’immaginario trova forse nei castelli medievali il terreno più fertile perchè le immagini prendano il sopravvento sulla realtà favolistica e/o romanzata. Sin qui sarebbe tutto bene, il problema è che spesso l’immaginario prende il sopravvento spesso e volentieri anche sulla storia.
L’immagine del castello medievale feticcio immaginifico campeggia molto spesso sui libri di storia insieme alla famigerata piramide feudale. Così anche nelle visite guidate molto spesso le guide raschiano il fondo delle storie ‘misteriose’ e ‘storicamente’ verosimili per cercare di coinvolgere turisti e visitatori. Insomma il binomio castello medievale / mistero e avventura della storia è un classico della divulgazione che, per carità, troverebbe nobili origini se dovessimo pensare al capolavoro di H. Walpole ‘Il Castello di Otranto’.
Così l’immaginario letterario fa da base all’immaginario collettivo e spesso l’immaginario collettivo si trasforma in immaginario culturale, mandando un po’ in campana la storia dei documenti e la vicenda dei castelli.
In Puglia esiste un castello che costituisce un caso emblematico in tal senso Castel del Monte. L’immaginario collettivo lo vuole costruito da Federico II e pensato non come un castello ma come un edificio misterioso la cui destinazione non sarebbe ancora chiara. Molti dicono che non si tratti di un castello, perchè pur avendo otto torri, neanche tanto alte per la verità, non ci sarebbe il ponte levatoio ed il fossato. Castel del Monte è protagonista di libri, studi, trasmissioni televisive, anche produzioni cinematografiche, un immaginario nobilitato anche dalla citazione di U. Eco nel ‘Nome della Rosa’ che appunto immagina la Biblioteca dell’abbazia, dove si svolge l’intera vicenda, con le forme ispirate proprio dal Castello pugliese. E poi riferimenti all’immancabile Sacro Graal, ai templari…insomma ci sta materiale per tutti i gusti.
Il problema dell’immaginario è appunto quello di superare la realtà. Per questo il visitatore ed il turista spesso al termine della visita al Castello rimangono un po’ delusi per non aver trovato tutte quelle tracce, visibili, ma anche invisibili, che possano giustificare il proprio immaginario, nonostante lo sforzo di guide sempre meglio addestrate ad additare sculture, iscrizioni, spesso anche scoli delle acque reflue per poter suggellare i più intriganti passaggi romanzeschi e misteriosi dell’immaginario popolare.
Naturalmente ci sono casi dove sull’immaginario collettivo si sono costruiti parchi storici e tematici che della storia hanno tenuto un conto piuttosto esiguo a volte inesistente. E questo accade in Italia, ma anche e soprattutto all’estero, dove Francia e Inghilterra diventano importanti punti di riferimento in questo senso.
Quello che colpisce è come l’immaginario popolare e collettivo abbia ad un certo punto preso il posto della divulgazione e formazione culturale. L’idea del castello medievale che domina il borgo perlopiù rurale diventa una storia/feticcio che pian piano ha preso il sopravvento sulle notizie storiche, ma anche sui resti dei castelli medievali.
L’idea è stata quella di ‘realizzare’ pian piano castelli in grado di rispondere alle esigenze dell’immaginario collettivo un po’ come avvenne a Torino nel 1911, in occasione dell’Esposizione Universale, quando fu costruito un intero borgo medievale ‘ Il Valentino’ con tanto di castello. Il ‘Valentino’ sarebbe la giusta traduzione di quell’immaginario, ma sembra quasi che quell’immaginario diventi una necessaria realtà quando si parla di castelli e di borghi medievali ai turisti e, ahimè, anche agli studenti. Sembra che l’ideale romantico e neogotico di oltre un secolo fa faccia fatica a tramontare. Il turista, lo studente di scuola media ha bisogno dell’immaginario per sovrapporre la propria esperienza cinematografica e fiabesca alla storia, e fa niente se per questo motivo la storia viene stravolta.
La necessità e a volte la pretesa dell’immaginario può diventare quasi patologica, una scelta che diventa irrinunciabile non soltanto a scapito della storia, ma addirittura al posto di questa. Perchè un altro immaginario collettivo è che la storia sia ‘pesantemente’ scritta solo sui libri, che le sue notizie siano spesso intraducibili se cucite addosso ai monumenti, mentre la letteratura, la fiaba, l’immaginario appunto, ci sta molto meglio.
E questo determina anche delle scelte e degli itinerari: per esempio a Castel del Monte ci vanno quasi mezzo milione di visitatori all’anno, mentre sui castelli arroccati dell’Alta Murgia (Garagnone) o della Basilicata (Monte Serico e tanti altri) il numero diminuisce drammaticamente. Eppure su quei castelli si compie un miracolo e cioè quello del fascino della storia e della natura. Ma ormai se non trovo un fossato ed un mistero del paesaggio dello sperone di roccia sul quale affiorano i resti di un diroccato castello normanno non me ne faccio nulla. E poi è vero che nei film i castelli sono sui monti, ma nella realtà si fa fatica a salirci. Meglio rimanere al livello del mare meglio arrivarci in macchina.
Qual è il confine entro il quale l’immaginario possa essere tollerato? E quando la storia, non per riscatto, ma per semplice correttezza, potrà riprendersi il proprio ruolo?
A queste domande non ci si dovrebbe arrivare mai…l’immaginario dovrebbe rimanere nell’immaginario così come accade al Valentino di Torino, un po’ tutti sanno che è finto, così anche la storia dovrebbe rimanere tale e dai libri dovrebbero scomparire certe immagini e certe piccole allusioni.
Il rischio è che l’immaginario sia diventato una necessità non per sfuggire alla storia, della quale molto spesso al turista importa non tantissimo, quanto di fuggire dalla realtà: il castello turrito misterioso e medievale non combatte contro la storia scritta nei libri, ma contro l’attuale immagine delle città, di quelle che hanno volutamente cancellato il fascino del loro passato per far posto ad aree urbanizzate sempre un po’ più squallide.
Cronaca di una visita al castello che non c’è. Il turismo parastorico in Puglia e Castel del Monte
Fot. 1 Le scolaresche sono abituali frequentatrici di Castel del Monte
Il cavallo bianco di Garibaldi.
Che cosa è Castel del Monte, la fortezza che si erge sulle alture murgiane andriesi e che appare sulle monete da un centesimo di euro? Domanda retorica: è un castello. E’ come quel gioco di parole che si faceva da bambini in cui si chiedeva ai più piccoli di che colore fosse il cavallo bianco di Garibaldi, e notavi la veloce sensazione di smarrimento negli occhi dei malcapitati che si riprendevano subito dall’innocente tranello. Eppure questo gioco linguistico, che da bambini ci faceva tanto ridere, diventa seria, quando parliamo di Castel del Monte, perché la risposta non è più soltanto “un castello”, ma si arricchisce di una serie di congiunzioni avversative che vanno a correggere se non ad annullare il significato stesso della parola “castello”.
Se a praticare questo gioco fosse uno dei tanti professionisti della “parastoria”, quel sistema di produzione di racconti sul passato, che tende a invadere i media presentandosi come “storia alternativa a quella ufficiale”, ci potremmo limitare a qualche commento ironico. Ma se a prospettare questo nonsense del “Castel del Monte non-Castello” sono delle guide turistiche, pagate dall’ente regionale durante le aperture gratuite dei musei, allora la preoccupazione è grande, perché dopo decine di anni di studi sul maniero federiciano ci si chiede per quale motivo questi professionisti della narrazione del territorio storico spaccino ancora spiegazioni vecchie e prive di ogni fondamento e ci si chiede come la Regione Puglia abbia loro potuto riconoscere la patente di guida turistica.
Visita in una sera di fine luglio.
In una fresca sera di luglio di quest’anno, ho provato a sfruttare gli Open days, appunto le aperture gratuite dei castelli e musei di Puglia. Ad attendere me e un gruppo di una ventina di persone un’avvenente guida con tanto di patentino in bella vista. Appartiene ad un’associazione andriese, che ha nel nome, stampato sulla maglietta nera con caratteri in oro, un sorta di richiamo divino della stessa regione. Questa associazione è stata scelta, tra altre, dall’Ente regionale per la promozione turistica, Puglia Promozione. Armato del taccuino del mio smartphone, mi segno ciò che dice la guida. Inizia col precisare che di Castel del Monte esiste un solo documento, poi elenca una serie di “anomalie” quali: la mancanza di fossati, che – dice – non lo fanno un vero castello anche se ha una serranda per chiudere il portale, ma quell’elemento di protezione non fa testo – avverte – e per quanto tutti lo chiamino “castello” e lo definiscano così le fonti medievali, di fatto non lo è – conclude – anche perché ha un portale che sembra una chiesa…
Fot. 2: Secondo alcune fantastiche ricostruzioni, al centro del cortile vi sarebbe stata una vasca per le abluzioni, pratica obbligatoria di ogni percorso rituale
Conosco questa cantilena parastorica: il percorso obbligato, il tempio laico, la piscina al centro del cortile, la congiunzione con Chartres e Gerusalemme, le cucine che non sono cucine ma camini per bruciare le essenze, la residenza di caccia che però è anche un hammam, nonostante i materiali edili siano poco inclini agli ambienti termali – ma ultimamente degli architetti del Politecnico di Bari hanno sostenuto che fosse proprio un complesso termale -, il senso antiorario delle scale a chiocciola, i giochi di luce che fanno comparire delle croci (questo, la guida lo diceva facendo vedere una fotografia dove comparivano solo due delle quattro braccia di una croce) e che richiamano la presenza dei templari.
La matrice di tutte le parastorie.
Questa somma di stereotipi trasforma un edificio con precise funzioni militari in una sorta di tempio laico, dove degli iniziati passavano il tempo a purificare l’anima tra bagni e simboli magici. E’ proprio questa la matrice mitopoietica che mette insieme tutte le letture esoteriche del castello, da quelle spiccatamente massoniche alle ultime degli studiosi del Politecnico di Bari. Questo cllché narrativo può esistere a un paio di condizioni: annullare la storia e le evidenze documentali e sottoporre quelle accettate ad un procedimento di lettura fatto di ipotesi e di ipotesi costruite su ipotesi, in un gioco che non finisce più. Lo stesso abile procedimento di storytelling applicato dagli autori della trasmissione “Voyager” di Raidue. Questi però, più furbi delle nostre guide, durante la loro trasmissione sulla Puglia, andata in onda il 22 giugno 2015, nella bibliografia dedicata al castello, hanno consigliato il libro curato da Raffaele Licinio, docente di Storia Medievale dell’Università degli Studi di Bari, Castel del Monte. Un castello medievale, testo che smentisce bellamente le letture esposte durante la trasmissione.
Itinerario minimo di sopravvivenza.
Esiste un percorso bibliografico minimo per sopravvivere a questo proliferare di teorie parastoriche? Un itinerario per ripartire dalla storia e dalla ricerca più accreditata, per costruire una narrazione efficace e avvincente del maniero federiciano?
Sì. La prima tappa è un saggio del 1981 di Giosuè Musca, docente dell’Ateneo barese e per vent’anni direttore del Centro di Studi Normanno-Svevi (rivisto dall’autore nel 2002 è stato riedito nel 2006 con il titolo Castel del Monte, il reale e l’immaginario). Apprendiamo, da quel lavoro, che già dagli anni ’80 lo storico barese metteva in guardia dalle derive mitopoietiche di certa letteratura sul castello.
La seconda tappa sono gli studi di Raffaele Licinio con il summenzionato volume e il suo Castelli medievali. Puglia e Basilicata dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, del 1994, riedito nel 2010, e Castel del Monte e il sistema castellare nella Puglia di Federico II (2001), un volume che raccoglie gli studi del gruppo di ricerca sul castello. Gli studi di Licinio hanno contestualizzato il maniero federiciano nella storia istituzionale, economica e sociale del medioevo meridionale, inserendolo nel sistema castellare svevo, e smascherando le narrazioni più fantasiose.
I suoi testi ci fanno approdare alla terza tappa, con Massimiliano Ambruoso, e al suo Castel del Monte. Manuale storico di sopravvivenza, edito nel 2014 con la presentazione di Franco Cardini e un’appendice di Anna Castriota, ricercatrice pugliese al St. Clare’s College di Oxford. Testo che raccoglie e decostruisce tutte le tesi sul castello per rilanciare una narrazione storica corretta. Tappa complementare, per una fruizione didattica, è il volume di Elena Musci Scoprire e giocare a Castel del Monte, del 2013, che fa propri gli studi più accreditati per trasporli in laboratori e giochi da allestire nel castello.
Esame di conoscenza.
A partire da questa visita, pongo alcuni problemi, che non si limitano al caso di questo bene culturale. Ben venga la legge regionale che ha istituito le guide turistiche: ma queste come sono state scelte? Quali studi hanno fatto? Esistono corsi di laurea in Beni Culturali: sono stati coinvolti nella loro formazione? Quali sono le strutture e i sistemi di aggiornamento di questo personale? Chi gestisce il castello, ovvero il Polo museale della Puglia e la cooperativa Nova Apulia per i servizi didattici, si serve di questa associazione andriese per il servizio di guide alle scolaresche e ai turisti? E il Comune di Andria è a conoscenza del degrado conoscitivo di alcune guide, oppure è una questione a cui non è sensibile?
Tanti attori gravitano attorno ad un castello, che è un sito speciale, sia per il riconoscimento dell’Unesco nel 1996, sia per l’alto numero di visite annue. Un capolavoro dell’arte da tutelare a partire da come lo si presenta e racconta, e che per questo va affidato a persone responsabili e preparate.
Nel 2009, presso il Comune di Barletta, il Centro di Studi Normanno-Svevi dell’Università di Bari organizzò per la terza edizione di “Puglia in-difesa” una tavola rotonda cui parteciparono Cardini e Licinio, la precedente direttrice del castello, Michela Tocci e operatori culturali come il direttore del Festival Castel dei Mondi di Andria, Riccardo Carbutti. Fu un momento importante per discutere sul futuro del maniero federiciano, un momento di condivisione e discussione che oggi andrebbe ripetuto anche con i nuovi attori della comunicazione storica, per evitare che qualcuno il cavallo bianco di Garibaldi lo faccia diventare nero… ma per l’umore.
Puntata speciale di Historycast dedicata alle rievocazioni storiche e condotto a due voci: Enrica Salvatori e Rosita Bellometti, esperta in reenactment [ascolta la puntata]
in Il paesaggio agrario italiano medievale. Storia e didattica. Summer School Emilio Sereni II Edizione 24-29 agosto 2010, a cura di Gabriella Bonini, Antonio Brusa, Rina Cervi, Emanuela Garimberti
D. Balestracci, Medioevo e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Bologna 2015
R. Bordone, Lo specchio di Shallot. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’ottocento. Napoli 1993.
E. Castelnuovo e G. Sergi, Il Medioevo al passato e al presente vol. IV, Torino 2004.
P. Clemente, Bizzarri rendiconti, in Le terre di Siena. La storia, l’arte e la cultura di una provincia unica, a cura di M. Boldrini, Siena 1999, vol. 1, pp. 328-335
Feste, luoghi e patrimonio. Uno sguardo comparativo sui territori del festivo in Italia e in Europa, a cura di F. Mugnaini, Firenze 2011
T. Di Carpegna Falconieri, Medioevo Militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Torino 2011 I. Porciani, L’invenzione del Medioevo, in E. Castelnuovo e G. Sergi, Il Medioevo al passato e al presente vol. IV, Torino 2004.
P. Schiera, Il Medioevo nell’Ottocento in Italia e in Germania, Bologna 1988.
Il 3 maggio il calendario liturgico celebra la festa dell’inventio crucis, il ritrovamento della croce da parte della madre dell’imperatore Costantino (†337). Elena (†329) è venerata dai cattolici come santa Elena Imperatrice.
Il Ritrovamento delle tre croci, Piero della Francesca e aiuti. Ciclo delle Storie della Vera Croce, cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo, Databile al 1458-1466. L’affresco raffigura l’episodio centrale dell’inventio crucis: Elena ha ritrovato la croce di Gesù e quelle dei due ladroni. Non riuscendo a capire quale possa essere quella di Cristo, ella le fa esporre tutte e tre sopra il cadavere di un giovane appena defunto, che risorge miracolosamente allorché viene a contatto con la reliquia.
Il lignum crucis, il legno della croce di Cristo che così tanta importanza riveste non solo nel culto cristiano ma nell’intero immaginario occidentale, è una reliquia strettamente legata al fenomeno dei pellegrinaggi in Terrasanta. La tradizione della sua leggenda ha un’origine ben precisa che si colloca nel pieno del medioevo latino. La storia è narrata dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine che, come egli stesso afferma, la raccoglie da altri autori precedenti.
Elena, madre dell’imperatore Costantino, giunta a Gerusalemme, chiese alle autorità se conoscevano il luogo nel quale si trovava la Croce della Passione di Cristo. Solo un tale di nome Giuda lo sapeva e dopo che fu costretto a rivelarlo si scavò nel luogo da lui indicato dove vennero fuori tre croci che furono consegnate all’imperatrice. A quel punto, continua la Legenda, non sapendo come distinguere la croce di Cristo da quelle dei ladroni, le misero tutte in mezzo alla piazza di Gerusalemme aspettando che si manifestasse la gloria del Signore. Ed ecco che venne portato un giovane morto: furono posate sul corpo senza vita prima una croce, poi un’altra e il giovane non risorse ma appena gli fu avvicinata la terza croce il morto tornò in vita.
La Legenda aurea è una collezione di vite di santi compilata dal domenicano Jacopo da Varagine intorno al 1260 e veniva probabilmente usata come manuale di predicazione. Nel tardo medioevo la Legenda fu tradotta in molte lingue europee compreso il francese. La più importante di tali traduzioni è quella realizzata intorno al 1333 da Jean de Vignay di cui sono sopravvissuti sedici manoscritti corredati di belle miniature.
Fu proprio in questa traduzione francese che anche la leggenda del Volto Santo entrò nella raccolta della Legenda aurea che così tanta importanza rivestiva per il periodo medievale.
Il Volto Santo di Lucca infatti era ben conosciuto nel Nord Europa ed era oggetto di grande devozione da parte della nobiltà francese del tardo medioevo. Quando la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, celebrata il 14 settembre in ricordo del ritrovamento della croce di Gesù, entrò a far parte del calendario liturgico fu il momento in cui la leggenda del Volto Santo venne integrata nel compendio che originariamente accoglieva solo le vite dei santi ordinate secondo il calendario liturgico.
Iacopo da Varagine, Legenda aurea, traduttore Jean de Vignay, continuatore Jean Golein, datazione ca. 1470
Mâcon, Biblioteca Municipale, ms. 3. Storia del Volto Santo: l’ingresso nella città di Lucca. Jacobus de Varagine, Legenda aurea, traduttore Jean de Vignay, continuatore Jean Golein, datazione ca. 1470
Mâcon, Biblioteca Municipale, ms. 3. Storia del Volto Santo: invenzione della scultura. Jacobus de Varagine, Legenda aurea, traduttore Jean de Vignay, continuatore Jean Golein, datazione ca. 1470
Mâcon, Biblioteca Municipale, ms. 3. Storia del Volto Santo: il vescovo di Lucca a Luni. Jacobus de Varagine, Legenda aurea, traduttore Jean de Vignay, continuatore Jean Golein, datazione ca. 1470
Invenzione ed esaltazione della croce. Iacopo da Varagine, Legenda aurea, edizione Lipsia (Graesse) 1850
Jacopone da Todi (1230-36 circa – 1306) è autore di circa 100 laude in volgare di carattere religioso, in forma di ballate di settenari o ottonari. La conversione, avvenuta sull’onda di una forte esperienza emotiva (scoprì il cilicio sul corpo della moglie morta durante una festa), il suo ingresso nell’ordine francescano, la scomunica comminata dal papa Bonifacio VIII (per essersi opposto alle gerarchie ecclesiastiche) e la vicinanza con l’ala più rigorosa dei francescani lo allontanano progressivamente dalla società umana. Ne deriva una visione cupa e pessimista, caratterizzata, soprattutto nelle laude dialogate, di cui Donna de Paradiso è l’esempio migliore, da una particolare attenzione all’animo umano e ai suoi tormenti. In tal modo, avviene una sorta di ‘umanizzazione’ tanto della Vergine quanto di Cristo (che soffre delle torture inflitte) che, accanto a un linguaggio facilmente comprensibile anche da un pubblico popolare e alla forma della rappresentazione drammatica, contribuisce al forte coinvolgimento dei fedeli.
Jacopone, da Todi, Stabat mater dolorosa – Cologny, Fondation Martin Bodmer, Cod. Bodmer 19, 1480
Jacopone, da Todi, Stabat mater dolorosa – Cologny, Fondation Martin Bodmer, Cod. Bodmer 19, 1480
Jacopone, da Todi, Stabat mater dolorosa – Cologny, Fondation Martin Bodmer, Cod. Bodmer 19, 1480
Jacopone, da Todi, Stabat mater dolorosa – Cologny, Fondation Martin Bodmer, Cod. Bodmer 19, 1480
Jacopone, da Todi, Stabat mater dolorosa – Cologny, Fondation Martin Bodmer, Cod. Bodmer 19, 1480
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«Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso Iesù Cristo beato.
Accurre, donna e vide che la gente l’allide;
credo che lo s’occide, tanto l’ho flagellato»
«Como essere porria, che non fece follia,
Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?».
«Madonna, ello è traduto, Iuda sì ll’à venduto;
trenta denar’ n’à auto, fatto n’à gran mercato».
«Soccurri, Madalena, ionta m’è adosso piena!
Cristo figlio se mena, como è annunzïato».
«Soccurre, donna, adiuta, cà ’l tuo figlio se sputa
e la gente lo muta; òlo dato a Pilato».
«O Pilato, non fare el figlio meo tormentare,
ch’eo te pòzzo mustrare como a ttorto è accusato».
Rodolfo il Glabro(Rodulphus o Radulphus Glaber) fu un monaco e cronista del sec. XI, nato in Borgogna verso il 985. Dal 1026 a dopo il 1044, tra Cluny e Saint-Germain, scrisse gli Historiarum libri quinque che narrano i fatti dal 900 al 1044. Come già Beda (Historia ecclesiastica gentis Anglorum) e Paolo Diacono (Historia Langobardorum) per i loro popoli, così Rodolfo si propose di scrivere una storia universale avente per centro gli eventi della Chiesa e dello Stato nel popolo franco. Nel quarto libro delle Historiae di Rodolfo il Glabro si parla anche dell’eclissi di sole che si verificò nell’anno mille.
La descrizione dell’eclissi dell’anno mille in Raoul Glaber, Historiarum libri quinque, ed. Prou, Parigi, 1886:
Raoul Glaber, Historiarum libri quinque, ed. Prou, Parigi, 1886
Raoul Glaber, Historiarum libri quinque, ed. Prou, Parigi, 1886
Raoul Glaber, Historiarum libri quinque, ed. Prou, Parigi, 1886
Il testo dell’eclissi nell’edizione italiana di Rodolfo il Glabro, a cura di Andenna e Tuniz, Milano, 2004:
Rodolfo il Glabro, edizione italiana a cura di Andenna e Tuniz, Milano 2004
Rodolfo il Glabro, edizione italiana a cura di Andenna e Tuniz, Milano 2004
Rodolfo il Glabro, edizione italiana a cura di Andenna e Tuniz, Milano 2004
Rodolfo il Glabro, edizione italiana a cura di Andenna e Tuniz, Milano 2004
Johannes de Sacrobosco, Tractatus de sphaera, ca. 1260 (eclissi di sole)
Officiolum di Francesco da Barberino, ca.1305-08 (eclissi di sole)
Due astronomi arabi del IX-X secolo
Ahmad ibn Muhammad ibn Kathir al Farghani fu un astronomo arabo persiano del IX secolo oriundo della provincia detta Farghānah. La sua fama in Oriente e in Occidente è dovuta al suo compendio d’astronomia in 30 capitoli, intitolato Kitāb fī ǵiawām i‛ ‛ilm an–nuǵiūm (Il libro delle nozioni elementari intorno alla scienza degli astri). Fu tradotto in latino da Giovanni di Siviglia nel 1135 e da Gherardo da Cremona († 1187). La versione di Giovanni di Siviglia fu stampata a Ferrara nel 1493 e a Norimberga nel 1537.
Abu Abdallah Mohammad ibn Jabir Al-Battani (ca. 850 – 929) fu un matematico e astronomo (e fabbricante di strumenti astronomici) arabo musulmano. Durante il suo lavoro di osservazione catalogò 489 stelle, perfezionò l’accertamento della durata dell’anno (365 giorni, 5 ore, 48 minuti, 24 secondi), calcolò il valore della precessione degli equinozi. In opposizione a Tolomeo stabilì che la luna può assumere un diametro apparente minore di quello del sole: in questo modo riuscì a spiegare il fenomeno delle eclissi anulari. La sua opera, Kitab al-Zij, venne tradotta in latino nel 1116 da Platone da Tivoli con il titolo De motu stellarum.
Sotto alcune carte dei Rvdimenta Astronomica Alfragrani. Item Albategnivs Astronomvs Peritissimvs De Motv Stellarvmche contengono sia l’opera di al-Farghani che l’opera di Al-Battani nell’edizione a stampa Norimberga 1537.
Rvdimenta Astronomica Alfragrani
Rvdimenta Astronomica Alfragrani
Rvdimenta Astronomica Alfragrani
Albategnius, De Motv Stellarvm
Albategnius, De Motv Stellarvm
Albategnius, De Motv Stellarvm
A questo link si possono leggere i Rudimenta astronomica(Rvdimenta Astronomica Alfragrani. Item Albategnivs Astronomvs Peritissimvs De Motv Stellarvm)
A questo link la notizia del ritorvamento dell’Officiolum di Francesco da Berberino
Riguardo alle recenti questioni sull’islam e le immagini si tende spesso a parlare di iconoclastia ma questo è profondamente errato e genera confusione. Bisognerebbe infatti parlare di aniconismo. C’è una differenza sostanziale tra iconococlastia e aniconismo, la stessa che passa tra distruggere un’immagine e scegliere una forma d’espressione non-figurativa.
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Queste sono le definizioni di Aniconismo e Iconoclastia (Treccani):
Iconoclostia fu la dottrina e l’azione che nell’Impero bizantino, tra VII e IX secolo, avversò il culto religioso e l’uso delle immagini sacre, dando origine a una serie di contrasti religiosi e politici che provocarono la distruzione di un notevole patrimonio di arte sacra.
Aniconismo è il divieto di raffigurazione del volto umano e divino come precetto di alcune religioni. Esso è norma fondamentale dell’antico ebraismo e del giudaismo medievale e moderno. Appare anche nell’Islam, principalmente per quanto riguarda il volto di Maometto e di Alì.
Per intenderci la distruzione dei Buddha di Bamijan (2001) da parte dei Talebani è stato un gesto iconoclasta mentre l’islam in sè è tendenzialmente aniconico, non iconoclasta.
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Quelle che seguono, invece, sono brevi trattazioni su Aniconismo e Iconoclastia (Treccani):
Iconoclastia:
La lotta contro le immagini cominciò con le disposizioni prese nel 726 dall’imperatore Leone III Isaurico, mosso sia da considerazioni di ordine pratico immediato (togliere un argomento all’incalzante propaganda musulmana che accusava di idolatria i cristiani) sia dalla preoccupazione della crescente influenza sulle masse popolari dei monasteri e dei monaci, presso i quali si trovavano immagini particolarmente e fanaticamente venerate. Alle disposizioni aderirono alcuni vescovi, mentre il patriarca di Costantinopoli resistette e fu perciò rimosso (729). Stessa sorte toccò ai patriarchi di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme. I papi Gregorio II e Gregorio III protestarono, e quest’ultimo fece dichiarare la legittimità del culto delle immagini nel sinodo romano del 731. In risposta, Leone III confiscò le rendite della Chiesa romana nei territori bizantini dell’Italia e ne sottopose le diocesi al patriarcato di Costantinopoli. Costantino V Copronimo, successore di Leone III, fu dapprima più prudente, ma, rafforzatosi sul trono, anch’egli fece proclamare il divieto delle immagini da un concilio ecumenico nel 754 (tenutosi nel palazzo imperiale di Hieria, nella periferia asiatica di Costantinopoli). Ma il popolo e i monaci non si sottomisero, nonostante le misure violente dell’imperatore (distruzione delle immagini e delle reliquie e imposizione di rinunciare a esse, con giuramento, 764). Mitigò alquanto la persecuzione Leone IV; successivamente l’imperatrice Irene, madre e reggente del giovane Costantino VI (780-798), si rivolse al papa Adriano I (785) chiedendo la convocazione di un concilio che a Nicea (787) definì la dottrina ortodossa riguardo le immagini. Tuttavia l’iconoclastia non terminò: Leone V l’Armeno, nell’813, riprese a perseguitare il culto delle immagini; e queste rimasero proibite sotto gli imperatori Michele II e Teofilo; solo con l’imperatrice Teodora, deposto il patriarca iconoclasta Giovanni I, si ristabilì l’ortodossia (843) e si cominciò a celebrare, nella Chiesa bizantina, la ‘festa dell’ortodossia’.
Aniconismo:
Dalla metà dell’VIII secolo, e forse anche prima, l’aniconismo era stato formalmente proclamato come dottrina dominante della fede, con deroghe occasionali, come nei bagni. Tuttavia, perlomeno nei primi secoli, l’aniconismo era relativamente raro e non si tramutò in un’effettiva distruzione delle immagini come si verificò per altre religioni. Un’apparente eccezione è quella del cosiddetto editto di Yazīd II, del 723, il quale avrebbe condotto a consistenti alterazioni, nei mosaici cristiani in Siria, Palestina e Giordania. Ma sussiste molta incertezza sull’effettiva esistenza di quell’editto. Altre motivazioni, interne e di origine cristiana, potrebbero spiegare, in maniera migliore di quanto farebbe un ordine del califfo omayyade, la rimozione di raffigurazioni dai mosaici pavimentali delle chiese di villaggi e di piccole città. Esempi di una reale e sistematica iconoclastia si verificarono molto più spesso alle frontiere del crescente impero islamico, specialmente in Asia centrale, dove erano connessi piuttosto alla lotta al paganesimo. Il rifiuto della rappresentazione di esseri viventi è dovuto al fatto che, per il loro nesso con la vita, avrebbero potuto facilmente essere considerate idoli, come era avvenuto nel caso del paganesimo arabo.
Distruzione delle immagini cristiane durante l’iconoclastia Salterio Chludov, Mosca, Hist. Mus. MS. D.129, F. 67
Di seguito potete leggere uno stralcio da un articolo pubblicato sulla rivista Diritto e questioni pubbliche (Università degli studi di Palermo) che definisce la questione dell’aniconismo:
«L’Arabia preislamica pullulava d’idoli e immagini, sotto forma di statue o pitture; con l’Islam, pur non essendovi un espresso divieto nella rivelazione del Corano, le rappresentazioni vennero sempre meno utilizzate. Un’intera civiltà, senza un’imposizione diretta, accettò, quasi con sentimento collettivo, di rinunciare all’immagine.
Quando Maometto entrò alla Mecca gli idoli presenti nella Ka’ba vennero distrutti; bisogna ricordare, però, che venne salvata l’immagine della Vergine col Bambino, andato distrutto in un successivo incendio.
Maometto stesso aveva salvato quindi un’immagine sacra e non aveva vietato l’uso dell’immagine, ne aveva semmai sconsigliato l’uso nei luoghi di preghiera e di raccoglimento, perché non vi fossero distrazioni durante le orazioni. Ma la distruzione degli idoli, è bene non dimenticarlo, si ricollega all’unicità di Dio e alla difesa di tale credo.
Certe posizioni riflettono l’attitudine spontanea dei musulmani a proteggere l’assoluta trascendenza divina dalle tendenze antropomorfe o idolatre, in modo tale, che ne risulti un divieto di fatto, anche se non giuridicamente fondato. L’idea di fondo di questa concezione è che l’immagine rinvii a una realtà troppo sacra per essere materializzata; l’arte non potrà fare a meno della calligrafia e i versetti coranici prenderanno la forma di un animale, di un uomo, di una barca o di un edificio. (…)
Il principale oppositore delle rappresentazioni umane fu lo shāfi’īta Al- Nawawī del XIII secolo, secondo il quale, in base ad un hadīth, bisognava evitare le rappresentazioni che portassero ombra, la quale darebbe maggior risalto alle forme del corpo; questa è un’interpretazione restrittiva che proibirebbe di fatto la statuaria, di cui, infatti, non possediamo grandi esempi artistici. Nel 1898 però furono scoperti gli affreschi di Qusayr ‘Amrā risalenti al periodo ommaiade. Questi non erano un caso eccezionale, ma si inserivano in un repertorio artistico comune del tempo, e mettevano di fatto in crisi le tesi contrarie alle immagini avanzate sino a quel momento. Ali Enani sostiene che lo stesso Corano contenga il divieto: traduce infatti ansāb (Sura V,92) che comunemente significa idoli con bilder, ovvero ritratti. Questa, però, tra le posizioni degli studiosi musulmani, è tra le più estreme; altri si interrogano se la proibizione si debba riferire ad alcune forme di arti figurative o se la si debba considerare assoluta. I modernisti che si richiamano a Mohammed Abduh, ritengono che l’Islam sia stato contrario alle rappresentazioni umane, fino a quando potevano essere di appoggio all’idolatria o alla diffusione di qualche malcostume: il divieto per quanto riconosciuto dagli ulemā (giuristi), spesso non veniva osservato a causa dello scarso zelo religioso, come nel periodo ommaiade, o per l’opposizione delle tradizioni artistiche come avvenne in Persia. Con lo sviluppo, in ambito bizantino, della reazione iconoclasta, che raggiunse il suo apice durante VIII secolo, periodo di formazione del diritto musulmano, si vennero a creare le condizioni per una diffusione e affermazione di alcuni hadīth che limitavano la produzione figurativa. Pur tuttavia il sistema giuridico era ancora in costruzione e gli Ommaiadi ebbero ampio spazio per i propri progetti edili e di abbellimento delle proprie corti, poiché il divieto non costituiva ancora un valore normativo.
Quindi non nel Corano si trovano divieti espliciti, ma è negli hadīth che è contenuto il divieto dato agli uomini di cancellare con una rasatura perfetta i tratti primigeni del volto di Adamo30 e di riprodurre raffigurazioni naturalistiche, per non mettersi in competizione con Dio, l’unico che può realizzare opere dotate di vita. La “fabbricazione” di Adamo non è imitabile e gli esseri più vicini a Dio non hanno la “ricetta” relativa».
(A. Lombardo, Le immagini nel mondo musulmano. Quale diritto?)
Maometto e Gabriele, Rashid al-Din, Jami’ al-Tawarikh (Storia del mondo), Persia, 1307 ca., Edinburgh University Library, Or. Ms. 20, F. 45v
Maometto alla Mecca, Rashid al-Din, Jami’ al-Tawarikh (Storia del mondo), Persia, 1307 ca., Edinburgh University Library, Or. Ms. 20, F. 45r
Kadija, Gabriele e Maometto, Siyer-i Nebi (Vita del Profeta), miniatura ottomana, 1595, Topkapi Sarayi Müzesi, Topkapi Sarayi Museum Library, Istanbul, Turkey
Viaggio notturno del Profeta, Nezâmi Khamseh (I cinque poemi) Bâghbâd (Turkménistan) [et Ispahan, Iran ?], 1619-1624, Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Supplément Persan 1029
Uno stralcio dalle disposizioni del Secondo concilio di Nicea (787)
«Alcuni, dunque, incuranti di questo dono, come se avessero ricevuto le ali dal nemico ingannatore, hanno deviato dalla retta ragione opponendosi alla tradizione della chiesa cattolica, non hanno più raggiunto la conoscenza della verità. E, come dice il proverbio, sono andati errando per i viottoli, del proprio campo e hanno riempito le loro mani di sterilità; hanno tentato, infatti, di screditare le immagini dei sacri monumenti dedicati a Dio; sacerdoti, certo, di nome, ma non nella sostanza. Di questi il Signore dice cosi nella profezia: Molti Pastori hanno devastato la mia vigna; hanno contaminato la mia parte, seguendo, infatti, uomini scellerati, e trascinati dalle loro passioni, hanno accusato la santa chiesa, sposata a Cristo Dio, e non distinguendo il sacro dal profano, hanno messo sullo stesso piano le immagini di Dio e dei suoi santi e le statue degli idoli diabolici. (…)
Noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che orali. Una di queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini, che giova senz’altro a confermare la vera e non fantastica incarnazione del Verbo di Dio, e ha una simile utilità per noi infatti, le cose, che hanno fra loro un rapporto di somiglianza, hanno anche senza dubbio un rapporto scambievole di significato.
In tal modo, procedendo sulla via regia, seguendo in tutto e per tutto l’ispirato insegnamento dei nostri santi padri e la tradizione della chiesa cattolica riconosciamo, infatti, che lo Spirito santo abita in essa noi definiamo con ogni accuratezza e diligenza che, a somiglianza della preziosa e vivificante Croce, le venerande e sante immagini sia dipinte che in mosaico, di qualsiasi altra materia adatta, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, nelle sacre suppellettili e nelle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della immacolata Signora nostra, la santa madre di Dio, degli angeli degni di onore, di tutti i santi e pii uomini. Infatti, quanto più continuamente essi vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, secondo la nostra fede, di un vero culto di latria, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi, com’era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta; e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto. (…)
Chi, perciò, oserà pensare o insegnare diversamente, o, conformemente agli empi eretici, o oserà impugnare le tradizioni ecclesiastiche, o inventare delle novità, o gettar via qualche cosa di ciò che è consacrato a Dio, nella chiesa, come il Vangelo, l’immagine della croce, immagini dipinte, o le sante reliquie dei martiri, o pensare con astuti raggiri di sovvertire qualcuna delle legittime tradizioni della chiesa cattolica; o anche di servirsi dei vasi sacri come di vasi comuni, o dei venerandi monasteri (come di luoghi profani), in questo caso, quelli che sono vescovi o chierici siano deposti, i monaci e i laici, vengano esclusi dalla comunione».
Ecco infine dei materiali su un documento storico poco conosciuto: i Libri Carolini (Treccani).
I Libri carolini sono una polemica, assai aspra, contro il secondo concilio di Nicea (VII ecumenico; 787) che riconobbe il culto delle immagini. Ma la polemica è fondata sopra l’imperfetta traduzione latina degli Atti del Concilio (fu poi rifatta da Anastasio bibliotecario), che rendeva molto infelicemente proskynesis (prosternazione) con l’ambiguo termine adoratio, e su altri equivoci (Pincherle). L’opera doveva confutare le disposizioni sul culto delle immagini formulate in ventidue canoni disciplinari dal concilio di Nicea del 787. Incerti sono gli artefici e la data della stesura dei Libri Carolini, posti più o meno direttamente in relazione con il concilio di Francoforte del 794, presieduto dallo stesso imperatore, che deliberò la condanna dei canoni niceni. I Libri Carolini prefigurano la condanna dei canoni niceni giudicandoli non scevri da tendenze all’iconolatria; nel complesso, stigmatizzano come peccato qualunque forma di culto delle immagini, ma insieme ne affermano la liceità del possesso, prendendo chiaramente le distanze dalle posizioni degli iconoclasti. Le immagini sono oggetti materiali, manufatti estranei alla sfera del sacro: la parola divina non è rivelata in esse, ma va cercata nel Vecchio e nel Nuovo Testamento “non in picturis, sed in Scripturis” (Réfice).
Libri Carolini sive Capitulare de imaginibus, IX-X secolo, Bibliothèque nationale de France, Bibliothèque de l’Arsenal, Ms-663
Satiro che suona l’aulos. Vaso a figure rosse del 500 a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale
Non amo le feste dei sorrisi obbligatori, icuoricini di San Valentino, i cioccolatini per la festa della mamma e le trovate come le cene per sole donne dell’otto marzo. Cioccolatini, fiori e cene vanno bene sempre, non solo quando lo indica la pubblicità. Perciò oggi mi divertirò a smontare questa festa commerciale restituendola a ciò che è: un culto pagano orgiastico che celebra la fertilità e propizia l’imminente primavera.
I Lupercalia erano una festività religiosa romana che si celebrava il 15 di febbraio, in onore del dio della fertilità Luperco, protettore del bestiame e delle messi. La festa celebrava la fertilità della terra e delle donne. In quel periodo, infatti, si raggiungeva il culmine del periodo invernale, con il riposo delle terre agricole.
Plutarco ne dà una descrizione minuziosa nelle sue Vite parallele (Vita di Giulio Cesare, cap. 61). I Lupercalia venivano celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, i fondatori di Roma, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.
Secondo il rito celebrativo, nel giorno antecedente i Lupercalia, le donne ancora in cerca di marito scrivevano il loro nome su un biglietto che veniva messo in un grande contenitore; successivamente tali biglietti, estratti a sorte, venivano abbinati ai nomi dei maschi presenti così da formare delle coppie; queste coppie passavano insieme tutto il giorno della festività danzando e cantando; poteva succedere che alla fine dei festeggiamenti alcune di esse decidessero di sposarsi.
Inoltre, il giorno stesso, due ragazzi (i luperci) di famiglia patrizia, in una grotta sul palatino consacrata al dio, venivano segnati sulla fronte con del sangue di capra. Il sangue veniva quindi asciugato con della lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano sorridere.
Venivano poi fatte loro indossare le pelli degli animali sacrificati, le quali venivano poi fatte a striscie costituendo le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Con queste ultime i due giovani dovevano correre intorno al colle colpendo chiunque incontrassero e in particolare le donne, le quali volontariamente si offrivano per purificarsi e ottenere la fecondità.
Un altro rito della celebrazione era la februatio, la purificazione della città, in cui le donne scendevano in strada con dei ceri accesi.
I Lupercalia furono osteggiati verso la fine del V secolo da Papa Gelasio I che volle contrapporre loro la festa di San Valentino come festa delle persone che si amano.
Biblioteca municipale di Amiens, ms. 108, f. 221 Bibbia di Pamplona, 1197 – Claudio II e la decollazione di San Valentino
Fra il 492 e il 496 Gelasio decise di sostituire la ricorrenza pagana con una nuova ricorrenza legata ad un santo e, nella fattispecie, a San Valentino. L’intento era quello di trasformare la festa della fertilità in una festa dell’amore legata a un messaggio cristiano e l’anniversario della morte di Valentino cadeva proprio in quei giorni. La data della ricorrenza venne dunque fissata al 14 febbraio.
Sul perché di quella scelta si sa poco: c’è chi sostiene che la decisione sia ricaduta su quel santo grazie alla sua predicazione dell’amore (nel termine più ampio del termine) e il rispetto reciproco in anni in cui quei concetti erano estranei a gran parte dei cristiani stessi, altri sostengono che la scelta sia stata perlopiù casuale e motivata solo dalla contingenza di trovare un sostituto alla festa pagana.
San Valentino si convertì al cristianesimo e venne ordinato vescovo da san Feliciano di Foligno nel 197. Nel 207 l’imperatore Claudio II tentò di convincerlo a tornare al paganesimo, ma Valentino si oppose e come contromossa cercò di convertire al cristianesimo l’imperatore stesso. I suoi sforzi furono vani e rischiò di essere giustiziato per il suo gesto anche se all’ultimo momento Claudio II decise di graziarlo. Sotto Aureliano venne nuovamente arrestato e questa volta non sfuggì alla persecuzione: venne decapitato il 14 febbraio 269.
Nel tempo la festa assunse una connotazione maggiormente legato all’amore fra due persone anche grazie al gesto di papa Paolo II che, il 14 gennaio 1400, decise di cogliere l’occasione di quella ricorrenza per distribuire una dote alle donne nubili in modo da aumentare il numero dei matrimoni. Quel gesto creò un’associazione fra la festa di San Valentino e i matrimoni ed i fidanzamenti.
Ilaria Sabbatini
San Valentino nella Legenda aurea
San Valentino nella Legenda aurea
Smithfield Decretals, XIII-inizi XIV secolo, British Library, Londra
Reliquie di San Valentino. Roma, Chiesa di Santa Maria in Cosmedin.
Annuncio ai pastori (ingresso a Betlemme) – Cattedrale di Norwich, transetto nord – inizi XV secolo
Bernardino Dinali, La Hierosolimitana peregrinatione, 1492 (Bib. St. Lucca, Ms. 1301)
È adomque la felicissima cità di Bethleem posta nella tribù di Iuda sopra un monte alto ma assai piano, è di figura lunga e streta et al presente in gran parte ruvinata, felice cità certamente ne la qual nacque la salute de la humana già perduta stirpe, de la qual parlando el propheta dice: «E tu Bethleem, terra di Iuda, non sei già la minima fra li principi di Iuda».
< Chiesa della Natività >
In honore adomque e memoria di questa sacrosancta et admirabile Natività, la divotissima Sancta Helena fece hedificare una belissima et opulenta chiesa et quella Sancta Maria appellò. Quivi è hora un maraviglioso monasterio da li frati regulari di San Francesco habitato. Questa chiesa, segondo el mio iudicio, mi pare una dele sumptuose e belle chiese di tuto el Levante. E perché la maraviglia mi invita, brievemente descrivemo quella.
Sono adomque in essa chiesa quatro ordeni di colone alte e grosissime, marmoree e tute di un pezo, di color biancho di alchune machie rosse notato. Ciaschuno ordene contiene xj colone, el numero di tute è xliiij. El pavimento di essa tucto di candidi marmi è coperto, le mura da la parte interiore marmi di diversi finissimi colori cuopreno. El cielo di pretiosissimo musaico artificiosissimamente è lavorato, el quale da la parte di fuori tuto di piombo è coperto. Apresso ha un maraviglioso campanile cum grande arte et inzegnio lavorato.
Nel coro di questa stupenda chiesa, sotto lo altar magiore, è una grota longa circa trenta piedi e larga dieci, tuta da alto lavorata di musaico e da basso chiamasi Capella Sancta, ne la qual naque nel mondo la nostra redemptione Iesu Cristo figliuol de Dio, Dio et huomo. In capo de la dicta capella si vede el proprio luogo sopra el qual naque el Redemptor nostro, in memoria de la qual sacrosancta Natività ivi è posta una marmorea lastra in forma di altare, sopra la quale si celebra el divino offitio de la Sancta Messa. Et in questo luogo è plenaria indulgentia.
La propria grotta del presepio nel quale, doppo la Natività el Redemptore nostro da la sua dulcissima madre fo reclinato fra l’asino e ’l bue, bruti cunali et irragionevoli, è larga cerca tre pedi. E quivi ancora è indulgentia plenaria. Per andare adomque a questo sanctissimo luogo de la Natività si discendono diece scalini. In questa medesima grotta li tre Magi orientali offersero al Redemptor nostro oro, incenso e mirrha.
< Chiesa della Natività: grotta della natività >
Giungemo adomque nella gloriosa cità deBethleem ad hore xxij et entramo ne la prescripta giesia dove devotissimamente incominciamo una solemne processione di tuti e peregrini in una sua capella, togliendo la indulgentia da tuti quei sancti luoghi. Visitamo adomque prima el luogho over grotta de la sancta Natività, dove divotamente e con gran iubilatione fo cantato el seguente ymno, versi et oratione.
Ymn(us):
Christe redemptor omnium, / ex Patre, Patris unice, / solus ante principium / natus ineffabiliter.
Tu lumen, tu splendor Patris, / tu spes perhemnis omnium,/ intende, quas fundunt preces / tui per orbem famuli.
Memento, salutis auctor, / quod nostri quondam corporis / ex illibata virgine / nascendo formam sumpseris.
Sic presens testatur dies / currens per anni circulum, / quod solus a fede patris / mundi salus adveneris;
Hunc celum, terra, hunc mare, / hunc omne, quod in eis est, / auctorem adventus tuum / laudans exultat cantico.
Nos quoque, qui sancto tuo / redempti sanguine sumuus, / ob diem natalis tui/ hymnum novum concinimus.
Gloria tibi Domine,/ qui natus es de virgine / cum Patre et Sancto Spiritu / in sempiterna secula. Amen.
V(ersiculus):
Verbum caro factum est. Alleluia.
R(esponsio):
Et habitavit in nobis.Alleluia.
Oratio:
Concede, quesumus, omnipotens Deus ut nos unigeniti tui nova per carnem Nativitas liberet quos sub peccati iugo vetusta servitus tenet. Per eundem Cristum.
< Chiesa della Natività: luogo del presepio >
Finita in questo luogo la divota adoratione, andamo poi a visitare el luogo del sancto presepio, e qui fo con suma divotione deta la seguente antiphona, versi et oratione.
Eiis qui‹bu›s unigenitum tuum hic gentibusstella duce revelasti, concede propitius ut qui iam te ex fide cognoscimus usque ad contemplandam speciem tue celsitudinis perducamur. Per eundem Cristum dominum nostrum.
[Ilaria Sabbatini (ed. comm.) La «Jerosolomitana peregrinatione» del mercante milanese Bernardino Dinali (1492), praef. Franco Cardini, Lucca, Pacini Fazzi 2009]
Dal breve discorso dell’incipit appare chiaro che il milanese mercadante svolgeva la sua attività in Venezia da cui partì nel 1492 per compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme a cui si era impegnato per un voto. Nella prefazione infatti l’autore racconta di una grave malattia che lo aveva ridotto allo stremo della vita e del voto fatto per ottenerne la guarigione. Le tracce che il Dinali ha lasciato riguardano alcuni atti notarili e una supplica, tutti conservati presso l’Archivio di Stato di Milano. In uno dei documenti il Dinali rivendica un credito per una transazione e nel qualificarsi usa l’appellativo di merchator Mediolani, et utens stratis.
L’Archivio di Stato di Lucca aderisce al Progetto ARVO Archivio Volto Santo(link), realizzato dall’Associazione Mons Gaudii e curato dalla Dott.ssa Ilaria Sabbatini in collaborazione con la SISMEL (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino, Firenze). Il progetto vede la partnership dell’Università di Siena (Centro interdipartimentale per lo studio dell’ospedale di Santa Maria della Scala), dell’Università di Tours – Francia (Département d’Histoire et d’Archéologie) e del Complesso Museale e Archeologico della Cattedrale di Lucca mentre altri enti stanno per formalizzare la loro adesione. Il progetto intende avviare un recupero della messe di conoscenze sul Volto Santo a partire dalle fonti manoscritte e iconografiche, raccogliendo la vasta bibliografia su quello che fu e rimane un emblema della stessa identità lucchese. La leggenda e il culto del Volto Santo furono peraltro condivisi ben al di fuori della Città, tanto da porsi come un ponte culturale e spirituale tra Oriente e Occidente, un elemento di contatto tra genti diverse ma unite da una potente componente comune.
Anche seguendo le tracce della diffusione del culto del Volto Santo, si ritrovano le due anime dei lucchesi coesistenti in un raro equilibrio: l’orgoglioso senso di appartenenza a una comunità dalle grandi tradizioni e il valore della propria libertas insieme all’apertura verso il vasto mondo: spartiacque le Mura. Il Volto Santo infatti, oltre a parlarci della devozione della città di Lucca, che da secoli si esprime attraverso cerimonie religiose, ma anche feste e momenti di incontro, è anche un punto di riferimento per lo studio di quel fenomeno così importante che furono e continuano ad essere i pellegrinaggi a Gerusalemme ed in altri luoghi simbolo della cristianità. Lungo quel reticolo di strade che congiungeva Roma e Santiago di Compostela, Lucca occupava una posizione chiave ed anche per questa ragione il culto del simulacro lucchese assunse una grande rilevanza, molto al di sopra di una semplice pratica devozionale locale quale talvolta si tende a giudicarlo oggi.
Tenendo conto della via Francigena, o Romea a seconda della prospettiva, il progetto ha cercato la collaborazione delle Università di Siena e di Tours alla luce del fatto che in entrambi i casi si tratta di importanti snodi nel sistema di strade che metteva in comunicazione i grandi centri di culto del medioevo. Il Santa Maria della Scala di Siena fu infatti uno dei più antichi e grandi ospedali europei dove tutt’oggi spicca il bellissimo Pellegrinaio, riservato all’ospitalità dei viaggiatori, conosciuto per la presenza di uno dei più importanti cicli pittorici del Quattrocento senese. Anche la città di Tours, oltre ad essere il punto di partenza della via turonense per Santiago di Compostela, è collegata a Lucca tramite la figura di San Martino cui è dedicata la cattedrale che ospita. La celebre scultura del duomo di Lucca, la sua stessa intitolazione, sanciscono un legame che non è semplicemente evocativo ma esprime l’essenza di una relazione profonda, sul filo del tema della circolazione e dell’assistenza ai viandanti e ai pellegrini. Il progetto ARVO si muove anche in questa direzione, ossia si propone di esplorare il fenomeno del pellegrinaggio in tutti i suoi elementi: la relazione tra le grandi vie di comunicazione, la diffusione dei culti, gli scambi culturali, il consolidarsi di un immaginario collettivo, fino all’influenza profonda sullo sviluppo architettonico dell’Occidente attraverso le imitazioni del Santo Sepolcro, ma anche la diffusione di reliquie, riti e santuari fortemente legati alla simbologia della Terra Santa. All’incrocio delle tematiche del Volto Santo e dei pellegrinaggi si pongono anche fatti e personaggi storici di primo piano, basti solo ricordare che Carlo Magno, passando per Lucca dove l’aveva condotto l’inseguimento di Uggeri il Danese, compì le sue devozioni dinanzi al «santo Vou» nella chiesa di San Martino. Di tutti questi episodi ben presenti alla consapevolezza degli studiosi fino a qualche decennio fa, storie che arricchivano di gustosi aneddoti le dissertazioni degli eruditi degli ultimi due secoli, si è persa in gran parte la memoria. L’ambizione del progetto ARVO è quella di riallacciare tutti i fili che si dipanano dal potente emblema del Volto Santo e di porsi come uno strumento organico di conoscenza, fruibile per un pubblico non solo di specialisti. Considerando l’ampiezza e la complessità delle fonti e dei materiali, il progetto ha raggiunto gli obiettivi posti nella prima fase, ma resta uno work in progress.
A Londra e Parigi gli studiosi possono riprodurre i documenti con mezzi propri, in Italia ancora no. Il danno per la libera ricerca è gravissimo
La nuova norma introdotta dal decreto ArtBonus, che prevede la liberalizzazione delle riproduzioni nei musei, sarà pure una novità interessante per le migliaia di turisti che potranno ora sbizzarrirsi con le foto ricordo, ma per la realtà della ricerca rappresenta purtroppo una delle tante occasioni perse che oggi faremmo volentieri a meno di collezionare. Ce ne accorgiamo subito se confrontiamo il testo definitivo della legge con quello, davvero rivoluzionario, del decreto nella sua formulazione originaria che liberalizzava la riproduzione per finalità di studio dell’intero universo dei beni culturali, compreso dunque quel materiale documentario conservato negli archivi e nelle biblioteche, che invece un emendamento della Camera dei Deputati ha deciso di escludere, stroncando l’iniziale entusiasmo dei ricercatori. Il decreto ArtBonus, entrato in vigore il primo giugno, nel rendere libere e gratuite le riproduzioni tramite mezzo proprio aveva garantito un notevole risparmio, in termini di tempo e denaro, a tutti quei ricercatori e professionisti dei beni culturali che, nonostante le difficoltà economiche e le incertezze lavorative ancora svolgono attività di ricerca e valorizzazione di beni culturali. Si poneva fine a un vero e proprio commercio delle riproduzioni sulle spalle dei ricercatori: prima dell’entrata in vigore del decreto alcuni istituti consentivano l’uso della propria fotocamera dietro pagamento di un canone (che poteva giungere sino ai 2 euro a scatto), altri negavano invece tassativamente il ricorso al mezzo proprio per garantire il massimo del profitto alle ditte private cui era stato concesso l’appalto del servizio di riproduzione in esclusiva, secondo un regime di concessione introdotto dalla legge Ronchey nel 1993. Il sogno è stato, purtroppo, di assai breve durata: il 9 luglio, a poco più di un mese dall’entrata in vigore della liberalizzazione, nell’iter di conversione del decreto in legge, la Camera dei Deputati ha approvato un emendamento restrittivo che esclude i «beni archivistici e bibliografici» dal novero dei beni culturali liberamente riproducibili. La legge ora approvata in Senato ha frustrato le speranze di tutti quegli studiosi che a gran voce ma invano avevano richiesto di ripristinare il testo originario. Con un passo in avanti per i turisti (le foto nei musei) e due indietro per i ricercatori che frequentano archivi e biblioteche, come se nulla fosse, si è così ritornati al regime precedente. Prima ancora che sulle responsabilità amministrative e politiche di questo emendamento, è bene qui riflettere sulle sue deboli ragioni di fondo sul piano che fanno riferimento all’interpretazione del testo normativo e ad argomenti di tipo economico. L’emendamento è stato giustificato anzitutto con un abile cavillo giuridico: dal momento che la norma permette la libera riproduzione a condizione che non si determini un contatto fisico con il bene, è stato facile escludere manoscritti e documenti che richiedono di essere maneggiati e sfogliati per essere riprodotti, a differenza delle opere esposte nei musei. In realtà l’intento del decreto originario era ben diverso. Esso non intendeva tanto creare distinzioni tra le categorie di beni culturali, quanto piuttosto tra le tecniche di riproduzione, da un lato ammettendo le fotografie a distanza dall’altro escludendo scansioni, fotocopie o comunque quei mezzi che avrebbero comportato inevitabilmente un contatto con il bene, e dunque una sua potenziale usura. Un discrimine perciò meramente tecnologico, già presente nell’art. 107 del Codice dei Beni culturali che vieta espressamente le tecniche di riproduzione per contatto, e che è stato ribadito da un’autorevole mozione del Consiglio superiore del Mibact del 15 luglio che conferma l’estensione della liberalizzazione a tutti i beni culturali al di là di ogni possibile distorsione interpretativa che, come in questo caso, appare null’altro che un pretesto per escludere i beni archivistici e bibliografici.
La seconda motivazione alla base dell’emendamento è invece squisitamente economica: i proventi derivanti dall’appalto alle ditte private di fotoriproduzione sarebbero l’unico cespite non pubblico per il sostentamento degli archivi.
In realtà proprio per prevenire simili obiezioni il parere espresso sul decreto dalla Commissione Bilancio della Camera è stato netto: «L’ampliamento delle ipotesi di mancata corresponsione del canone (…) non determinerà effetti apprezzabili rispetto ai flussi di entrate attesi dalle amministrazioni concedenti».
A ben guardare il sistema dell’outsourcing nasce per gestire i cosiddetti servizi aggiuntivi, come bookshop o caffetterie, e dotare gli istituti di quelle competenze professionali di cui sono sprovvisti. Siffatta delega diventa però del tutto superflua, e anzi un vero ostacolo per la ricerca, se lo stesso servizio risulta invece gestibile in perfetta autonomia dagli utenti grazie al mezzo digitale che, rispetto alla tecnologia analogica, ha reso la fotografia finalmente alla portata di tutti con enormi vantaggi sia per la ricerca che per la conservazione: anche se gli scatti realizzati durante la consultazione delle fonti non saranno degni di un Cartier-Bresson, avranno almeno il pregio di permettere una semplice trascrizione dei documenti senza dover tornare sull’originale. Per non parlare dei dubbi di legittimità sollevati dal sistema delle concessioni applicato alle riproduzioni: l’art. 108 del Codice stabilisce infatti una gratuità delle riproduzioni a scopo di studio che però sinora non s’è mai riscontrata. Al massimo è previsto un rimborso spese a carico del richiedente nel caso in cui sia l’amministrazione a farsi carico della riproduzione, vale a dire l’esatto contrario di quanto accade oggi con il sistema dell’appalto a ditte private specializzate, che è divenuto un mezzo per generare nuovi introiti. Le ditte di riproduzione offrono comunque un servizio altamente qualificato per produrre, su richiesta, immagini di alta qualità ideali per le pubblicazioni più raffinate, che è giusto che si affianchi, ma senza sostituirsi, come oggi avviene, alla libera riproduzione con mezzo proprio.
Vi è il forte sospetto che dietro a simili motivazioni se ne celino altre più subdole, in particolare l’idea inconfessata che la proliferazione delle copie dei documenti, senza i limiti imposti da un tariffario che ne scoraggi la riproduzione, svilisca l’unicità dell’originale. In quest’ottica archivi e biblioteche rischiano di somigliare alle collezioni dei principi dell’evo moderno che limitavano o proibivano il disegno dei loro cimeli per imporne l’unicità. Sono tracce di una concezione proprietaria e patrimoniale dei beni culturali, che è l’esatto opposto della moderna nozione democratica di bene pubblico da cui è urgente invece oggi ripartire. La missione delle biblioteche e degli archivi è infatti sì quella di conservare, ma anche di garantire, agevolando le libere riproduzioni, la massima fruibilità dei documenti e dei loro contenuti a tutti quegli studiosi che, attraverso la ricerca, restituiscono un valore al materiale documentario, e quindi un senso alla loro stessa conservazione. È questo che indica il combinato degli artt. 9 e 33 della Costituzione. La carenza di risorse per gli archivi rimane un problema oggettivo che impone una riflessione attenta, ma la scelta di far gravare la spesa di gestione degli archivi sugli studiosi è un danno inaccettabile per chi ancora oggi si ostina a percorrere la strada impervia della ricerca storica. Vi è stato persino chi è s’è visto costretto a modificare il proprio progetto di tesi di laurea o di dottorato per i costi insostenibili richiesti dalla riproduzione del materiale documentario. La piena libertà della ricerca non è un lusso, ma un principio costituzionale sul quale non si può scendere a compromessi. È perciò auspicabile che la politica si ravveda e rivaluti le potenzialità della libera riproduzione, già intraviste nella prima formulazione dell’ArtBonus, come volàno per la ricerca storica, e rimuova così l’emendamento allineandosi alla prassi degli archivi nazionali di Parigi e Londra, dove la libera fotografia con mezzo proprio è già da tempo realtà.
Articolo 108 Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione
1. I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto: a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonche’ dei benefici economici che ne derivano al richiedente.
2. I canoni e i corrispettivi sono corrisposti, di regola, in via anticipata.
3. Nessun canone e’ dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici per finalità di valorizzazione. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente.
4. Nei casi in cui dall’attività in concessione possa derivare un pregiudizio ai beni culturali, l’autorità che ha in consegna i beni determina l’importo della cauzione, costituita anche mediante fideiussione bancaria o assicurativa. Per gli stessi motivi, la cauzione e’ dovuta anche nei casi di esenzione dal pagamento dei canoni e corrispettivi.
5. La cauzione e’ restituita quando sia stato accertato che i beni in concessione non hanno subito danni e le spese sostenute sono state rimborsate.
6. Gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell’amministrazione concedente.
La Dichiarazione di Berlino sull’accesso aperto alla letteratura scientifica è una dichiarazione internazionale sull’accesso aperto alla conoscenza (Open Access).
È stata scritta nel 2003 in una conferenza sull’accesso aperto ospitata a Berlino dalla Società Max Planck.
In Italia la dichiarazione di Berlino è stata seguita dalla dichiarazione di Messina (4 novembre 2004)in occasione del workshop nazionale Gli atenei italiani per l’Open Access: verso l’accesso aperto alla letteratura di ricerca. Il materiale relativo al workshop è reperibile all’indirizzo http://www.aepic.it/conf/Messina041/index981f.html
Il Budapest Open Access Initiative del 2001 viene riconosciuto come il primo raduno storico di fondazione dell’Open Access.
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Dichiarazione di Berlino
Premessa
Internet ha radicalmente modificato le realtà pratiche ed economiche della distribuzione del sapere scientifico e del patrimonio culturale. Per la prima volta nella storia, Internet offre oggi l’occasione di costituire un’istanza globale ed interattiva della conoscenza umana e dell’eredità culturale e di offrire la garanzia di un accesso universale.
Noi, i firmatari, ci impegniamo ad affrontare le sfide di Internet come mezzo funzionale emergente per la diffusione della conoscenza. Siamo certi che questi sviluppi saranno in grado di incidere significativamente tanto sulla natura delle pubblicazioni scientifiche quanto sul sistema esistente di valutazione della qualità scientifica.
In accordo con lo spirito della Dichiarazione della Budapest Open Access Initiative, la Carta di ECHO e il Bethesda Statement sull’Open Access Publishing, abbiamo redatto la Dichiarazione di Berlino per promuovere Internet quale strumento funzionale alla conoscenza scientifica generale di base e alla speculazione umana e per indicare le misure che le figure dominanti nelle politiche di ricerca, le istituzioni scientifiche, i finanziatori, le biblioteche, gli archivi ed i musei devono tenere in considerazione.
Obiettivi
La nostra missione di disseminazione della conoscenza è incompleta se l’informazione non è resa largamente e prontamente disponibile alla società. Occorre sostenere nuove possibilità di disseminazione della conoscenza, non solo attraverso le modalità tradizionali ma anche e sempre più attraverso il paradigma dell’accesso aperto via Internet. Definiamo l’accesso aperto come una fonte estesa del sapere umano e del patrimonio culturale che siano stati validati dalla comunità scientifica.
Per mettere in pratica la visione di un’istanza globale ed accessibile del sapere, il Web del futuro dovrà essere sostenibile, interattivo e trasparente. I contenuti ed i mezzi di fruizione dovranno essere compatibili e ad accesso aperto.
Definizione di contributi ad accesso aperto
Accreditare l’accesso aperto quale procedura meritevole richiede idealmente l’impegno attivo di ogni e ciascun produttore individuale di conoscenza scientifica e di ciascun depositario del patrimonio culturale. I contributi ad accesso aperto includono le pubblicazioni di risultati originali della ricerca scientifica, i dati grezzi e i metadati, le fonti, le rappresentazioni digitali grafiche e di immagini e i materiali multimediali scientifici. Ciascun contributo ad accesso aperto deve soddisfare due requisiti:
L’autore(i) ed il detentore(i) dei diritti relativi a tale contributo garantiscono a tutti gli utilizzatori il diritto d’accesso gratuito, irrevocabile ed universale e l’autorizzazione a riprodurlo, utilizzarlo, distribuirlo, trasmetterlo e mostrarlo pubblicamente e a produrre e distribuire lavori da esso derivati in ogni formato digitale per ogni scopo responsabile, soggetto all’attribuzione autentica della paternità intellettuale (le pratiche della comunità scientifica manterranno i meccanismi in uso per imporre una corretta attribuzione ed un uso responsabile dei contributi resi pubblici come avviene attualmente), nonché il diritto di riprodurne una quantità limitata di copie stampate per il proprio uso personale.
Una versione completa del contributo e di tutti i materiali che lo corredano, inclusa una copia della autorizzazione come sopra indicato, in un formato elettronico secondo uno standard appropriato, è depositata (e dunque pubblicata) in almeno un archivio in linea che impieghi standard tecnici adeguati (come le definizioni degli Open Archives) e che sia supportato e mantenuto da un’istituzione accademica, una società scientifica, un’agenzia governativa o ogni altra organizzazione riconosciuta che persegua gli obiettivi dell’accesso aperto, della distribuzione illimitata, dell’interoperabilità e dell’archiviazione a lungo termine.
Sostenere la transizione verso il paradigma dell’accesso aperto elettronico
Le nostre organizzazioni sono interessate all’ulteriore promozione del nuovo paradigma dell’accesso aperto per offrire il massimo beneficio alla scienza e alla società. Perciò intendiamo favorirne il progresso:
incoraggiando i nostri ricercatori e beneficiari di finanziamenti per la ricerca a pubblicare i risultati del loro lavoro secondo i principi dell’accesso aperto
incoraggiando i detentori del patrimonio culturale a supportare l’accesso aperto mettendo a disposizione le proprie risorse su Internet
sviluppando i mezzi e i modi per valutare i contributi ad accesso aperto e le pubblicazioni in linea, così da preservare gli standard qualitativi della validazione e della buona pratica scientifica
difendendo il riconoscimento delle pubblicazioni ad accesso aperto ai fini delle valutazioni per le promozioni e l’avanzamento delle carriere
difendendo il merito intrinseco dei contributi ad un’infrastruttura ad accesso aperto attraverso lo sviluppo di strumenti di fruizione, la fornitura di contenuti, la creazione di metadati o la pubblicazione di articoli individuali.
Noi riconosciamo che il passaggio all’accesso aperto modifica la disseminazione della conoscenza nei suoi aspetti legali e finanziari. Le nostre organizzazioni mirano a trovare soluzioni che sostengano futuri sviluppi degli attuali inquadramenti legali e finanziarie al fine di facilitare l’accesso e l’uso ottimale.
considerata l’importanza fondamentale che la diffusione universale delle conoscenze scientifiche riveste nella crescita economica e culturale della società;
vista l’esigenza avvertita in seno alle comunità accademiche internazionali e negli Atenei italiani di individuare forme alternative di diffusione della comunicazione scientifica che garantiscano la più ampia disseminazione e il più alto impatto scientifico dei prodotti culturali creati al loro interno;
considerate le numerose iniziative intraprese a livello internazionale che hanno ravvisato nell’«accesso aperto » alla letteratura scientifica lo strumento basilare nella disseminazione del patrimonio culturale delle comunità accademiche e di ricerca;
vista la Dichiarazione di Berlino che, in armonia con lo spirito della Dichiarazione della Budapest Open Access Initiative, la Carta di ECHO e il Bethesda Statement sull’Open Access Publishing, persegue tra i suoi obiettivi il sostegno a «nuove possibilità di disseminazione della conoscenza non solo attraverso le modalità tradizionali ma anche e sempre più attraverso il paradigma dell’accesso aperto via Internet»;
considerata l’importanza dei principi enunciati e condivisi dai convenuti e l’alto profilo a livello internazionale delle istituzioni accademiche, di cultura e di ricerca firmatarie;
dichiarano di aderire alla Dichiarazione di Berlino, Berlin Declaration on Open Access to Knowledge in the Sciences and Humanities, a sostegno dall’accesso aperto alla letteratura scientifica, con l’auspicio che questo gesto costituisca un primo ed importante contributo dato dagli Atenei italiani ad una più ampia e rapida diffusione del sapere scientifico..
Gruppo di lavoro Open Access della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane)
L’Open Access è una modalità di pubblicazione del materiale prodotto dalla ricerca, come ad esempio gli articoli scientifici pubblicati in riviste accademiche o atti di conferenze, ma anche capitoli di libri, monografie, o dati sperimentali; che ne consente accesso libero e senza restrizione. Il termine esprime la libera disponibilità online di contenuti digitali in generale e riguarda l’insieme della conoscenza e della creatività liberamente utilizzabile, in quanto non coperta da restrizioni legati alla proprietà intellettuale. Il Budapest Open Access Initiative del 2001 viene riconosciuto come il primo raduno storico di fondazione dell’Open Access.
Da poco ho saputo che la capitale europea non sarà nostra. Nostra come Toscana, intendo. Mi dispiace, perché ci tenevo a che fosse rappresentata la mia regione. Ma penso anche che noi siamo una terra fortunata. Senza falsa modestia, credo di abitare in uno dei luoghi più belli che mi poteva capitare. La cultura contadina dietro l’angolo, le città come universi compiuti, le campagne morbide, i colori naturali del senese, l’aura selvaggia del maremmano, le aspirazioni liguri del carrarino, le rivalità rituali del livornese-pisano, la ritrosia lucchese, la sorpresa del volterrano, l’opulenza fiorentina. Ho vissuto metà della mia vita in una città così carica di storia da poterla sentire come un liquido amniotico. Anche nel vicolo del biciclettaio e nel parcheggio a gettone. Di ogni città nuova dove vado, quello che mi preoccupa è ritrovare questo stesso respiro. Il buon storico – sosteneva Bloch – somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta la carne umana, sa che è la sua preda. Non posso e non voglio giudicare me stessa, ma so per certo che questo istinto all’umano mi si è radicato dentro ed è diventato potente. Forse anche per la terra dove mi sono formata. Leggere la storia sui muri e nei reticoli delle strade è come avere una finestra interiore sempre aperta sul panorama umano. Ché poi è la cosa più interessante che possa capitare. C’è un senso di continuità intrinseco nella storia che spinge a rivolgere lo sguardo verso il futuro. Gli storici sono gli astronauti del tempo. Amare la storia non significa opporsi alle trasformazioni, tantomeno in questo periodo. E’ una gioia autentica vedere qualcosa rinascere dalle macerie di questi anni bui. Nel piccolo delle nostre città bastano alla gratitudine una caffetteria nuova, una merceria, un panettiere, una libreria che riapre, un alimentari che ritorna in vita al posto delle trappole per turisti. Tutto ciò è umano ed è nostro: fatto a misura di noi che viviamo un paese piccolo, sgarrupato e prezioso. Reso fecondo dalla varietà innumerevole e dall’irriducibile singolarità. E’ per questo che mi piace la nomina di Matera, con la sua storia unica, eppure così significativa per tutti. Matera è parte di quel panorama umano da cui trare forza quello che oggi siamo e ne è la figura per antonomasia. E’ bello osservare tutto ciò che si sta muovendo intorno a questa nomina di capitale europea della cultura. L’ambizione realizzata di una città è diventata l’ambizione di tutti, in un momento storico tanto difficile e tanto speciale come quello che viviamo. C’è fermento nel paese, sta succedendo qualcosa. Non è un fenomeno che ha un nome. E’ più un sentire comune, come una speranza condivisa. Rinascono faticosamente attività e iniziative. Ci vorrà una forza straordinaria. Ed è proprio questa voglia di risalire che Matera incarna. Basta guardare il suo profilo per avvertire la presenza recente di Pasolini. Quel Pasolini che raccontava le città come organismi viventi.
“Auri sacra fames. Il denaro, motore della storia?” è il tema della IX Edizione di FestivalStoria in programma a San Marino da martedì 14 a sabato 18 ottobre. Pubblichiamo qui il testo della prolusione di Angelo d’Orsi, curatore della manifestazione.
di Angelo d’Orsi
Letteratura, cinema, canzonette… Quale tema ha suscitato maggiore interesse? Credo si possa mettere a pari del sesso. E, più nobilmente (ma, temo, fallacemente), dell’amore.Un interesse che attraversa non soltanto la nostra epoca, come ammonisce il titolo di questa Edizione, con il mirabile verso di Virgilio. E prima di lui testi sacri, di varie religioni, e testi profani, di diversi autori, hanno posto sul banco degli imputati l’oro, il denaro, la pecunia, i soldi… E ciò è bizzarro, se ci riflettiamo bene. Quando parlano di quella materia che pure fa girare il mondo, come suol dirsi, filosofi, poeti, artisti, letterati, ne prendono le distanze, o addirittura tendono a presentar se stessi come disincantati e distaccati fruitori di un male necessario; ma sovente si spingono oltre, maledicendo, imprecando, e riversando contumelie verso una materia presentata come immonda: fino al punto più basso, lo sterco, e più basso ancora, uno sterco attribuito al demonio! Martin Lutero, con quella espressione forte – Denaro sterco del demonio, appunto – ha fissato quasi un paradigma (ripreso nel titolo del famoso volume di Le Goff, che in questa Edizione di FestivalStoria commemoriamo). Eppure si tratta di una vera nozione archetipica: l’associazione del denaro con le deiezioni viene da lontano. E, nel lessico che adoperiamo correntemente, si incontrano espressioni che richiamano il carattere sordido del denaro: denaro sporco, fondi neri, lurido taccagno…. Come è stato notato da uno psicanalista, “oggi il denaro costituisce uno degli ultimi e più resistenti baluardi del pudore: è imperdonabile dimenticare il cartellino del prezzo su un regalo; non è educato chiedere quanto si è pagato un oggetto; non è elegante consegnare del denaro direttamente in mano, meglio metterlo in busta o almeno appoggiarlo sul tavolo; i negozi più raffinati non ostentano i prezzi dei loro articoli, ma li custodiscono su discreti cartoncini e in più riservati listini” (Widman, 2009).
Al di là di questo, la damnatio del denaro (una curiosa condanna, a dire il vero…), in ogni epoca, e in ogni pensiero morale o teologico, individua la radice di tutti i mali nell’avidità del denaro: “l’esecranda fame dell’oro”, appunto. In tanti testi religiosi (a cominciare dalle Sacre Scritture) si trova un’affermazione di tal fatta). Si tratta di affermazioni che suonano come esorcismi, o tentati lavacri di coscienza, più che come ammonimenti. In effetti, quando Scipione Maffei, nel 1744, pubblicava Dell’impiego del danaro nel quale ammetteva come lecito il prestito, con relativi interessi da riscuotere, suscitò un bel vespaio nel mondo cattolico, che, ipocritamente, condannava quell’attività (tipica dell’ebreo “usuraio”). Per Maffei, che il papa Benedetto XIV (dedicatario dell’opera, a guisa di santo protettore…) considerava “uno dei lumi principali della nostra Italia”, il danaro (al tempo, sempre con la a), non poteva essere semplicemente un mucchio di monete conservate in qualche cassaforte, ma si trattava di un capitale, da investire e far fruttare: era l’idea oggi assai corrente nell’alta finanza, del denaro che genera denaro. Il danaro era per lui e doveva essere fruttifero, doveva produrre frutti: “Come non frutta il soldo, se per esso altro soldo si acquista? E se qual vero Proteo in tutte le cose si trasforma, e tutte le cose in esso si convertono?”. E aggiungeva: “Non c’è maggior benefizio d’un popolo, che quando il danaro circola, e non c’è maggior danno, che quando si seppellisce e si chiude. […] Il giro del danaro […] è necessario alla vita civile e alla repubblica”.
Aveva capito tutto, il buon Maffei: il denaro che deve girare, il denaro che serve e che frutta, trasformandosi in mille cose. Il denaro proteiforme, insomma. Proteiforme, la sostanza, polisemica la parola: perché molteplice è il significato. Denaro è una funzione astratta, una funzione di scambio, ma denaro è altresì un oggetto, nella sua materialità di moneta (o equipollente), un oggetto che viene cambiato con altri oggetti o beni o servizi; infine, però, il denaro costituisce un valore. Uno dei grandi vantaggi del denaro, rispetto ad altre mezzi di scambio, è la sua trasportabilità: la pecunia, com’è noto, nasce dal pecus, il bestiame, e certo portare in giro mandrie di pecore o di buoi da scambiare con pane, grano, semi, alcol, o qualsivoglia altra merce, è piuttosto scomodo. Oggi, la trasportabilità è divenuta volatilità, nel duplice senso, della immaterialità (le carte di credito, le transazioni on line…), ma anche della fugacità della persistenza delle monete e delle banconote nelle nostre tasche. Uno scrittore contemporaneo ha parlato dell’”incessante andirivieni” del denaro (Coudray, 2012).
Un altro elemento da osservare è che il “progresso”, relativamente al denaro, corrisponde, paradossalmente, alla perdita di valore intrinseco della forma del denaro: una mandria di bestiame, poi metalli preziosi, quindi monete coniate con quei metalli, quindi monete di conio più vile (il bronzo prende il luogo dell’oro e dell’argento), sino a diventare, ai nostri tempi, patacche colorate, o pezzetti di carta, a forma rettangolare, che di colpo, alle leggi che li mandano “fuori corso”, si rivelano nella loro miserabile natura priva di qualsiasi valore. V’è anche chi sostiene, con qualche fondatezza, che gli antenati delle monete in metallo prezioso furono gli oggetti d’oro e d’argento saccheggiati da soldati, nell’era assiale, e divisi in pezzetti per poter essere facilmente trasportati e usati come mezzo di scambio o di pagamento. Secondo David Graeber, uno dei più originali pensatori della scena contemporanea, non l’innocente baratto, ma il colpevole furto, con violenza o con destrezza, ma perlopiù con violenza, è all’origine della sua “creazione” e del suo uso: soldataglia, bande di ladri, saccheggiatori. Così, il mondo fu trasformato in un sistema di valori numerici. Forse non tutti condivideranno l’affermazione di Graeber (grande vecchio della resistenza internazionale al turbocapitalismo), secondo il quale “Ogni sistema che riduce il mondo a una serie di numeri può essere mantenuto solo con le armi”, non importa quali; ma quello che qui conta sottolineare è che il sistema nasce dalla violenza, dalla frode, dal crimine. Forse il denaro porta con sé questa “colpa originaria”.
Ma poi, fra una ingiuria e una maledizione, tanti hanno messo in evidenza che in sé il denaro non è nulla, e che il suo valore è puramente strumentale: un autore che ha dedicato un libro addirittura alla “filosofia del denaro”, Georg Simmel, ha scritto, ad esempio, che “il denaro è la forma più pura dello strumento”, Che cosa in effetti v’è di più strumentale del denaro: un mezzo (in forma solida, cartacea o virtuale…, ma anche in forma di natura) per ottenere beni, ecco che cosa è il denaro nella sua essenza. Ma quando poi, da Agostino a Virgilio, dall’Antico Testamento al Nuovo, fino a Seneca, e ben oltre, esso denaro, viene accusato di esser foriero di altri, gravi mali. E ciò quando precisamente da mezzo diviene fine. Una mutazione drammatica, che contiene in nucetutti i mali del mondo, si direbbe, stando alla letteratura, tanto quella creativa, quanto quella di riflessione critica. “La capacità del denaro di crescere come un tumore”, è stato detto (Massimo Fini), “sul corpo che gli ha dato vita, fino a invaderlo completamente, soffocarlo e distruggerlo, deriva dalla sua natura squisitamente tautologica, dalla sua attitudine ad autoalimentarsi, diventando così un fine, un fine ultimo,un fine che non ha altri fini al di fuori di se stesso” . Ma è proprio il denaro in sé a generare tale trasformazione? O non sono gli umani, usandolo, che finiscono, cambiando il suo valore, appunto da mezzo a fine, per diventarne vittime? È il denaro che da servo si fa padrone, o non sono piuttosto gli esseri umani che da padroni si mutano in servi?
La forza del denaro consiste, sembrerebbe, nella dipendenza che il suo possesso genera. Una droga pesante, insomma. La letteratura vale più della scienza economica o della sociologia, per darcene conto. Si pensi alle varie figure di avari che animano romanzi, novelle, racconti, commedie. Avarizia, nel senso etimologico di avidità, della cupidigia dell’accumulo, della brama di possesso: un circuito che si autoalimenta, perché l’avaro non è mai sazio, come il bulimico cerca il cibo, a prescindere dall’appetito: la sua è una fame insaziabile. Auri sacra fames. Ma se Virgilio usa il registro di una mesta invettiva, Molière o Goldoni ci regalano ritratti di sapida comicità, di avari eccellenti, facendone dei tipi universali, come universale è la loro “malattia”, la loro incurabile malattia. Se poi si guarda alla grande letteratura realista, o nell’accezione italiana, verista, il quadro diventa cupo, a tratti foschi: Balzac, Zola, Verga frugano non solo negli ambienti, ma nelle profondità della psiche di signorotti e contadini arricchiti, di bifolchi e di banchieri, di sartine e impiegatucci… La struggle for life è lotta per il denaro, per averne, per averne di più, non importa come e a quale prezzo. La ruberia, l’inganno, la grassazione, il ricatto… tutto è adatto se raggiunge lo scopo, nulla è proibito. Lo scopo, dunque, è il denaro, e la sua ostentazione, prima che il suo uso; oppure, la sua tesaurizzazione: la roba, la roba, la roba, ci ripete Mastro Don Gesualdo, come in un mantra ossessivo. Papà Goriot sentenzia in modo definitivo: “L’argent, c’est la vie”. Il denaro è la vita: dà vita, e richiede vita. Assicura la sopravvivenza, ma anche la devasta. Un moloch terribile. Eppure può essere anche un dio buono, che ti assicura il pane per sempre, che regala benessere, amore, felicità, e la preziosissima rispettabilità, vera cartina di tornasole dell’essere borghese.
È leggendo L’argent di Zola, che ci si affaccia, incredibilmente, sul nostro tempo, anche se si tratta di un romanzo (diciottesimo volume della infinita saga dei Rougon-Macquart) pubblicato nel 1891, ma racconta vicende collocate nel Secondo Impero, ormai crollato da un ventennio esatto. Vi si trovano insospettati squarci sul denaro come speculazione, come dannazione sociale, come condanna dell’individuo: è un romanzo sociale, naturalista, ma soprattutto un testo impegnato, diremmo, e anche un racconto giornalistico, con penna straordinariamente efficace. È la speculazione finanziaria a essere messa sotto accusa, la “finanza creativa”, di moda in questo primo scorcio del secolo XXI, la finanza teorizzata da economisti di dubbia competenza e praticata da pubblici amministratori sventati, o interessati alle proprie sorti più che a quelle dei loro amministrati. L’autore usa spesso la parola “mistero” quando si riferisce ai meccanismi della banca, della borsa e dell’alta finanza. Ne è come sedotto, ma anche inorridito, e lancia, ante litteram, con questo poderoso romanzo, il suo J’accuse, diretto anche contro il denaro inteso come religione. Una religione perversa, che coinvolge e seduce , e che sovente, come nel suo racconto ispirato a eventi della cronaca ma anche alla temperie storica, conduce alla rovina individui, banche, imprese, e intere nazioni.
Eravamo non così lontani dal Finanzkapital descritto da Rudolf Hilferding qualche anno più tardi (1910), un implacabile mostro divoratore, che, a distanza di un secolo, Luciano Gallino ha spiegato come l’essenza sconvolgente e impietosa del nostro presente, per arrivare all’essenza della “civiltà del denaro”. Una mega-macchina che possiede, ma non governa, il mondo, nella quale ormai il Denaro, con la maiuscola, non produce più Merci, per ottenere altro Denaro, ma produce Denaro senza Merci: la tradizionale formula di Marx D1- M – D2 si è trasformata, e ridotta, alla formula binaria D1-D2, ossia produrre denaro senza produrre merci. Il capitalismo finanziario è capitalismo che si arricchisce senza distribuire benessere, il denaro che scorre nella finanza palese, è una piccola parte di quello che giace nei sotterranei della finanza ombra, sulla quale autorità nazionali e sovranazionali non hanno alcun potere di controllo; e rispetto alla quale anche gli studiosi più avvertiti possono solo fare congetture. Denaro che si riversa nei fondi di investimento, nei fondi pensione, nelle compagnie assicurative, e nelle tante varietà dihedge funds, il culmine della speculazione, con i famigerati “derivati”, ai quali si sono affidati negli ultimi anni tante amministrazioni locali nel tentativo di risolvere i propri problemi di bilancio, con conseguenze spesso catastrofiche, sempre comunque negative per il pubblico, sempre lucrative per il privato. 60 trilioni di dollari (ossia 10 elevato alla diciottesima potenza: 1018, vale a dire 1000 000 000 000 000 000, una cifra a diciotto zeri) sono nelle loro casseforti. Il PIL dell’intero mondo. La civiltà del denaro è in crisi, come racconta Gallino, e il capitale sopravvive squassato da crisi, come mostra David Harvey; intanto, però, “il denaro accresce la sua sfera d’influenza, lentamente, ma inesorabilmente: tutto viene messo in vendita”, anche quel che fino ad oggi ritenevamo fosse la Natura (o il Buon Dio) a donarci (Coudray, 2012).
In vendita o in prestito. Denaro significa infatti la coppia credito/debito. Denaro implica verbi impegnativi come prestare, investire, ricavare, perdere, guadagnare. Se il credito non è diventato tuttavia una categoria filosofica, il debito invece sì, tanto da dar vita, ai tempi nostri, ad una sorta di “metafisica”. Si costruiscono imperi sui debiti, è noto; si può affogare nei debiti, o con diversa metafora, i debiti ci strozzano. Stiamo parlando peraltro di quel che accade a milioni di persone, persone che vivono tra di noi, persone che forse siamo anche noi, perché il debito, questa montagna che tende a crescere invece che a diminuire, è un principio astratto che ha drammatiche estrinsecazioni pratiche.Debito, si intitola il brillante libro di Graeber che propone una incredibile cavalcata in cinquemila anni di storia: il debito, altro non è che “una promessa corrotta dalla matematica e dalla violenza”. Già un economista marxista eterodosso Paul Sweezy, aveva colto, tempestivamente, nella crisi degli anni Settanta del Novecento, che la risposta delle società capitalistiche – l’affluent society di cui parlava Galbraith alle fine degli anni Cinquanta del secolo scorso – alla caduta del saggio di profitto e alla discesa degli investimenti, non era soltanto la riproposizione del modello keynesiano dello Stato interventista, bensì l’indebitamento: il ruolo crescente dell’indebitamento privato. In particolare l’indebitamento delle famiglie, che in tal modo entrano in un viluppo dal quale non riusciranno a venir fuori: il denaro che non hanno, il denaro preso a prestito, gli acquisti di beni che saranno poi pagati nel corso di anni, a rate, diventa la condanna di milioni di individui. In tal modo, il capitalismo che produce denaro a mezzo di denaro, ingloba nel suo grande ventre le famiglie, che ne diventano per così dire vittime e complici oggettive, ancorché “innocenti” sul piano soggettivo. Si sta assistendo da anni, per dirla in modo difficile, a una “sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito” : ovvero, consumo, risparmio, abitazione, salute, istruzione, ricerca, risorse naturali, vengono inglobati nel capitale (Bellofiore, 2012).
Quel capitale studiato da Marx a metà Ottocento, che oggi, con una notevole temerarietà, uno studioso divenuto improvvisamente celebre, Piketty, ha tentato di analizzare sul lungo periodo dell’intero secolo XX, suscitando occorre dire non poche perplessità (e pure qualche sonora stroncatura). Piketty pone, sostanzialmente, il problema della iniqua distribuzione della ricchezza, una questione, scrive in esordio, giustamente, “troppo importante per esser lasciata ai soli economisti, sociologi, storici e filosofi”. Le disuguaglianze – che sono disuguaglianze nel possesso di beni, mobili e immobili, ossia in ogni modo, di denaro – sono generate in particolare quando, come nel nostro tempo, il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito”. Ossia, quando D non produce o produce in modo insufficiente M, e si limita a generare D2. Marx aveva posto in luce, raccontandone il processo, le contraddizioni a suo avviso insormontabili del capitalismo, le sue interne aporie, e ne disegna il necessario, catastrofico epilogo. Altri, come ancora Piketty, pur riconoscendo grandi meriti all’autore di Das Kapital, non ne condividono l’orientamento “catastrofistico”, ma nel contempo non possono non ammettere che tutti i torti non aveva.
È la nuova forma e sostanza del capitalismo finanziarizzato, quella della “vertigine finanziaria” (Casiccia 2006), che ha nel suo cuore il debito, sempre lui… Il debito, che pure sarebbe “fondamento delle relazioni intersoggettive e comunitarie” (Turri, 2014): in tal senso esso ha a che fare con la dynamis dell’essere umano, e la pretesa del “pareggio di bilancio” è un assurdo snaturamento. Ma il debito è un peso, con buona pace della filosofia: un immenso, mostruoso macigno, preme su di noi: ci hanno persuasi che siamo sempre in debito. Il denaro è ciò che estingue, sempre provvisoriamente in realtà, il debito: verso qualcuno che ci ha dato qualcosa, verso un’azienda che ha fornito servizi, verso una pubblica amministrazione che ci garantisce, più o meno, strade o scuole; ma c’è anche il debito oggi definito correntemente “stratosferico” dei Paesi poveri, il Sud del Mondo, verso i Paesi ricchi. La moratoria del debito, oggi appare una delle richieste più eversive che si possano pensare. Che viene vista da qualcuno come una forma di comunismo primitivo, pronto a eliminare le differenze tra chi deve e chi ha diritto a ricevere. Bizzarramente, sono i poveri, singoli o Paesi, che sono i “debitori” e i ricchi, Stati o persone, che sono i “creditori”. Sarà poi davvero giusto che tutti noi “rimettiamo i nostri debiti”, così come recita il Pater Noster? Il denaro, l’altra faccia del debito, è asservimento: degli uni agli altri, individui e collettività. Eppure v’è chi sfugge a questa regola: si pensi agli Usa, una delle maggiori potenze creditrici ai tempi di Franklin D. Roosevelt, trasformatisi in Paese immensamente debitore, sotto Bush e Obama. Eppure, sotto il segno della banconota verde, il disegno egemonico di Washington non è cambiato. O, meglio, si è indurito. E, paradosso nel paradosso, questo mentre a tutti gli effetti l’egemonia americana sembra essere entrata in una crisi irreversibile, come ha mostrato convincentemente, fra gli altri, uno dei massimi studiosi di economia non economista, un autentico genio delle scienze sociali, Giovanni Arrighi (peraltro preso sul serio molto più proprio negli Usa che in patria). E ciò mentre tutta l’Europa, che finge d’essere una entità unitaria, con una sua propria identità, fa del “debito pubblico” il grande nemico della prosperità privata (ossia di quei singoli che ne godono), e del “pareggio di bilancio”, un totem che addirittura, di gran carriera, secondo dettami provenienti dal nuovo Kaisertum, è stato inserito nelle Costituzioni degli Stati membri: un’aberrazione giuridica, una assurdità politica, una sciocchezza economica. L’economia finanziarizzata, quella che produce e fa circolare denaro (virtuale), senza quasi produrre più merci, comanda alla politica, o la sostituisce pienamente, sotto il segno di una vistosa D, come Denaro: quello che è nelle mani di pochi, che si autogenera incessantemente, ma non si diffonde. Quello che gli altri, la crescente massa di poveri assoluti e relativi, per usare una distinzione canonica e un po’ ipocrita, non vedono se non come brevi sequenze di cifre sulle buste paga, che passano, senza neppur transitare dalle loro mani, direttamente, ossia bancariamente, dal conto degli intestatari lavoratori, a quelli delle aziende fornitrici di servizi, al “padrone di casa”, alla banca che ci ha erogato un mutuo, e così via: le cifre sulle “bollette”, quei messaggi, cartacei o elettronici, che scandiscono il mese, il bimestre, il semestre, l’anno, sono le stesse sulle buste paga, ma col segno meno. Che quando siamo fortunati, va a pareggiare il segno più; ma tanto, troppo spesso non riesce, e allora ecco che si riaffaccia il mostro, il debito. “Mi occorre denaro”: la frase proferita viene raccolta, facilmente, da orecchie interessate a trasformare il dono in pegno, e avviare la spirale debitoria, dalla quale sarà poi difficile uscire. Ed ecco che il denaro, quello che non c’è, viene maledetto, da parte di chi non ne ha neppure, e si tratta non della esecrazione moralistica di chi comunque “tiene i soldi”, ma del disperato urlo di chi anela soltanto al necessario per la sopravvivenza, o almeno per una esistenza degna del nome.
E tutto questo ha riflessi ormai persino vistosi, nella loro forza devastatrice, sugli assetti istituzionali, sulle forme politiche, a cominciare da quella princeps del nostro mondo occidentale, quella chiamata democrazia: etichetta discutibile, fin dalle sue origini (Luciano Canfora ci è maestro nella demistificazione di una ideologia). Da un canto le banche espandono all’infinito le proprie attività , in modo tentacolare diventando le vere protagoniste della globalizzazione, incuranti delle più elementari regole della contabilità di bilancio, comprando di tutto dappertutto, e così facendo si indebitano, e falliscono bruciando il denaro depositato presso le loro casse dai risparmiatori (altra etichetta bislacca, se ci si riflette), oppure si aggrappano allo Stato per essere salvate: nel 2008 960 miliardi di euro concessi dagli Stati dell’UE alle banche, sono diventati 1100 nel 2009; non si conoscono i dati successivi…
In un modo o nell’altro sono soldi di tutti che finiscono nelle tasche di pochi. Dall’altro canto, accade che precisamente queste banche, che hanno creato (come ha mostrato lucidamente Luciano Gallino) un sistema di finanza parallela, occulta, hanno escogitato una infinita serie di espedienti sostanzialmente truffaldini, anche quando legali, secondo l’immarcescibile insegna di godere in proprio dei profitti, e di trasmettere le perdite agli Stati, ossia alle collettività (Gallino, 2013), in un incessante aumento del debito: il risultato è stato pessimo, dato che le banche nell’insieme sono lungi dall’essere risanate, e i costi sociali di queste operazioni disinvolte, attuate o autorizzate dalle classi politiche euroamericane, sono stati sostenuti dall’insieme delle popolazioni, in modo inversamente proporzionale alle fasce di reddito: costi più elevati per le fasce più basse, e così via.
Il flusso del denaro, dunque, segue vie imperscrutabili, non soltanto però per la cittadinanza (secondo il principio che l’economia è una scienza, esatta, e iniziatica, per cui chi non appartiene all’inclita schiera non può e non deve sapere nulla), ma per le classi dirigenti (dunque, non solo i politici, ma i loro “tecnici”, e i dirigenti di istituzioni finanziarie nazionali e sovranazionali), le quali hanno dimostrato nella gestione della crisi degli ultimi anni una incredibile impreparazione, imprevidenza, e anche, in definitiva, impudenza.
Il corrispettivo di questi processi finanziari, è una rapida progressiva spoliazione del sistema “democratico” e di un suo passaggio a un sistema oligarchico che è plutocratico, nel quale insomma comandano “i ricchi”, che diventano sempre più ricchi, mentre coloro che denaro non hanno, vengono deprivati via via, in un crescendo micidiale, di quell’insieme di garanzie e protezioni delle fasce deboli , chiamato Welfare State. È proprio, quindi, il denaro, averne o non averne, il cuore del processo che sta portando verso la “postdemocrazia”, per usare la felice, e forse ormai ottimistica etichetta di Colin Crouch. O, più drasticamente, a delle “democrazie senza democrazia” (Salvadori, 2009).
Ma a ben guardare tutto questo processo invece che mostrare una politica al servizio dell’economia (finanziarizzata), sembra avvalorare un percorso inverso: una politica che persegue un disegno di nuovo asservimento ai danni di ceti popolari, e usa, complice la crisi e i suoi oscuri andamenti, l’economia, o meglio la finanza, come un grimaldello da scasso, e insieme come un paravento ideologico, tanto più da quando esiste una Costituzione europea e il processo di uniformazione (non di unione) dei 27 Stati aderenti, ha posto in campo un nuovo formidabile soggetto ideologico: il famoso “Ce lo chiede l’Europa”. “Falso!”, risponde ancora Luciano Canfora in uno dei volumetti di una felice serie dell’editore Laterza.
Tutto ciò accade con modalità che escludono del tutto i cittadini dalla vita stessa delle loro società, ridotti alle figure emaciate e tristi di consumatori indebitati, di desideranti frustrati, di partecipanti inconsapevoli a riti elettorali privi di autentiche opzioni politiche alternative, o, peggio, a manifestazioni plebiscitarie per un personaggio invece che un altro. E tutti promettono denaro, denaro da ricavare, in più (promesse talora mantenute, con una partita di giro spettacolare, che fa entrare dalla porta e fa uscire dalla finestra mirabolanti bonus), e denaro da sborsare in meno (“ridurremo le tasse!” – è il grido di lancio fondamentale di ciascun partecipante all’arena politico-elettorale).
Intorno al denaro, alla sua dialettica fascinosa e orrorifica, si gioca dunque il destino dei popoli, come quello delle persone: la società liquida di cui parla Bauman, è una società in cui il liquido – inteso come flusso di soldi – sembra avere una sola direzione, dal basso verso l’alto. La parola magica “austerità” – che in un passato non troppo lontano – assumeva un significato etico, contro la corruzione politica da una parte, e contro la società dello spreco e della dissipazione, dall’altra – è diventata ora la giustificazione politica, in chiave quasi scientifica, delle nuove ingiustizie. Tutti i dati a disposizione, nella UE, o nei Paesi aderenti alla OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), ci mostrano due verità inoppugnabili: una redistribuzione del reddito (dunque del denaro) dalle fasce basse verso quelle alte, da un lato; dall’altro, una riduzione della quota dei salari sul reddito sociale, ossia una quota crescente di reddito è transitata dai lavoratori salariati, ma anche dai lavoratori autonomi, verso i percettori di rendite finanziarie di varia natura e genere (immobiliari, assicurative, profitti…). Il rapporto dell’OIL già nel 2008 scriveva: “Di fronte alla forte moderazione salariale, i lavoratori e le loro famiglie si sono indebitati in misura crescente allo scopo di finanziare il loro investimento in un’abitazione – e talvolta anche i consumi” (in Gallino, 2013). Negli anni seguenti la situazione è peggiorata: la forbice si è allargata. E la morsa del debito si è stretta vieppiù non soltanto intorno alle famiglie e agli individui delle classi salariate, ma anche delle classi medie: il denaro è diventato tutt’uno col debito. La quota di stipendi, salari o introiti di attività commerciali dei piccoli rivenditori, si è fatta invisibile, entrando virtualmente e fuoruscendo immediatamente per le spese necessarie (affitti, rate mutuo, utenze), mentre il resto, quello non certo per spese “voluttuarie”, se non in forma minima, ma per la vita quotidiana, dipende in misura crescente o da prestiti e fidi bancari, da anticipazioni di stipendi o emolumenti pensionistici futuri, o semplicemente ottenuti da rete di protezione: genitori, parenti, amici.
Intanto, nella “nostra” Italia, il 10% della popolazione possiede metà della ricchezza nazionale; mentre il 90% accede a quel che resta. Un Paese ricco abitato da poveri ai quali ancora si cerca di far pagare, sul piano finanziario e normativo, le colpe e gli abusi di poche migliaia di individui. E, per milioni di italiani e italiane, “senza soldi”, ovvero coloro che “non arrivano alla terza settimana” , beni elementari come la casa, l’istruzione, la cura di sé diventano adunata: cose impossibili, desideri irrealizzabili. Al “guai ai vinti!” sostituiremo un “Guai ai poveri!”, con serena indifferenza? Siamo poi sicuri che l’equivalenza tra ricchezza e denaro sia corretta?, si chiede Vandana Shiva, come del resto l’altra, conseguente, tra ricchezza e benessere. Si può essere ricchi senza denaro, e si può star bene senza essere ricchi, insomma? Il PIL equivale al FIL? (il sistema della Felicità Interna Lorda, adottata nello Stato del Bhutan)… Se l’attivista indiana spiega giustamente che il flusso incessante del denaro nelle nostre società è in realtà un deflusso (“dalla natura e dalle persone verso gli interessi commerciali e verso le grandi imprese”: in Dionigi, p. 84), Luciano Gallino, dunque uno studioso severo, non marxista, ci spiega che nella economia finanziarizzata, alla produzione di valore è subentrata l’estrazione di valore: lo sfruttamento intensivo e spesso folle di ogni risorsa, naturale o umana, a scopi di “fare denaro”, mettendo da parte gli ultimi fuochi di una “sana” economia che producendo ricchezza anche disuguale continua a creare un benessere diffuso, senza distruggere l’ecosistema.
Certo, in conclusione, per chi ne abbia, e per chi no, il denaro rimane quella terribile o benefica divinità che, per dirla con Marx, “umilia tutti gli dei dell’uomo”.
Perciò dobbiamo parlarne, analizzare questa divinità da ogni punto di vista, e con tutte le chiavi possibili; e siamo qui per farlo. Come sempre, in FestivalStoria, senza dogmatismi, seguendo il solo criterio della competenza, allo scopo di porre domande, suscitare problemi, in definitiva di eccitare la volontà di sapere e di capire, ma sempre nella convinzione che “il mestiere di storico” abbia e debba avere sempre una funzione (anche) civile.
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Il Comune di Melfi e il Centro Studi Normanno Svevi dell’Università di Bari presentano le XXI Giornate Normanno-Sveve, che si terranno nel Castello Federiciano di Melfi il 13 – 14 ottobre.
L’evento è patrocinato dalla Presidenza e Assessorato al Mediterraneo della Regione Puglia e dal Dipartimento di Filosofia Letteratura Storia e Scienze Sociali, con il contributo della Banca Popolare di Bari, Puglia e Basilicata.
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