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Allena la mente. Le humanities al tempo della crisi

Sebastiano Münster, La Cosmographie universelle contenant la situation de toutes les parties du monde, avec les proprietez & appartenances, Henry Pierre marchant-libraire, Basle 1552. (Cannibali, p. 1349)

Contraddizioni della tarda età consumistica? Fallout radioattivo del post-capitalismo? Difficile a dirsi. Fatto sta che stamani, all’inizio di una bella giornata d’agosto dell’annus terribilis della crisi economica italiana (a.D. 14 agosto 2013), mi trovo a leggere un compito articoletto sulle conseguenze positive dell’attività intellettuale rispetto alla funzionalità del cervello. E mi viene da pensare a come in realtà  l’attività intelletuale sia oggi ridotta proprio questo: un allenamento, poco più di un passatempo.

Lo ammetto, le mie figure retoriche preferite sono l’ossimoro e la preterizione e le uso spesso. Anche da questo si dovrebbe capire quale sia il mio punto di vista. Perché in effetti ho studiato molto, praticamente sempre, si può dire. Ho studiato con una continuità tale da non ricordarmi un periodo della mia vita senza aule o biblioteche. Non lo dico con intenzioni autocelebrative: è semplicemente così e non trovo che ci sia motivo di nasconderlo.

Allena la mente“, dice l’articoletto e in realtà non dice niente di veramente nuovo ma a scorrerlo mi vengono in mente spunti interessanti. Leggete, dice, leggete sempre e di tutto. Scrivete, fate di conto, esercitate la memoria, stimolate la creatività, cambiate prospettiva. Beh io ci rientro in pieno. Però c’è qualcosa che non mi torna. Quello che viene descritto come elisir di lunga vita è il normale training cui si sottopongono quotidianamente tutti coloro che fanno lavori intellettuali.

Ed è a questo punto che mi sfugge il controllo dei miei pensieri e mi sale una rabbia sottile e insistente. Incapace di mandarla via cerco di capirne la causa e, dacché esercito sempre la memoria, in breve capisco che l’origine è sintetizza in questa frase: “Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura”. La bocca che pronunciato questa frase era quella dell’italiano Giulio Tremonti. Era il 2010 e il nostro era a capo del ministero economico del Governo Berlusconi IV.

Il simpatico episodio dette l’avvio a una serie di reazioni: alcune molto interessanti altre talmente velleitarie che veniva voglia di augurargli un destino da panino della buvette. Il fatto è che il buon Giulio disse solo, malamente, quello che tanti pensano e che però sta male dire in pubblico. In pubblico non si rutta, non si dicono bestemmie, non ci si puliscono le narici e, tra le altre, non si dice che la cultura è un optional, un accessorio di cui si può fare a meno senza che succeda nulla.

L’utilità della cultura rientra tra quelle cose di cui si può pensare il peggior male possibile ma il buon gusto vuole che non lo si possa dire in pubblico. E anche questo è significativo perché se da un lato c’è un’economia-ottusa (non tutta l’economia lo è) che relega la cultura a un ruolo di complemento rispetto alle cose veramente importanti, dall’altro lato c’è un’intellualità-bene che, spingendo la cultura nella dimensione iperuranica, la rende di fatto inutile. In mezzo a queste due polarità c’è tutto il variegato mondo di chi oggi della cultura cerca di camparci. Ora però c’è un problema di metodo che pochissimi vogliono vedere.

Oggi, come dimostra un recente articolo di Giunta su Internazionale,  le humanities al tempo della crisi non pagano. Mi sarebbe piaciuto che Giunta avesse messo in relazione le sue puntuali riflessioni con le potenzialità inespresse delle attività culturali e creative. Si veda, ad esempio, il documento industrie-culturali-creative a firma di Pier Luigi Sacco pubblicato dal Sole. Ma mi piacerebbe, più in generale, che l’utilità pratica delle humanities  fosse dibattuta non solo e non tanto di per sè quanto nel panorama economico-culturale del paese. Il panorama complessivo, intendo, quello fatto di economia, cultura e società, non di una sua piccola parte. Mi piacerebbe che si prendessero in considerazione anche le riflessioni Montanari sul rapporto tra cultura e mercato.

Del resto il dibattito sull’utilità delle humanities prescinde dalla crisi e, anzi, affonda le radici in un’età molto anteriore a quella presente. Con tutte le cautele del caso, mi chiedo se non si possa individuare, addirittura, nel positivismo ottocentesco, con la sua esaltazione del progresso scientifico ai limiti del dogma. Mi piacerebbe che finalmente si arrivasse a discutere l’idea fondante che la nostra civiltà non si è mai basata solo su un discorso strettamente economico. Questo è ancora vero? E’  mai stato vero? Possiamo dire di possedere una civiltà se poi quella stessa civiltà viene privata di qualsiasi sostanza? E infine: che cos’è una civiltà? Perché può darsi benissimo che il futuro della civiltà occidentale abbia come esclusivo orizzonte la tecnica, la scienza, l’economia, i puri numeri. La cosa non mi scandalizzerebbe affatto. Quello che veramente mi infastidisce sono tutte quelle volte in cui si gira inotorno alla questione e non si ha il coraggio di affrontarla. In tutto questo, si è perso anche e soprattutto il senso della cittadinanza: “Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country”, diceva un tale Kennedy. Era il 1961: forse, dopo trent’anni, è arrivato il momento di chiederselo il relazione alle humanities. “Non chiederti cosa potrebbe fare il tuo paese per la cultura, chiediti cosa potrebbe fare la cultura per il tuo paese”. Chiediti cosa succederà quando un paese arriverà a poterne fare senza.

Ilaria Sabbatini

Per chiunque voglia rendersi conto della complessità ma anche dell’interesse dell’argomento in questione allego un po’ di materiali.

Le pietre e il popolo Montanari (abstract)

Il dubbio manifesto Tomaso Montanari

Manifesto Per una costituente della cultura

Stati Generali della Cultura, testi dell’iniziativa del Sole-24 Ore, con alcune note

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